Viaggio tra le ingiurie salentine
Aaah Lecce e il Salento… La terra del sole, del mare e del vento.
E non solo.
In questa stretta lingua di pianura baciata dalla brezza dell’Adriatico e accarezzata dalle onde dello Ionio, cammina elegantemente la Tradizione. Un’antica e affascinante signora, ammantata nelle sue origini messapiche, magnogreche, romane, normanne, bizantine, saracene, turche e spagnole.
Da tempo immemore, muove sapientemente le mani degli artigiani, partecipa commossa alle liturgie dei propri Santi e si posa lenta, sulle bocche dei suoi figli spietati, incapaci di abbassare l’ascia e mozzare la lingua, sempre pronti a sfregiare corpi e a ferire animi.
Ecco allora, che irrompe prepotentemente e senza preavviso, l’ingiuria.
L’ingiuria nella cultura salentina
Prima di esplorare il fenomeno dell’ingiuria nel contesto folkloristico salentino, è doveroso spiegare brevemente che cosa si intende quando usiamo questo termine in lingua italiana.
Secondo l’Enciclopedia Treccani, si definisce ingiuria:
”[…] ogni azione contro il diritto, intesa soprattutto come violazione delle norme giuridiche (e pertanto meno grave di iniquità che è violazione dell’equità)” o ”offesa recata mediante parole, atti, o mediante l’invio di scritti o disegni, all’onore o al decoro di una persona presente o con la quale si è in comunicazione postale, telefonica o telematica, perseguibile penalmente su querela dell’offeso”.
Ora, senza addentrarci nel mondo giuridico che può portare l’ingiuria, possiamo usare lo stesso concetto anche per ”lu ngiuru” (ingiuria in vernacolo) salentino, il quale non lasciava scampo a nessuno.
Per la cultura agreste salentina (e non solo), l’ingiuria è, come abbiamo accennato in precedenza, una peculiarità identitaria, alla quale, nonostante la suscettibilità, la popolazione ci tiene molto poiché segno di una storia che permea da tempi lontanissimi.
Questo radicato senso di tipicità potrebbe infatti spiegarsi come caratteristiche sopravvissute a quel lento e faticoso processo di omologazione nazionale ed europea.
Bastava davvero poco: un gesto abitudinario, il proprio mestiere, una malattia, una peculiarità fisica o psicologica, situazioni familiari più o meno complesse per essere bollati. Un soprannome che perforava l’identità e giungeva fino alle ossa, tanto da confondersi con le cellule delle generazioni successive.
Fantasia, pettegolezzo e malizia erano i protagonisti assoluti in un mondo che viveva lontano dal prêt-à–porter mediatico cui siamo abituati oggi.
Tra le vittime figuravano anche interi paesi e non solo persone. Difatti, con il presente approfondimento analizzeremo, senza offesa alcuna ma col solo scopo di diffondere cultura, le ingiurie con cui venivano identificati gli abitanti dei paesi salentini.
Tant’è vero che questo fenomeno fu oggetto di studio tra i primi antropologi, in particolare, è giusto citare Raffaele Lombardi Satriani e Gerhard Rohlfs, i quali con le loro opere di ricerca hanno regalato terreno fertile a nuovi studiosi del settore.
Preparatevi quindi, per un viaggio tra le più disparate armi vocali, fatte di cornuti, mangiaracali, figli di Turchi e figli di muli, stregoni, gatti, scannapidocchi e tanto altro.
Lista dei paesi salentini con le ingiurie di riferimento
Tra cani, gatti, maiali, asini e ranocchi
Tra i soprannomi più diffusi nel Salento, troviamo quelle di stampo zoologico.
Si sa, mettere un uomo al pari di un altro essere animale è il modo più semplice per denigrarlo o deriderlo sul piano morale, sociale e fisico.
Nulla di nuovo, se si pensa che più in generale, si usano i termini ”bestia” o ”animale” come insulti vaghi. Ne è un esempio Lizzanello e le sue fímmene bestie, dove le donne erano paragonate a bestie da soma, rivelandone la grande resistenza alla fatica della popolazione femminile del paese, contrariamente alla controparte maschile.
Ma il ”tacco d’Italia” non tradisce gli usi appresi dai suoi antenati. Infatti, dai padri greci ci sono giunti gli epiteti di cani e di maiali, utilizzati a Sternatia (sciddhi), a Calimera, a Muro Leccese e a Supersano (puerci/porci).
