Un piemontese tra i ribelli Borbonici
di Dario Pasero
Fortunatamente già da alcuni anni gli storici più obiettivi e attenti del Risorgimento in Italia hanno cominciato ad inquadrare nelle loro giuste coordinate alcuni fenomeni, come il cosiddetto “brigantaggio” meridionale, che è così passato da una condizione (negativa) di rivolta che, scaturita da un generico senso di “malcontento” popolare, si era tradotta in gesti di violenza e di delinquenza comune ad una di vera e propria insurrezione politica fondata sulla volontà di riportare il Regno di Napoli al suo legittimo sovrano, acquisendo così i connotati di una vera e propria guerra civile tra i sostenitori di due stati, quello borbonico e quello sabaudo. Va da sé che, in questa nuova prospettiva storica, non certo tutti, ma almeno la maggior parte[1], dei “briganti” hanno recuperato il ruolo più loro consono, cioè quello di combattenti idealisti per una causa che essi ritenevano santa e giusta, anche se la Storia (dei vincitori) sembrò dare loro torto.
Un tassello non ancora completamente inserito in questo nuovo mosaico che si è andato formando dei poco meno di dieci anni di storia patria successivi alla proclamazione del Regno d’Italia (1861-1870) è quello riguardante quanti, nati nell’Italia settentrionale (e quindi non ex sudditi di Francesco II di Borbone), scelsero tuttavia di stare tra le fila degli insorti, spinti – ed ancora non è chiarito per tutti – o da vero slancio ideale o non piuttosto da una più quotidiana concretezza molto vicina, talora e per alcuni, all’opportunismo. Qualunque sia stata la loro motivazione, il fatto è che comunque alcuni “italiani” del Nord con i briganti combatterono, guadagnandosi talora anche la stima dei loro comandanti.
È il caso di due sudditi di Vittorio Emanuele II re di Sardegna e poi d’Italia, due piemontesi quindi, che i casi della vita portarono ad arruolarsi nella banda capitanata da Pasquale Domenico Romano (1833-1863)[2] di Gioia del Colle in provincia di Bari, detto dai suoi uomini “il Maggiore”.
Uno dei due piemontesi tra questi ribelli fu un tal (non meglio identificato) Carlo Pascone (o Cascone), il cui nome è presente nell’Elenco […] delle ricerche […] per l’arresto dei briganti […] della banda del Sergente di Gioja, cioè il Romano, ma del quale allo stato attuale null’altro sappiamo. L’altro, invece, di cui meglio possiamo chiarire i dati, fu Carlo Antonio Gastaldi di Graglia (Biella), soldato del 16° regg.to di fanteria. Costui, nato nella piccola borgata di Vagliùmina (nel comune di Graglia) il 2 novembre 1834, era il secondo dei quattro figli (una femmina, Petronilla, e tre maschi, il nostro Carlo Antonio, poi Giovanni Battista e infine Giuseppe Eugenio) di Elia, di professione “selciatore” (ciolin), e di Maria Borrione. Carlo Antonio, di professione “scardazzino” (scardassin, cioè “cardatore”), era stato arruolato nell’esercito, allora ancora sardo, nel 1855, anche se in realtà, in virtù della legge che allora regolava il servizio militare, era stato chiamato in servizio solamente nel 1858, dopo che la guerra di Crimea aveva aperto notevoli vuoti nelle file dei coscritti piemontesi[3]. Il 30 e 31 maggio del 1859, nel corso della II guerra di indipendenza, egli combatté a Palestro, dove si guadagnò una medaglia d’argento al valore; dopo tale battaglia però aveva disertato e così, a metà circa del mese di giugno seguente, mentre si dirigeva verso la Svizzera, fu arrestato a Bellano, sulla riva lecchese del lago di Como, e condotto in carcere a Brescia. Processato, fu condannato a tre anni di carcere militare, ma tale pena, abbastanza mite in grazia, forse, del fatto che la guerra fosse terminata, ma soprattutto in considerazione della medaglia d’argento, gli fu poi (aprile 1860) ridotta a due anni, per essere poi graziato nel mese di settembre dello stesso anno. Tornato così sotto le armi, nel marzo del 1861 disertò nuovamente e tornò a casa, ma ai primi di aprile si presentò spontaneamente al comando militare di Biella, da dove fu spedito in carcere a Torino. Nuovamente processato, ebbe un anno di carcere, ma la grazia sovrana lo fece uscire nel gennaio 1862.
