Una nota sulla poesia d’oggi di Vincenzo Fiaschitello
La poesia del nostro tempo è quasi sempre caratterizzata da un linguaggio più vicino alla prosa. Io non credo che questo possa essere considerato un modo piuttosto semplicistico di deponteziamento del linguaggio poetico o una sorta di chiusura alla poesia, ma al contrario un servizio utile alla poesia, che così ha la possibilità di arricchirsi di stili e linguaggi diversi.
Ci si serve della poesia per affacciarci al passato, al mistero della vita di ogni giorno, per aprirci uno spiraglio e far entrare un raggio di sole, capace di dar senso a ciò che ci circonda, a tutte le precarietà e alle inevitabili oscillazioni tra la vita e la morte; per comprendere i limiti invalicabili del nostro agire e pensare, per accettare quella notte arcaica che ci vive dentro, quella notte dalla quale tutti abbiamo origine. I sogni, i ricordi, le emozioni, tracciano i sentieri più belli nel paradiso della parola.
I poeti sviluppano percorsi lirici che testimoniano della bellezza del mondo, ma che nel contempo non mancano di una visione malinconica proprio perché avvertono la non stabilità del tutto, l’inarrestabile fluire delle cose, la mutevolezza di ogni nostro rapporto con noi stessi e con gli altri. Quando sentiamo di diventare estranei ai luoghi che abbiamo sempre amato, lontani da coloro che non ci sono più, ecco che passare da un clima lirico a quello malinconico il passo è breve. Immagini e sentimenti lirici finiscono, come diceva il poeta greco Dionysios Solomos, con il concedere al poeta al massimo un ottimismo azzoppato.
La malinconia che aleggia spesso attorno ai versi dei poeti dipende, dunque, dal fatto che essendo sempre presente il pensiero del tempo e del suo trascorrere rapido nel passato, che solo la memoria può far rivivere, i poeti si ritrovano in maniera naturale a frugare nel destino di fragilità della vita, tra ombre scure che vanno a ricoprire la bellezza e quindi nella constatazione di una misura di sofferenza, di una presenza di morte che incombe su tutti i viventi. Ma navigare a vista lungo il corso dello Stige non esclusivamente dà vertigine e dolore, ma può essere anche il modo per recuperare quel silenzio interiore e quel senso di appartenenza alla vita, di riscoperta di cose semplici, di una luce celeste che squarcia l’oscurità del cielo, che dona la speranza e spinge ad accettare tutto ciò che comunque ci dondola attorno, quale segno di una parola divina creatrice.
Avvertire la fragilità della vita è molto semplice, magari cedendo alla disperazione, ma fuggirla è impossibile: non resta allora che renderla meno acuminata perché possa ferirci il più lievemente possibile. Questo può farlo la Bellezza, può farlo la Poesia. E’ la poesia, miele della vita, che risana i nostri sentimenti quando crollano come pilastri di templi antichi, che accende le nostre emozioni tra le ceneri degli eventi che costellano la nostra esistenza. E’ la poesia che dà conforto e sollievo all’anima quando è stanca, quando vaga lamentosa e smarrita tra l’indifferenza della gente, tra le luci ingannevoli di eleganti negozi, tra miseria e gonfi sovrabbondanti supermercati.
Vero è che la poesia è letteratura, ma è capace di scavarci dentro e scavandoci l’anima ci crea quel vuoto, quello spazio che ci allontana dal reale, diventa come l’occhio miope che non ci fa scorgere i contorni, che ci avvolge in una sorta di nebbia l’oggetto mirato. E tuttavia sappiamo che la realtà è là e che essa non solo sta lì in attesa di un nostro passo, è essa stessa che ci guarda, che ci viene incontro ora con dolcezza ora con violenza, col midollo e con la rugosa scorza. Se la poesia ha dunque un compito, questo è proprio quello di farci avvertire una distanza, una assenza, una illeggibilità di una erta esistenza nella quale siamo tutti radicati e al tempo stesso smarriti per l’incomprensione di significati che ci sfuggono dolorosamente.
Certe poesie potrebbero sembrare cariche di angoscia per una fine che si intuisce imminente: non mancano invece di mostrare come il breve o lungo viaggio della vita alla ricerca del tutto tende a concludersi in modo positivo perché anche il niente, tanto temuto, va a identificarsi in quel tutto che perciò diventa vita della fine, così com’è per tutti gli esseri della natura.
