“Trieste è un’isola”: conversazione-intervista con Francesco De Filippo, sulle prime involontarie indagini di Vincenzo Tagliente
di Enrico Conte
Un poliziesco che rimanda alle ferite “universali” del secondo conflitto mondiale e che ci parla anche del presente.
L’appuntamento con Francesco De Filippo, giornalista e autore di un poliziesco ambientato a Trieste, è al Caffè San Marco, aperto nel 1914 in clima di irredentismo (nel 1918,con la caduta dell’impero Austro Ungarico, la città sarà annessa all’Italia).
Tavolini esterni, non fa molto freddo, nonostante siamo in novembre. Mentre lo aspetto incrocio con lo sguardo un militare, con giubbotto antiproiettile e mitraglietta, posto all’angolo della Sinagoga, una delle più grandi in Europa dopo quelle di Roma e di Budapest, testimonianza di una comunità ebraica molto importante, che contava, prima della Shoah, cinquemila persone. Il nome di alcuni di loro compare sulle pietre di inciampo che si possono incrociare lungo i marciapiedi della città.
Ho ancora negli occhi le immagini del conflitto in corso in Medio Oriente, che hanno inevitabilmente coperto di nebbia quelle della guerra in Ucraina scatenata da Putin.
Sembrano cancellati secoli di civiltà sia per la brutale aggressione di Hamas ai giovani che ballavano in un rave party e per i crimini in un Kibbuz, sia per la vendetta messa in pratica contro i palestinesi civili di Gaza dalla leadership israeliana, in preda ad una tragica crisi di nervi, priva di valutazione politica e senza vie di uscita.
Mi torna in mente il motivetto di una canzone “Todo Cambia”, nella versione di Mercedes Sosa, e penso che si, tutto cambia, ma in questi primi vent’anni del XXI secolo certamente in peggio.
Francesco De Filippo mi raggiuge e mi saluta abbracciandomi, è amico di un mio amico, Michael, italo americano, nato a New York e proveniente da Gragnano, la città della pasta.
Mi rivolgo a Francesco leggendo un passo del suo ultimo lavoro: “come poteva il cielo essere così dolce mentre poco più giù, a pochi metri da me, un gruppo di assassini stava annientando una famiglia innocente, distruggendo la loro casa?”.
Le parole del libro sembrano entrare in risonanza con il flusso della storia, come fosse un eco, un rumore che periodicamente torna in superficie, un fiume carsico.
Quello che racconta del campo profughi di Padriciano alla fine della seconda guerra, quando più di 350mila abitanti della Jugoslavia si riversarono come rifugiati sulle strade del mondo (solo a Trieste non meno di 30mila) sembra avere un valore universale, costituire un eterno ritorno…
FdF: le guerre, alla fine, si somigliano tutte. Le tragedie, le sofferenze, le vittime, è come se non avessero un volto, con un prezzo più caro pagato dai civili. E’ accaduto quando il regime fascista negli anni ’20 ha commesso crimini nel territorio dell’attuale Slovenia, e si è ripetuto quando i titini hanno massacrato nelle foibe gli oppositori e tanti italiani e quando, quel contesto di odi reciproci, ha costretto 350mila persone a lasciare l’Istria e quello che era diventato territorio della Jugoslavia.
E’ la stessa sofferenza che leggiamo sui volti delle persone vittima dell’orrenda azione dei militanti di Hamas del 7 ottobre scorso, o dei civili imprigionati a Gaza, sotto i bombardamenti degli israeliani.Lo stesso dolore che affiora dalle immagini della Ucraina, devastata dalle truppe russe.
“Trieste tiene sempre un occhio nel passato e il Tempo è come se fosse inchiodato, e i triestini, in uno schizofrenico corridoio spazio temporale, ci vivono con l’allegra disinvoltura di un astronauta che si diverte a zampettare sulla superficie lunare”.
A Trieste la storia sembra essere una grande ferita ancora aperta, o non è più così anche adesso? Che gli ultimi 15 anni, complici la rinascita del suo Porto commerciale, le Crociere, la Barcolana e una nuova ribalta internazionale, hanno visto la città riempirsi di turisti e di giovani…..la sera ai tavolini di via Torino?
FdF:Trieste ha avuto un rinculo psicologico possente e lungo nel tempo, dopo la fine della seconda guerra mondiale. A Trieste si è combattuta una guerra sui pianerottoli, nelle famiglie dove il nemico non era al di là di un fronte, distante e riconoscibile, ma nelle strade, nelle case, forse perfino dentro di noi. Il risultato è stata una lacerazione profonda e intima del tessuto sociale, una ferita straziata sfociata in una depressione collettiva. Per rimarginarsi questa ferita ha impiegato decenni e va scomparendo con le generazioni successive a quella del secondo dopo guerra.