Ci avviciniamo così al momento in cui il nostro Carlo farà la conoscenza con una realtà molto diversa da quelle da lui fino ad allora conosciute: le regioni meridionali (e precisamente la Puglia) sconvolte dalla guerra civile. Inviato prima a Taranto e poi a Brindisi, dovette fronteggiare col suo reparto la banda di Pasquale Romano, ex primo sergente ed alfiere dell’esercito borbonico, nuovo comandante generale del “Comitato borbonico segreto” del suo paese natale, dopo che erano stati imprigionati i precedenti responsabili del circolo, tra cui il Presidente Giuseppe Musci. Nel luglio del 1861 Romano, guidando una banda di contadini e con la bandiera bianca coi gigli di Borbone, aveva conquistato Gioia del Colle. Il giorno successivo, tuttavia, Romano e pochi dei suoi furono costretti a fuggire per l’attacco di una compagnia di fanti italiani insieme ai rinforzi delle guardie nazionali dei paesi vicini. Nell’estate del 1862 la banda Romano, forte di circa 200 uomini[4], che, per esservi accettati, dovevano giurare fedeltà ai Borboni ed alla religione cattolica, spostatasi dalla Terra di Bari a quella d’Otranto, fu tra quelle che decisero di federarsi per meglio fronteggiare l’esercito invasore. Nel frattempo il buon Gastaldi viene inviato, per decisione del Comando generale, al forte di Fenestrelle, sopra Pinerolo, ma ancora una volta egli, dopo essere giunto a Fasano nella notte tra il 17 e il 18 novembre, decide di lasciare “unilateralmente” l’esercito e così evade insieme ad altri due commilitoni, venendo dunque nuovamente dichiarato disertore. A questo punto ci manca un anello, quello relativo all’incontro tra Gastaldi (e presumibilmente anche gli altri due disertori, ma certamente almeno uno di essi, cioè Pascone/Cascone) e il sergente Romano; tuttavia sappiamo che nella notte del 21 successivo, in un’azione di guerriglia che porta la banda Romano ad impadronirsi del paese di Carovigno, uno dei primi ad entrare in paese è un brigante che si auto-definisce “guardia piemontese”: è quasi certamente il nostro Carlo, che si è messo subito al servizio della causa anti-italiana e, vestendo ancora la sua vecchia divisa, ha ingannato le sentinelle di guardia ai limiti del paese. Questo è purtroppo l’ultimo grande successo della banda Romano che, al grido di “Viva la Santa Fede! Viva Francesco!”, prende possesso di Carovigno. Nel mese e mezzo seguente (tanto durerà ancora l’epopea della banda) Gastaldi diventerà uno tra i migliori amici e confidenti del capo, oltre che suo luogotenente. Ciò ci viene chiarito dagli atti del processo, durante il quale Gastaldi testimoniò, oltre che sulle avventure galanti del comandante, anche sulle paghe ai ribelli che erano pagate, pressoché sempre puntuali, dal comitato borbonico di Roma, ma anche da circoli legittimisti parigini, mentre le munizioni giungevano grazie ad un sacerdote di Noci, ma residente a Roma, Don Miccolis, che le faceva imbarcare a Civitavecchia per essere quindi sbarcate in un luogo sicuro vicino a Taranto.