Ma non solo cani e maiali.
La penisola salentina è popolata dai pássari di Maglie (passeri), dai puricini di Tuglie (pulcini), dagli áuni/unágnuli (agnelli) di Arnesano (o mózzica-santi, cioè bestemmiatori) e Diso.
Ancora, troviamo le capre di Caprarica, i musci (gatti) di Patù, i cuzzíddhi (lumache) di Castrignano del Capo o le sacare (serpenti) di Melissano, i ciúcci di Botrugno, Surano, Martignano e Melpignano oppure le cuccuásci (civette) di Castrì (cuccuíu), di Galatina e di San Cassiano.
Infine, troviamo i ranocchi di Giuggianello (carnocchiulari), Leverano (ranucchiulari) e Palmariggi (cargnocculari).
Quando il lavoro non nobilita l’uomo ma lo identifica
Una serie di appellativi salentini fa riferimento solo alla professione più diffusa all’interno del paese verso cui ci si riferiva. Pertanto, in questo frangente, non ci dilungheremo in spiegazioni molto lunghe ma riporteremo solo una mera elencazione dei paesi e dei soprannomi di riferimento.
Caucinári (Taurisano)/ carcaruli (Surbo, chiamati anche cazza-malote, schiaccia scarafaggi): termini derivati da «carcára», la fornace dove si produceva la calce.
Spurtari (Acquarica): lavoratori di sporte e canestri di giunchi.
Cucuzzari (Tricase): produttori di zucche.
Zingari (Veglie): venditori di bestiame.
Scarpa pulita (Monteroni di Lecce): calzolai.
Zucari (Bagnolo del Salento): cordai.
Macennulari (Copertino): arcolai.
Pignatari (Cutrofiano), Stumpacrita (San Pietro in Lama): coloro che lavorano la terracotta.
Craunari/Furcunari (Nociglia): carbonai/contadini che facevano uso dei forconi.
Piscaturi (Gallipoli): pescatori.
Macari (Soleto): stregoni.
Ventre china cerca riposu (Pancia piena cerca riposo)
La fame è una brutta bestia, e lo sapevano bene le popolazioni contadine che pur di mantenersi in forze per lavorare, mangiavano la qualsiasi: lumache (cornuti alle cozze, Carmiano o cazzári, Cannole), rane (mangia-racáli, Lequile), fagioli o legumi (mangia-pasúli, San Cesario di Lecce), frise (mangia-friseddhe, Ruffano), miglio o verdure di campagna (mangia-miju/mangia-paparíne, Miggiano), caprifichi (mangia-brufichi, Andrano).
Tie o sì fessa o sì te campie (Tu o sei scemo o sei di Campi)
Talvolta l’ingiuria andava oltre il lavoro o la comparazione zoologica. Piuttosto, si andava di senso di superiorità, soprattutto intellettuale e di prestanza fisica. Ed ecco che subentravano le offese che prendevano di mira l’aspetto psicologico o fisico.
Curnuti (Squinzano): cornuti.
Scurlísci (Specchia): gente che tende a scivolare.
Sciudéi (Alessano, Carpignano): Giudei, gente che tradisce con troppa facilità il prossimo.
Carcagni tosti (Corsano): talloni duri, gente abituata a camminare sugli scogli.
Pacci (Martano, Racale, Spongano con l’aggiunta dell’aggettivo lunatici, pacci lunatici): pazzi.
Bruscia-pajare (Matino): persone irascibili.
Musi moddhi (Melendugno): musi molli, gente incapace di venire alle mani.
Ventri Janchi (Campi Salentina, Montesano, Parabita), Tuttu sensu (Guagnano), Mangani (Corigliano d’Otranto), Nighiati (Ortelle), Cucuzzari (Scorrano, Tricase), A ‘nfacce a mmare (Trepuzzi), Babbarabbà (Uggiano la Chiesa), Cola (Cursi), Capivacanti (Gagliano del Capo), Tira-trai (Sanarica), Cucummeri (San Donato di Lecce), Autru dicune, autru facene (”Altro dicono, altro fanno”, Galatone), Lenghi e ressi (”Alti e grossi”, Vernole) : scemi.
Cappiddhuzzi (Minervino): gente che se la tira.
