IL PENSIERO MEDITERRANEO

Incontri di Culture sulle sponde del mediterraneo – Rivista Culturale online

“Un ragazzo degli anni settanta” Una storia in dieci puntate di Tiziana Leopizzi (Capitolo 1/10)

La-costanza-e-il-cambiamento-Franco-Repetto

La-costanza-e-il-cambiamento-Franco-Repetto

Vi presento Franco Repetto, pittore, scultore, docente, artista della committenza, colto e umile, generoso e curioso, coraggioso e tenace, simpatico e amatissimo dai suoi alunni.

Questa la sua storia, così lontana, cosi vicina… ma lasciamo a lui il mouse.

FIRENZE  1974 – 1978   

Agli orali dell’esame di Maturità Artistica, il giorno 19 luglio 1974, festeggiavo il mio ventesimo compleanno (ero in ritardo a causa di quei due anni persi lungo il percorso scolastico che, in allora, mi creavano qualche vergogna mentre oggi rafforzano il mio curriculum).

Vent’anni di ingenue paure, di animose speranze, di desiderio di prove e conferme, di sana miscellanea tra mito di serietà sociale e di incurante menefreghismo. Ero comunque già ben zuppo di passione provata per la Scultura. Quella stessa Scultura che, consapevolmente sin dall’inizio, non ho mai considerato come conquista ma come magico e misterioso “dono”. Chissà  chi e chissà perché, qualcuno infuse in me, assieme alla ragione, questa necessità vitale di spazio tridimensionale che di giorno in giorno lievitò e si strutturò in maniera così pregna e imprescindibile.

Molti erano convinti che tutto ciò fosse un sogno e un desiderio transitorio destinato a soccombere e sparire nel corso di quegli anni così crudi ma al contempo così autentici.

Anni liceali nei quali lo studio e le attente scoperte, fecero crescere nel mio profondo la spinta a cimentarmi, a paragonarmi, a provare a muso duro sino a che punto avrei potuto inoltrarmi in quella vita fascinosa cavalcando questa Arte.

Oggi affermo con perentorietà e rassegnazione di non aver mai provato ripensamenti neppure nei periodi più avversi, anzi, gran timore e tristezza se avessi dovuto sottrarmi a questo infernale paradiso.

“Volevi arrivare qua, ora ci sei. Vai avanti !”

Con un diploma tra le mani come si comporta un giovanissimo scultore in erba che si affaccia allo sfaccettato mondo del lavoro tridimensionale ?

Diciamo che in me, che già lavoravo a qualche piccola commissione, era molto limpida la scelta di proseguire gli studi  istituzionali ovvero l’Accademia di Belle Arti e indiscutibilmente frequentare la Scuola di Scultura che, sostengo fortunatamente, a Genova non esisteva, quindi quale più alettante occasione di fuggire almeno qualche anno dai ligustici confini?

In allora trasferirsi per motivi di studio in un’altra città non era da tutti. Retaggi, difficoltà economiche, poca e frammentata informazione, difficoltà di comunicazioni, ecc … ma, patteggiando con genitori e soprattutto con me stesso, andai!

Conoscendo le mie non agiate origini artigiane, sentivo che il trasferimento fuori città doveva volgere prevalentemente ad una solida formazione culturale. Il mio interesse di acquisire ed anche affinare quasi esclusivamente le pratiche tecniche era davvero minimo. La mia esigenza non era quella di imparare un mestiere ma di costruirmi una resistente struttura intellettuale. Già godevo di abilità tecniche spiccate per cui, per ora mi serviva altro.

Ricordo le voci comunque amiche di parenti, amici, conoscenti che, con un ragionamento ovvio quanto ingenuo, mi domandavano: “Perché non vai a Carrara? Perché non alla milanese Brera? Perché non a Roma o Venezia?

In realtà da buon “Bastian contrario”, sostenevo anche troppo frettolosamente queste motivazioni forse frutto della mia limitata esperienza:

Carrara = tanto baccano, polvere, miti di tonnellate di materiale ma la Scultura non è soltanto fatica e picchiare.

Brera = Anonimato assoluto, arrivismo e snobismo, numeri sempre iper tanto da limitare i reali e mirati momenti formativi, troppa competitività e frenesia, ne sarei fuggito.

Roma = Illimitato numero di nominativi, vasta città dispersiva sebbene carica di storia.