Da Carovigno Romano decide di muovere verso Martina Franca, nella foresta delle Pianelle, dove si trova il suo quartier generale. Con l’aiuto della banda di Cosimo Mazzei (o Mazzeo), detto Pizzichicchio, riesce ad eludere il cerchio stretto da esercito, carabinieri e guardia nazionale, ma deve dirigersi a sud invece che a nord. Occupata la masseria Santoria, il gruppo riceve l’aiuto di molti contadini, che inneggiano a Francesco II e invitano i patrioti a “pulire il paese” dai liberali. Dopo una scaramuccia con la guardia nazionale, la banda si muove di nuovo verso sud e, passando per Maruggio, Grottaglie, Massafra e Mòttola, giunge infine al bosco delle Pianelle, dove Romano riprende il progetto di federare tutte le bande di ribelli, in particolare quella di Carmine Donatelli (detto Crocco), operante in Basilicata.
È giunto intanto il mese di dicembre e molte bande che operano tra Bari e Taranto si ritrovano alla masseria di San Domenico, dove però sono attaccate da un plotone di soldati italiani. Le cose volgono al peggio per i ribelli e così Romano si ritira, mentre molti dei suoi sono uccisi, catturati o si danno alla fuga. Da tutto questo bailamme Gastaldi è uscito illeso, insieme ai pochi sganciatisi con Romano e che, ritornati alle Pianelle, decidono di sciogliere la banda. Il capo e Gastaldi, con pochi superstiti alle Pianelle, passati alla masseria del convento di Santa Chiara di Noci per cercare viveri dal massaro Antonio Calumi, che già altre volte li aveva aiutati, si trovano davanti un sacerdote, Don Vito Nicola Tinella (o Tinelli), il quale la domenica era solito recarsi alla masseria per celebrarvi la Santa Messa. Il sacerdote si intrattiene cordialmente coi ribelli ed uno di essi, qualificandosi come “piemontese”, gli chiede con gentilezza di prendere una sua lettera da inviare al padre. Don Tinella accetta e, allontanatosi della masseria, legge la lettera ma, temendo complicazioni con l’autorità, la strappa, pur conservandola[5]. Nella prima metà di dicembre ciò che resta della banda compie ancora alcune scorrerie nelle campagne per procurarsi viveri ed indumenti, trascorrendo poi il Natale nelle campagne intorno a Gioia del Colle, dove, pochi giorni dopo, viene intercettato da un reparto della guardia nazionale, subendo altre perdite e venendo i superstiti obbligati a fuggire nuovamente. Ai primi di gennaio Romano tenta un’imboscata alla guardia nazionale di Altamura, che è costretta a ritirarsi lasciando sul terreno anche il sergente Angelo de Stasio, liberale del ’48, al cadavere del quale il ribelle Giuseppe de Caro, con un gesto degno di uno scalpatore pellerossa, taglia la cute del mento ornato dalla barbetta “alla moschettiera” (simbolo dei liberali) per conservarla, per ricordo e trofeo, sotto sale. Dopo questo scontro Romano torna il 5 gennaio verso casa, ma al bosco della Vallata viene circondato dalle guardie nazionali appoggiate da una sessantina di cavalleggeri del reggimento “Saluzzo”. Dopo un breve combattimento Romano venne ferito e poi, mentre chiedeva ad un sergente cavalleggero di poter morire fucilato (“Finitemi da soldato!”), fu da questo ucciso a sciabolate, urlando “Muori da brigante”. La sua epopea era durata dal 28 luglio 1861 al 5 gennaio 1862: poco più di cinque mesi…
Tra gli scampati al massacro finale della banda (22 morti sul campo e due prigionieri, di cui uno fucilato immediatamente, mentre l’altro si salva in grazia della sua giovane età: 14 anni) c’è Gastaldi, che riesce a fuggire con pochi altri, nascondendosi nella masseria Maggitillo, presso Fasano, ma ai primi di aprile preferisce consegnarsi alle autorità militari, a Bari. Subisce così due processi: uno in sede penale, insieme ad una ventina di altri ribelli, e l’altro militare, che terminarono, il primo nel 1864 con una condanna a 15 anni di lavori forzati, il secondo nel 1865 con la condanna ad altri 18 anni, sempre di lavori forzati; in seguito a questa seconda condanna egli fu radiato per sempre dall’esercito. È, questa, l’ultima notizia che abbiamo di lui. Non sappiamo quando e come morì, né se abbia scontato tutti gli anni di condanna oppure solo una parte.