“Razionalmente ci arrivavo: i minestroni di cavolo acido, il puzzo dei cessi in comune ,i gemiti di chi trombava di notte nella scarsa intimità di lenzuola usate come muri divisori….ma a me non bastava capirlo – dice ad un certo punto Tagliente, uomo dei servizi segreti, parlando del campo profughi di Padriciano sul Carso- volevo sentirlo, avevo bisogno di entrare in empatia con quella esperienza”.
Questo passaggio mi ha ricordato le parole di Franco Lorenzoni (autore, tra l’altro, di “Educare controvento, storie di maestre e maestri ribelli”) che constata e critica nella scuola l’assenza del corpo del ragazzo e della sua psicologia per un sapere astratto che, tante volte, manca di consistenza. La letteratura diventa pedagogica?
FdF: No.Lo può diventare per l’uso che ne viene fatto se, ad esempio, inserita in un contesto educativo.
Chi scrive, lo fa perchè sente l’urgenza di esprimersi in forme letterarie o per inseguire il successo personale; se articolasse un racconto secondo canoni pedagogici, farebbe fallire il suo progetto, letterario.
“Solo strati crescenti di indifferenza e dimenticanze accumulati dal tempo potranno nascondere gli odi e le delusioni, le sofferenze e le prepotenze. C’è un inspiegabile pulsione di morte( in tutto questo, ndr), un’attrazione del baratro nel fingere che tutto passerà e che ci salveremo mentre, intorno, il contesto ci sta stringendo addosso”.
Ma stava parlando del contrasto, nel teatro di queste terre, tra rossi e neri, per non citare i colori intermedi o, tanto più, quelli sfumati nei doppi giochi, o parlava del presente?
FdF: sostituendo gli addendi geografici, toponomastici, i cognomi, il risultato finale non cambia: la guerra è anonima e totalitaria, vittime e carnefici sono ruoli archetipici di ogni conflitto. Il plot è noiosamente quanto tragicamente uguale; torture, donne violentate, bambini uccisi, morte e devastazione…..”Non c’erano parole, non c’erano suoni, la battaglia era animalesca, ferma ad un’epoca precedente, a suoni di compiuto significato”.
Nel romanzo ad un certo punto si cambia registro: la seconda parte del racconto diventa ironica, è pò come se si fosse lasciato influenzare, magari senza accorgersene, dal clima di Trieste che, negli ultimi quindici anni, è cambiato?
FdF: oggi Trieste è fortunatamente più vivace e allegra con caratteristiche sulle quali si può bonariamente indulgere e fare affettuosa ironia. A Trieste, poi, ciascuno si fa i fatti suoi, nessuno ti giudica….salvo i Vigili urbani che fanno multe a tutto spiano!
Questa certa allegra apparente spensieratezza che si respira in certi momenti in città forse è anche frutto di una strana contaminazione tra lo spirito di derivazione asburgica, e che si sintetizza e precipita nel “Vitz”, lo scherzo innocuo che accompagna la vita dei triestini e forse la presenza di una componente significativa di meridionali, pugliesi in particolare, napoletani, che hanno consolidato da molti anni le loro professioni e la loro laboriosa attività in città, portando anche una ventata di ricchezza culturale italiana, in una città mitteleuropea.
“Quando ritorno a Trieste – così Claudio Magris nel 1961 – anche dopo pochi giorni…mi sembra di uscire da un tempo rettilineo, che procede dritto lasciandosi il passato alle spalle, per rientrare in un tempo discontinuo e contraddittorio, che va avanti e indietro, ritornando ogni volta su se stesso, sospendendo la successione delle cose e rendendole tutte simultanee, allineando, l’una accanto all’altra come detriti sulla spiaggia del mare, stagioni ed epoche diverse…ci si trova in un collage in cui niente si è trasferito nel passato e nessuna ferita si è rimarginata nel tempo, in cui tutto è presente, aperto e acerbo, in cui tutto coesiste ed è contiguo”.
La nostra conversazione si chiude con un interrogativo: chissà se è ancora attuale questo pensiero di 60anni fa per Trieste?… Nel mentre, saturi della furia di immagini di devastazione, e che sembrano spegnere l’energia dell’immaginazione, restiamo rassegnati e carenti di informazione (Roberto Esposito).
Enrico Conte
Redazione di Trieste
de Il Pensiero Mediterraneo