Gente te cozzu (Neviano): gente di roccia, gente testarda.
Lardusi (Castrignano dei Greci): vanagloriosi.
Facce te quatari/Trapulini/Nasi uddhati (Novoli): imbroglioni.
Licca-viddhanzie (”Lecca bilance”, Poggiardo), Giaccure stritte (Salice Salentino): gente tirchia.
Mascarani (Presicce), Gente cu do facci (”Gente con due facce”, Taurisano): gente falsa.
Salve, sarvate (”Salve, salvati”, Salve), Ccidi patucchi (”Uccidi pidocchi”, Seclì): gente malandrina.
‘mposimati (Sogliano Cavour): signori eleganti.
Ventri ‘nchiati (Taviano): pancia piena (riferito ai danni della malaria).
Cufiari (Zollino): gente che rimugina dentro.
Saracini (Collepasso): gente avara, poco incline ai piaceri della vita e chiusa.
Ingiurie e vicende storiche
Non solo cattiveria ma anche la Storia, è stata motivo di inventiva per apostrofare alcuni abitanti del Salento.
Alezio, Picciuttari. Sulle origini di questo soprannome vi sono due ipotesi. La prima vede protagoniste le vicende storiche che avvennero in questo paese agli inizi del Settecento. Essendo Alezio uno dei centri culturali più fiorenti della Messapia, fu spesso assoggettato a incursioni romane e saracene che portarono gli abitanti a trasferirsi nei territori vicini. Gallipoli fu uno di questi. Ma il legame con la terra natía fu sempre presente nell’animo dei profughi aletini, i quali nel XVI secolo, grazie alla concessioni di estesi terreni concessi dal gallipolino Francisco Alemanno, dicto Picciotto de Gallipoli, poterono ricostruire il Casal d’Alezio, che fu chiamato Villa Picciotti.
La seconda teoria invece, sarebbe di derivazione siciliana, che indicherebbe ”ragazzi”. Questo perché Gallipoli era frequentata da molti pescatori siciliani stabilitisi proprio ad Alezio.
Alliste, Argerini. Secondo la leggenda, l’Arcangelo Gabriele avrebbe guidato i profughi, tra cui un gruppo di algerini, durante le incursioni saracene, proteggendoli nella fuga sotto le sue grandi ali.
Lecce, Sona-campane. Tra il XVII e il XVIII secolo, Lecce era considerata a tutti gli effetti una città-chiesa. Pertanto, non era difficile udire in tutte le ore del giorno campane suonare. Nonostante questo, l’ingiuria sona-campane, aveva un altro significato, cioè adulatori. Infatti Lecce, essendo abitata da tante famiglie aristocratiche che esercitavano un certo tipo di influenza, queste dovevano mantenere un decoro e un atteggiamento difensivo, e per farlo, usavano l’adulazione come mezzo.
I leccesi vengono chiamati anche musi-moddhi, cioè gente pacifica e incapace di venire alle mani.
Otranto, Figghi te Turchi. Questo appellativo nasce per ovvi motivi storici. Nel luglio del 1480, Otranto si trovò assediata dalla flotta ottomana, la quali compì le più atroci violenze mai viste, tra le quali la decapitazione di ottocento otrantini, le cui ossa sono conservate ancora oggi nella cattedrale.
Ugento, ”Senza fede né sacramento” (”Senza fede, né sacramente”). L’epiteto fa riferimento al fatto storico avvenuto nel 1739 che vede protagonista la popolazione ugentina e il mons. Ciccarelli, al quale fu affidato l’incarico di stabilire l’ordine nel paese. Ma la presenza della carica ecclesiastica ebbe l’effetto contrario, infatti, la ribellione peggiorò. Soprattutto quando il vescovo donò la campana commissionata alla chiesa di Ugento a quella di Altamura. Il popolo rivoltoso, costrinse Ciccarelli a lasciare il paese, il quale pronunciò la fatidica espressione che segnò per sempre gli ugentini.
Sperando di non aver offeso nessuno e di aver colto l’intento culturale di questo approfondimento, è doveroso citare le fonti da cui sono state estrapolate le relative informazioni: Supplemento al Quotidiano ”Babbarabbà ed altri ancora. I soprannomi paesani nelle province di Brindisi, Lecce e Taranto tra storia e fantasia” del 1990.