Alcuni suoi particolari fisiognomici ce li dà il foglio matricolare del distretto di Biella: altezza normale (1,64), occhi azzurri, capelli castani, naso e bocca regolari, mento rotondo, viso ovale, senza segni particolari. Discretamente un bel giovane, possiamo immaginare. Invece, per gli aspetti psicologici e morali qualcosa possiamo – come detto – ricavare dai frammenti superstiti della lettera al padre da lui consegnata a Don Tinella. Dalla testimonianza, resa al processo dallo stesso Don Tinella, ricaviamo per intanto che il giovane “piemontese” lo avvicinò con fare cordiale, chiedendogli cortesemente (“abbiate la bontà”) di far pervenire, tramite posta, una sua lettera alla famiglia. Si sta avvicinando il Natale e Gastaldi, da buon figlio, ha piacere di far avere sue notizie al padre, cui la lettera era indirizzata e che quindi sapeva leggere, ed alla madre, seppur analfabeta. Sempre da Don Tinella apprendiamo ancora che la mattina seguente (domenica) i “briganti”, e quindi anche Gastaldi, assistettero attenti e compunti alla Santa Messa.
Venendo ora ai contenuti (pur frammentari) della lettera, coniugabili tuttavia sempre con gli atti del processo relativi all’incontro tra il canonico ed il “piemontese”, leggiamo alcune notizie e considerazioni molto interessanti. Innanzi tutto il Gastaldi non ha abbandonato un certo atteggiamento di “guasconeria” (che rileviamo da alcune informazioni che al tribunale giudicante pervennero su di lui dal sindaco di Graglia)[6], che gli fa dire: “Quasi tutti i giorni noi si combattiamo colle truppe e colla (guardia; n.d.A.) nazionale ma la maggior parte siamo sempre vincitori”[7]. A parte il fatto che dalle notizie di cronaca sappiamo che i combattimenti non erano così frequenti, rileviamo poi che in realtà la banda Romano in quei giorni non era certo vittoriosa, come celebra Gastaldi, ma anzi versava in acque piuttosto agitate. Segue poi un paragrafo che sarebbe certamente molto interessante se non fosse sfigurato dalle lacerazioni determinate dall’essere stata la lettera strappata dal canonico: si parla infatti dei prigionieri borbonici reclusi in Piemonte (sappiamo principalmente nel forte di Fenestrelle) e, presumibilmente, egli domanda al padre di cercare notizie su alcuni di essi. Terzo aspetto interessante è che dal testo, integrato tuttavia dalla testimonianza processuale, veniamo a conoscere che i compagni di Gastaldi rivendicavano con forza la loro condizione di “soldati del Re” e non accettavano certo di essere qualificati come “briganti”. “Non sono i briganti come gli dicono […] non credete che […] vadano rubando ovvero […] case, no questo non è vero […] soldati fedeli al suo re Francesco dicono di riaverlo di nuovo […] ovvero sia fargli […] suo stato”. Aggiunge a questo punto Don Tinella di ricordare anche un passo che affermava: “Con la venuta dello stesso (cioè Francesco II; n.d.A.) sarebbero stati remunerati delle loro fatiche fatte a vantaggio dello stesso”.
Parlando di sé, poi, Gastaldi conforta i suoi dicendo “state allegri non pensate a me ma pregate solo Dio […] muoia nel combattimento”.
Cosa si può dire per concludere questo ritratto di un “ribelle anomalo” quale fu Carlo Gastaldi? Delle sue scelte “politiche” (ed è proprio ciò che più ci interessa) non possiamo purtroppo dire nulla di certo, ma solo avanzare ipotesi.