Oscillazione tra il tutto e il niente, altro non è che la cancellazione del tempo, il naufragio, la vertigine, la vittoria dell’oblio, del silenzio. Ma se il poeta è contornato dal silenzio, gli resta come possesso inalienabile una voce, quella della poesia che gli dona il privilegio di confrontarsi con l’altro silenzio, naturale e universale, in cui l’uomo è immerso. Spezzando questo silenzio e non solo quello della sfera personale, il poeta riesce ad esaltare la frammentarietà di una realtà, che non ha una collocazione precisa di spazio, ma che si estende in tutto l’universo, consapevole e umile nell’accettazione che l’uomo può cogliere qualche briciola, che non è tutto, ma nemmeno niente. E’ qualcosa! E’ il destino dell’uomo che certo rende inquieto il cuore e non lo appaga e, tuttavia, lo spinge ad essere libero ed esente da vani rimpianti, da ripiegamenti gravidi di tristezza che ne abbattono le forze del vivere.
La chiarezza della poesia non può non essere che una chiarezza onirica, dal momento che essa scaturisce da un materiale fatto di parole che evocano sentimenti, stati d’animo, suoni e ritmi oscillanti, pronte a respingersi e ad attrarsi misteriosamente. Ciò spiega perché la poesia si presta a una lettura multipla: è lontana da ogni astrattezza e genericità, è antiideologica, antididascalica. La frugalità verbale della poesia ha orrore della utilità, non intende liberarsi dalle contraddizioni del mondo, accetta la molteplicità, si piega all’ascolto delle piccole cose (fiori, erbe, piante, colori), ha angoscia e pietà verso la cupezza della realtà quotidiana. Il linguaggio poetico filtra il reale in tutte le sue sfaccettature, mostra i dettagli, ma non ne trattiene che l’essenza, ha la magia di andare al di là della materia, a rivelare il mistero che in fondo coincide con ciò che riconosciamo come Bellezza. E’ il suono delle parole, il loro accostamento al posto giusto che ci aiuta a scoprire quello che di noi stessi non conosciamo, che ci spinge ad inoltrarci in quel che ci oltrepassa. La poesia è una sorta di soffio di immortalità, di eternità, che ci compenetra, un fuoco che da millenni essa alimenta, pur se dolorosamente consapevole di non poter cambiare il destino dell’uomo sulla terra.
Mi piace qui evidenziare brevemente che al di là degli spunti lirici i poeti fanno spesso riferimento alla vita della natura, segno di una convinta visione ecologica, e in genere alla realtà oltraggiata dalla violenza, dalla incomprensione, dalle opposte e insuperabili ideologie o più semplicemente dalla sordità morale del singolo che senza scrupolo alcuno con la sua faccia losca ti strappa la borsa e per di più ti fa intendere di doverlo ringraziare per quel che di più prezioso ti lascia. Ma ancora più grave di tutto questo, nelle poesie emergono con assoluto doloroso stupore i terribili eventi legati alla guerra. Il poeta Mario Luzi, che aveva già vissuto gli anni della seconda guerra mondiale, nel 1999 a 85 anni così scriveva contro la guerra in Serbia: “Ogni minimo elemento costitutivo, ogni più sottile fibra vivente della cultura europea rifiutano la guerra in corso nel cuore dell’Europa come un feroce anacronismo e una regressione indecente nella scala dell’evoluzione civile. C’è un rigetto generale della coscienza europea e c’è una intollerabile umiliazione dello spirito europeo presente in ogni cittadino del continente, ne sia o non ne sia consapevole”.
Non so se c’è qualcuno che non sia disposto a condividere la saggezza di queste parole. E tuttavia oggi (2022) l’Europa versa in una situazione ancora più drammatica!
Otto poesie
di Vincenzo Fiaschitello
Ucraina
Ucraina, terra di grano
che il mondo sfami,
terra ora in fiamme per calura
e per napalm, più non ti chiedi
se meglio la spiga o il girasole
per gli immensi orizzonti senza altura.
Cerchiata di sangue e di rovine
ti affidi al cuore della tua gente.
Quale dolore dilaga lungo le vie
delle città e i campi ricoperti
da insepolti corpi! Quale angoscia
per i bimbi spennati d’ogni sorriso
e affetto, pigolanti nell’aria
come uccelli scacciati dai loro
nidi, nutriti ora da altra linfa
immessa con violenza nelle loro vene!
Il senso del tempo e della vita
L’acciottolio sul sentiero del gran
parco solleva il mio pensiero
all’irriducibile meta del giovanile
progetto di vita. Quanti domani
lasciati cadere come boccioli
di fiori non destinati a portare frutti!
Tutti domani albeggianti almeno
per dirli tali, ma non maturati affatto,
non attraversati da una volontà ferma,
non volubile, come nube mutevole
sospinta dai venti. Mi è dolce dilagare
nella luce del pensiero sempre vivo
di quel quadrupede della razza umana
che una sera d’autunno, per primo,
s’alzò in piedi e guardò il cielo stellato,
da cui cominciò a colare terribilmente,
goccia dopo goccia, la comprensione
del senso del tempo e della vita.
