Unire l’utero al dilettevole. Anatomia di uno scandalo (?)
di Serena Milisenna
Nel 1968 Valie Export, artista austriaca, entrò in un cinema a luci rosse, armata di una mitragliatrice e con i pantaloni tagliati all’altezza dei genitali: li offrí audacemente allo sguardo di un pubblico atterrito.
Forse anche attonito.
L’anti-spettacolo si chiamava “Genital Panic“.
Bello o no, è divenuto il simbolo delle contestazioni sociali di allora.
Ora, per dovere di cronaca, l’arte è sempre stata piena di organi maschili e femminili. Certo prima di allora diversa era l’idea di nudo a cui, nei secoli, ci ha abituati la produzione artistica, libera dalle foglie di fico.
Ma è sul finire dell’Ottocento che la storia dell’arte si costella di scandali legati alla rappresentazione dell’anatomia femminile: si pensi all’Olympia del pre-impressionista Édouard Manet, che suscitò molto clamore per via del nudo integrale di una prostituta, che ammicca spudorata alla morigerata borghesia parigina.
Tale puttana, simbolicamente capace di rappresentare il vizio basso e becero, rompe lo status quo della rappresentazione idealizzata di dee e ninfe che popolano l’arte precedente.
Le sue pudenda restano, però, ancora celate dalla mano sinistra. Un piccolo rigurgito di pudore?
Di certo, tre anni dopo, Gustave Courbet si permette audacemente di scostare quella mano: ruota l’inquadratura, fa una zoommata, restituendo una vulva in primo piano pittorico e senza censure.
L'”Origine del mondo” avvia il realismo e celebra la fonte della vita.
Calma, calma! Non è porno.
Il dipinto, con riferimenti coloristici allo stile veneziano del Cinquecento, nonostante l’audacia della descrizione quasi anatomica, assume un potere seduttivo, però rimane sempre molto distante dalla pornografia. Tuttavia, fa ancora gridare allo scandalo (addirittura nel 2011 quei genitali saranno censurati pure da certa parte del popolo di Facebook).
Dal 1960 in poi il francese Yves Klein, di fronte al pubblico della parigina Galérie Internationale d’Art Contemporain, dà vita a Antropometrie: tre modelle imprimono i loro corpi nudi, cosparsi del colore blu brevettato dall’artista, su fogli di carta affissi alle pareti, lasciandovi le impronte stilizzate del ventre, delle cosce, delle minne e persino dei peli pubici. Klein dirà che quei corpi sono emanazione di energia vitale.
Ma rimane l’ombra dell’ oggettificazione alla visione dell’artista #masculo e le artiste femministe si ribellano e inizieranno a fare un uso autonomo del loro corpo come mezzo espressivo, ricorrendo spesso, a dirompenti performance e alla body art.
Tra gli anni Sessanta e Settanta, il corpo femminile diventa un campo di battaglia che scardina le certezze dei fruitori uomini e, per estensione, della società maschilista e patriarcale. Le donne rivendicano nuove identità, denunciano disuguaglianze di genere e vogliono opporsi a stereotipi e tabù legati alla sessualità e alle mestruazioni (ancora oggi rappresentate spesso in blu nella pubblicità: di noi donne si parla per interposta “persona” o liquido…).
Il brand Jesus Jeans, in ambito pubblicitario, metterà insieme il verbo del vangelo con un visual spiazzante: con un culo dentro short striminziti di jeans, Pirella e Oliviero Toscani daranno vita a “Chi mi ama mi segua”, una campagna promozionale dirompente.
Strumento di comunicazione, l’anatomia femminile è oggi interessante oggetto di lezioni sui processi di significazione. Se ne occupano la #semiotica dell’arte, la #connotazione, la #simbologia, la #sociologia. Molto utile per questo, all’Università, mi torna l’operato di #Mog, artista contemporanea che dipinge e scolpisce vagine. Perché?
Per combattere ancora tanti, troppi tabù.
Ora, a chi può far male la rappresentazione di un utero tra i capelli?
Non credo che il pensiero, che è vita, forza dirompente, cambiamento, possa essere rappresentato, ad esempio, come un motore fatto di parti meccaniche. Freddo, preciso, muscoloso come un cervello.
E nemmeno come un fumetto pieno di caos.
Il primo sarebbe troppo realista e banale, il secondo banale pure.
Quindi, in un’epoca in cui si parla di una nuova generazione di donne e del senso, se l’artista ha voluto – come penso – trattare la forza del pensiero… allora l’utero, per me, è un “motore” più giusto: è la rappresentazione simbolica e connotativa della forza delle donne che pensano, si armano di coraggio per affrontare il mondo, la vita, la cura, i ruoli sociali, la rabbia di essere stigmatizzate da secoli.
Un utero tra i capelli è un motore nuovo…un fermaglio mobile, vitale, che muove il pensiero, aggrovigliato in quella chioma esagerata, intricata…come la difficoltà di andare oltre.
Io non mi scandalizzerei.
È brutto? È bello? Che mè frega?
È un messaggio.
Vulva, vagina, utero, universalmente considerati simbolo della procreazione, dell’origine del mondo – come direbbe Courbet – per me si svincolano da riferimenti sessuali e diventano veicolo di messaggi nuovi, rivoluzionari, personali e sociali.
I giovani ci sono abituati. Ne parlano, usano simboli per esprimere nuovi concetti sociali.
Ne parliamo tanto anche facendo formazione, analisi degli stili pubblicitari, comunicazione.
Chiaramente ad ognuno la libertà di pensare, ma da sempre l’arte è metafora e da tempo inferno delle coscienze.
Solleva polvere e interrogativi. Laici (nella mia visione).
Non deve piacere. O meglio, può piacere o non piacere. L’arte comunica con forme che si evolvono.
Bisognerebbe leggere anche oltre.
La Cappella Sistina è a Roma e il 1564 passò.
Ciao!
(E fattela nnà risata…che nessuno è mai morto davanti ad un utero).
Serena Milisenna