L’unico studioso che fino ad ora si sia occupato in modo specifico di lui, e cioè il biellese Gustavo Buratti[8], partendo dalla sua analisi del mondo e della storia fondata su coordinate socialistico-libertarie (fino a sfiorare, per sua stessa ammissione, l’anarchismo), ce ne dà una spiegazione – ovviamente – in chiave “socio-libertaria”. Gastaldi, operaio tessile[9], venuto a contatto con l’ambiente dei poveri contadini “proletari” del meridione d’Italia, avrebbe in essi visto delle persone che condividevano i suoi stessi aspetti (dolorosi) dell’esistenza e così avrebbe deciso di schierarsi accanto ad essi, convinto (anche se in una visione fondata sulla immediata ed irriflessa “simpatia”, in senso etimologico, tra oppressi e sfruttati e quindi con una volontà, per così dire, “pre-politica”) di combattere per il riscatto della povera gente[10].
Un’altra interpretazione, anch’essa fondata non tanto su dati certi ed inoppugnabili quanto su impressioni che scaturiscono dalla lettura dei dati biografici in nostro possesso, potrebbe asserire che la scelta di Gastaldi fu motivata da ragioni di opportunità: pluri-disertore (anche se con atti di valore militare alle spalle, testimoniati dalla medaglia d’argento meritata a Palestro)[11], desideroso di stare il più lontano possibile dall’esercito italiano e dai suoi tribunali, avrebbe fatto – come si suol dire – di necessità virtù e quindi, pur di prendere le distanze (materiali e morali) dal suo vecchio esercito, avrebbe accettato ciò che la situazione gli offriva, cioè l’arruolamento tra i ribelli. La cosa potrebbe essere confermata dal fatto che, mentre Romano morì in battaglia, Gastaldi, che pure possiamo immaginare essere il suo braccio destro, preferì allontanarsi e poi presentarsi alle autorità per testimoniare poi al processo sulle attività della sua ex-banda, confidando – come si vociferava in quei giorni e come in effetti poi avvenne ex lege 13 agosto 1863 – in un gesto di magnanimità delle autorità.
L’unico appiglio cui ci si può riferire per tentare, se non di fornire le motivazioni profonde, di chiarire almeno l’atteggiamento di Gastaldi nei confronti dei suoi compagni e delle loro ragioni è comunque la lettera, che abbiamo analizzato supra, che Gastaldi affidò a Don Tinella da far pervenire al padre. Da tale lettera, come si è visto, sembra uscire il ritratto di un giovane religioso (chiede preghiere ai famigliari), che elogia (e forse ammira) i suoi compagni (non “briganti”, ma obbedienti al loro sovrano) e che spera di morire in combattimento. E poi, perché sentire la necessità di dare ai famigliari queste notizie sui suoi compagni? Una volta saputo che il figlio stava bene, cosa poteva importare al padre se il figlio si accompagnava a degli idealisti e patrioti e che combatteva egli stesso per una buona causa, se ciò non fosse stato vero? Se Gastaldi fosse stato un mero opportunista perché – ripeto – preoccuparsi di dare tali informazioni alla famiglia? Inoltre, se la lettera fosse caduta in mani sbagliate o se il padre l’avesse fatta leggere a qualche estraneo il sapere che egli era al fianco di ribelli “nemici dello stato”, più ancora che “briganti”, poteva essere molto più compromettente che non lasciare il dubbio, non dicendo nulla di più, che la sua fosse stata una semplice scelta di un disertore opportunista. In conclusione, quindi, ci sono buone probabilità di ritenere che Gastaldi fosse comunque convinto di ciò che faceva essendosi unito a dei ribelli.
Appendice
Canzonetta
Testo composto di suo pugno dal Romano e trovato sul suo corpo dopo l’uccisione nello scontro della Vallata (6 gennaio 1863).