Venezia e Bologna = Magiche realtà però prevalentemente volte all’ambito della Pittura.  

Ero altresì convinto che essere allievo di un alto e “tonante” Maestro (come in allora abbastanza frequente nelle Accademie italiane) sarebbe stato un carico asfissiante per chiunque. Mi pervenivano esempi indicativi del tipo: “O ti adegui all’ombra del capo o sei tritato dall’oblio” oppure ”I grandi Maestri non hanno molto tempo per gli studenti … per essere visto, dovrai diventare un loro sottoprodotto o peggio mai sentirsi riconosciuto e raramente appellato sempre con lo stesso approccio, tipo “E tu chi sei? Da dove vieni? … da Genova, aaaahhh Belin Belin… che buono il vostro pesto! … ma perché fai queste cose, guarda i miei testi monografici …. Studia studia!” mai un commento o una osservazione mirata. Il Maestro è sempre impegnato in tutt’altro .

Ed ecco qua la mia scelta, Firenze! Centro medio piccolo, storicizzato, culla e patria palpitante della scultura rinascimentale e non solo. Accademia romanzata e con docenti medio alti o spesso di esclusiva eccellenza locale. Realtà tradizionale ma spinta di riflesso verso la ricerca. Città elegante ma non estrema. Un parco museale mondiale dove tutto ciò che era esposto, almeno in quei tempi, era a portata umana.

Il clima di quegli anni era di autentica e forte contestazione. In città fortemente segnate dalla tradizione si venivano a creare movimenti di fortissimo contrasto. Il legame con il passato trasudante era opposto al clima dissacrante vigente. Il tutto era estremamente interessante.

Firenze non avrebbe mai facilmente gettato alle ortiche il suo patrimonio e quella sua raffinata cultura indiscutibilmente indispensabile al sapere ed al ricercare anche in quel futuro rivoluzionario.

Si, sarebbe stata proprio la mia nuova città!

Capitolo 1°

Giunsi a Firenze nei primi giorni di settembre del ’74. Occhi spalancati, valigia pesantissima, cuore gonfio, e futuro tra le mani.

Comunque certo di “piantar picchetti” in quel territorio per me nuovo.

Conoscevo già un poco la città per via delle precedenti visite museali effettuate per mio conto. Di certo meno estesa, caotica, e veloce di Genova con un centro ben più pedonale ma comunque frequentatissimo in ogni stagione da tutte le “lingue” del mondo. Comitive colorate lungo ogni  stretto  marciapiede. Miriade di sfreccianti “rugginoni” con trillanti campanelli “a dito”.

Una bonaria vita quotidiana che si percepiva tutta a piano strada. Tra corsi e strade era frequente essere accompagnati da suoni di studio musicale. Pianoforti, poi violini, poi saxofoni ed oboe, oppure scale gorgheggiate da voci femminili o maschili. Come pure rumore di fabbri, falegnami e marmisti all’opera, folate di profumi di cibo o di pungente e sgradevole puzza di legno usato e zuppo di vino vecchio. Trambusto di carretti con ruote in ferro scricchiolanti sopra impervi selciati. Poco asfalto e pure sterco di cavallo da “birroccio”.

Un piacevolissimo e coloratissimo “sgonnellare” di bellissime ragazze sorridenti, aspetto libero e teste alte, orgogliose e disinvolte. Gruppi di strambi “figli dei fiori” più cotti che convinti, in libero passeggio senza meta.

Inconsuete insegne dipinte o scritte con mano incerta  a me del tutto sconosciute, tipo : “Mescita”, “Vino a banco”, “Mesticheria”, “Qua ova”, “Ritorcitore”, “Ferraio”, “Pellaio”, eccc …

E poi fantasiose bestemmie “col sorriso”, buttate li all’inizio o al termine di ogni frase espressa da uomini o donne, bimbi o adulti, ricchi o poveri, vecchi e forse pure da preti, che però nulla avevano di offensivo né alla morale né al Capo Supremo.

Per comprendere queste emozioni è oggi indispensabile immaginare una Firenze anni ’70, una realtà per lo più ormai scomparsa e, a cinquant’anni di distanza, davvero impensabile.

LA PROSSIMA PUNTATA SARÀ PUBBLICATA IL 10 DICEMBRE

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