L’effimero istante
Per quali vie allora vagava
il tuo profondo cuore, dov’era?
Nella perduta innocenza?
Nella volontà innamorata di seguire
una verità che altri con gioia paterna
sminuzzava per te?
Con fedeltà costruivi l’itinerario
del tuo terrestre viaggio.
Ma quante e quali prove ad ogni
bivio, dove la luce si velava
e fermava il tuo incerto passo!
E sempre torna la sera, e torna la notte,
sale il giorno sul cuore dei ricordi:
non c’è passato né futuro meno reale
del presente. E’ così che l’effimero istante
si fa eterno, glorioso nella gioia e nel dolore.
L’anima della terra
Anima dei boschi, dei fiumi,
dei monti e dei mari,
ti hanno strangolata gli uomini.
Che resta del tuo silenzio
assoluto della prima alba
universale? del fuoco che nutriva
il tuo infinito ardore?
Che resta dei tuoi colori accesi?
del verde dei tuoi campi?
del turchese dei tuoi mari?
del tuo cielo d’aria tersa?
Soffri resisti speri e il tuo
pianto trattieni. Questa selvaggia
avida genia di uomini correre
dovrà verso la moderazione
di bisogni e desideri se marciare
non vuole al passo di una
spettrale danza.
Tu fuggito da te stesso
Tu fuggito da te stesso, cuore,
deposto il desiderio di solitudine,
pure succhiavi aria e luce da un cielo
di sapore amaro. Nulla accendeva
il tuo ardore di un tempo.
Quale pensiero ignoto ti solcava
nel profondo fino al lamento
di una mancanza che ti lasciava
senza respiro? Ti consumavi
in doppiezza di vita e rimpiangevi
la primitiva prigionia. Evaso, provavi
quella felicità sempre sognata,
acquartierata in ogni angolo dell’esistenza,
felicità vigilante, acquattata, pronta
a scattare per infliggerti grevemente
le pene del quotidiano fare.
E, tuttavia, ti seduceva l’estate, maturata
nel profumo voluttuoso del gelsomino
d’Arabia che nell’aria altercava
col fumo degli arrosti dei picnic.
Rondini e lucciole
Amico, fino ad oggi 10 agosto
giorno caldissimo, non ho visto
volare nel cielo di Roma
nemmeno una rondine.
Mi scrivi in WhatsAppe che ti godi
il buon fresco dei monti d’Abruzzo
e hai sotto gli occhi più di un volo
stridente di rondini. Come non dirti:
Te beato! Forse ricorderai anche tu
il tempo della fanciullezza quando
provavamo invano a contarle nel cielo
del nostro antico paese del sud
dove le tegole delle case benevolmente
custodivano i loro nidi.
E le lucciole?…le lucciole?
La sera ne è piena? Non più?
Spento il firmamento notturno per erbe
e fiori, volate via per sempre le fate
magate recanti piccole lanterne accese!
Sfavillio di anime sorprese dai tempi
nuovi: non ingannatevi però, siete
ancora nel cuore di chi vi ama.
Vecchio cammelliere
Acqua marina, ti sommuove un nume!
Quale luce attendi che si fondi
come essenza nella tua sostanza?
Acqua marina, che da te si è mossa
la nostra razza verso la misteriosa
scala dell’evoluzione, sei specchio
di sale d’azzurri cieli. A te, vecchio
cammelliere, fu dato solo
di agognarli. Restasti tra le dune
di assolati deserti, privi d’ombre
di palmizi e ora ricco di sogni come
grani di sabbia, sprofondi nei giorni
sperduti del tempo passato.
Lunga è la notte, ma il giorno
S folgorante presto bussa alle porte,
ti accompagni il pensiero del sempiterno
cammino del pellegrino sulla via
di Santiago de Compostela.
L’aurora
Se l’insonnia ti attanaglia
non vedi l’ora che giunga
l’aurora. Ma che canaglia
è il mondo, dice quella,
sempre a illuminare lo stesso
male, io non ci sto! Stavolta
svolto dietro le colline,
mi copro il volto e tardo
ancora di più ad arrivare.
Arrossisce l’aurora: per rabbia?
per vergogna? Poi, per inalterato
amore per la terra e i suoi viventi,
disarma la sua ira, addolcisce
il suo aspetto, da sé allontanando
il velo delle nubi, teneramente
strizzando l’aria mattutina
fa vibrare la sua luce sulle cime
dei monti e nelle valli.