Non temo perigli
Non curo ritorte
Protegge mia sorte
Il Dio di bontà
Un cenno di Lui
Fa il cielo sereno
Il core nel seno
Più duolo non ha
La Santa Sua Legge
Se l’uomo rispetta
Nel cielo gli spetta
Eterno piacer
Se Dio è sì buono
Fedele e potente
Non temo più niente
Ho lieto il pensier
Pien d’amor di grazie
Vi salvi Dio Maria
Tuo il Signor tra vergini
Si’ benedetto e pia
Ed il profetato frutto
Nel seno tuo congetto
Ognor sia benedetto
Per nome del Signor
O Santa e pura Vergine
Madre di Dio madre per noi
Prega e sorreggi i miseri
Afflitti figli tuoi
Prega, deh, prega prega
E più nell’ora perenne
Della morente vita
Con la tua celeste vita
Conforti il peccator.
[1] Anche tra i ribelli, a fronte di molti che furono realmente sostenitori di un ideale politico quale il ritorno sul trono del legittimo sovrano, ci furono purtroppo anche degli opportunisti che sperarono di trarre, spesso in modo illecito, vantaggi personali dalla situazione.
[2] Sulla figura del Romano si può consultare A. Lucarelli, Il brigantaggio politico delle Puglie dopo il 1860. Il sergente Romano; Bari 1946.
[3] In realtà le perdite del Regno di Sardegna nella guerra di Crimea erano state causate più dal colera, che falciò più di mille vite umane, che non dagli scontri armati: la battaglia della Cernaia, ls più importante della campagna, costò 14 morti e 170 feriti.
[4] Dall’Elenco […] delle ricerche ecc. citato supra possiamo rilevare che tra i componenti noti della banda Romano la maggioranza era costituita – ovviamente – da pugliesi, ma vi si trovavano anche 5 lucani, 3 abruzzesi, 3 calabresi, 1 napoletano, 1 toscano ed i 2 piemontesi.
[5] Proprio i frammenti conservati (purtroppo non tutti) di questa lettera ci permettono di farci una seppur minima idea del carattere di Gastaldi.
[6] “Ha sempre dimostrato poca volontà di lavorare ed anche insubordinato ai genitori ed alle autorità, in modo che veniva considerato quale persona di meno di mediocri qualità morali” (informativa in data 9 settembre 1863 inviata dalla Giunta comunale di Graglia al Tribunale militare di Bari). Tali informazioni, tuttavia, sembrano in contrasto col quadro – seppur parziale – che ricaviamo dalla lettera citata.
[7] È evidente come la lettera non sia stata certo scritta da una persona colta. Lo testimoniano i vari piemontesismi sintattici in essa presenti: “si combattiamo”, “la maggior parte”, “gli dicono”, “al suo re”.
[8] G. Buratti, Carlo Antonio Gastaldi-Un operaio biellese brigante dei Borboni; Milano (Jaca Book) 1989.
[9] Che l’aspetto “sociale” sia fondamentale nell’interpretazione burattiana è evidente fin dal titolo del suo saggio, in cui il termine “operaio” campeggia vicino al nome del protagonista, quasi come chiave interpretativa della sua figura di uomo e di combattente.
[10] «Carlo Gastaldi costituisce una preziosa testimonianza dell’esistenza anche di un Risorgimento italiano alternativo, “senza eroi” e del fatto che, sovente se non sempre, la partecipazione popolare, quando c’era, era più “contro” che “con” coloro che l’hanno fatto» (G. Buratti, op. cit., pag. 63).
[11] Non dimentichiamo, tuttavia, che la battaglia di Palestro – così come le prime di quella campagna – venne combattuta a non molta distanza dal confine tra Piemonte e Lombardia (Palestro è in Lomellina, allora appartenente al Regno sardo) e sotto l’impressione ancora viva della recentissima invasione austriaca dei territori sabaudi. In altre parole, fino a Palestro Gastaldi combatté con la percezione (e la convinzione) di combattere per difendere la propria patria, cioè la propria casa, mentre in seguito (e soprattutto in Puglia) al giovane cardatore sfuggivano – così come a molti dei suoi compagni – le motivazioni, astratte, del combattere.