TOMMASO FIORE POETA di Maurizio Nocera
Negli anni ’70 del Novecento ebbi la fortuna di conoscere Tommaso Fiore (Altamura, 7 marzo 1884 – Bari, 4 giugno 1973) il più noto “formicone” di Puglia e del Mezzogiorno d’Italia. Altri grandi meridionalisti come lui sono stati: Guido Dorso, Adolfo Amodeo, Ernesto de Martino, Manlio Rossi Doria, Emilio Sereni, Carlo Muscetta, Mario Abbate, Carano Don Vito, Antonio Lucarelli (storico socialista), Fabrizio Canfora (padre di Luciano), Giuseppe Laterza (fondatore dell’omonima Casa editrice), Giuseppe Di Vittorio (mitico segretario della CGIL), altri ancora.
Don Tommaso, o don Tommasino, come affettuosamente lo chiamavano noi giovani rivoluzionari sessantottini, allo stesso tempo per noi era padre letterario e fratello nell’azione politica. Era ormai vecchio, aveva superato gli 80 anni, e tuttavia non si tirava indietro se si trattava di partecipare ad una manifestazione antifascista o ad un convegno sulla Questione Meridionale. I fascisti lo incarcerano dal 1942 al 1943 per l’intensa propaganda antifascista che andava facendo in Puglia tra Altamura e Bari, e nel Salento (Gallipoli, Lecce, Brindisi, Taranto). Il 28 luglio 1943, mentre egli era ancora nel carcere di Bari, i fascisti fecero una strage in via Niccolò dell’Arca, dove gli ammazzarono a fucilate il figlio quindicenne Graziano che, assieme ad altri 19 ragazzi, stava manifestando per la liberazione dei detenuti politici della città, quindi anche per la liberazione del padre. Don Tommaso dedicò al figlio ucciso una delle sue più belle poesie, A mio figlio Graziano. E bellissime sono pure le undici lettere dal confino (3 da Ventotene, 6 da Quadri, 1 da Orsogna, 1 da Lanciano. V. Lettere di antifascisti dal carcere e dal confine, a cura di Editori Riuniti, 2 voll. di complessive pp. 996. Le lettere di don Tommasino sono alle pp. 435-446). Alcune di esse sono intitolate: «Amatissima Maria, figli cari…», «Ohé, ohé, ohé, Maria, moglie mia dilettissima…», «Amatissima moglie…»; altre «Amatissimo Enzo…» (Vincenzo era il figlio maggiore), «Amatissimo Figlio…».
Più vicino a noi giovani era suo figlio, Vittore, il quale ci ricordava che suo padre Tommaso era stato un combattente antifascista già sotto il regime, e che non aveva mai smesso di lottare per i valori di Libertà e di Democrazia concreta, accanto alle lotte per l’emancipazione delle donne. Egli fu amico e corrispondente di Sibilla Aleramo, Maria Corti, Rina Durante, Ada Gobetti, Maria Antonietta Macciocchi, Anna Maria Ortese, Carla Voltolina Pertini, Cristina Conchiglia Calasso, altre donne ancora.
Fu studente di “Lettere e Filosofia” alla Normale di Pisa e discepolo di Giovanni Pascoli. Si laureò nel 1907 con una tesi su Platone. Una volta laureato, insegnò a Gallipoli (1912), dove sposò Maria Piccolo, coraggiosissima Gallipolina sposa dell’antifascista puro e combattivo Tommaso Fiore. Insegnò pure ad Altamura (1913), poi a Molfetta e a Bari, dove fu anche docente di Filosofia in quella Università. Fu Provveditore agli Studi di Bari. Sono note le sue lettere alla rivista «La Rivoluzione Liberale» di Piero Gobetti (Torino 1901 – Parigi 1926), divenuto poi il libro Un Popolo fi formiche (prima edizione Laterza 1951, pp. 144. Introduzione di Gabriele Pepe), Premio Viareggio 1952. Un libro fondamentale per chi voglia conoscere veramente il Mezzogiorno d’Italia e la lotta al fascismo mussoliniano. Il libro fu ristampato diverse volte, ma è l’edizione del 2001 la meglio corredata, curata da Giuseppe Giacovazzo (mitico direttore della «Gazzetta del Mezzogiono» e stampata in una «Edizione speciale a tiratura limitata per il Parco Letterario “Formiche di Puglia”» (Palomar Edizioni, Bari, 2001, pp. 192). In questa edizione, oltre all’introduzione di Giacovazzo, sono riproposte le introduzioni precedenti: quella di Gabriele Pepe e quella di Manio Rossi-Doria.
Prima di essere ammazzato dai fascisti, Piero Gobetti fece in tempo a pubblicargli il libro Eroe Svegliato Asceta Perfetto (Torino 1924, pp. 40). Aveva ancora in animo di pubblicargli Taccuino di una recluta e Taccuino di guerra ma. come si sa, i fascisti gli stroncarono la vita che aveva solo 26 anni. Molti anni dopo, Taccuino di una recluta, col titolo di Uccidi (Capone Editore, Cavallino di Lecce, 1977, pp. 248), fu pubblicato a cura di Enzo Panareo.
Altro suo famoso libro è Il cafone all’inferno (Einaudi, 1955), che anticipa il volume Formiconi di Puglia. Vita e cultura in Puglia, 1900-1945 (Manduria, Lacaita, 1963). Note le sue traduzioni delle opere di Erasmo da Rotterdam, Tommaso Moro, Bertrand Russel, Baruch Spinoza. La prima edizione de La poesia di Virgilio venne pubblicata nel 1930 da Laterza (Bari, pp. 336), mentre la traduzione e il saggio introduttivo al libro Studio su Virgilio di C. A. Sanite-Beuve sono del 1939 (Bari, Laterza, pp. 238).
Tommaso Fiore fu partigiano della pace e, in quanto tale, presiedette il Congresso dei Partigiani della Pace a Bari nel 1952. Viaggiò molto nei paesi a sistema socialista. Di alcuni di questi suoi viaggi ha lasciato traccia come, ad esempio, il libro Al Paese di Utopia (Leonardo da Vinci editore, Bari, 1958, pp. 200), dove narra la sua esperienza in Unione Sovietica. E ancora il volume I corvi scherzano a Varsavia (Edizioni Avanti!, Milano-Roma, 1954, pp. 116), dove parla dell’esperienza in Polonia. Un’attenzione particolare dedicò all’Albania, più volte visitata incontrando il leader di quel paese, Enver Hoxha. Per l’Albania (faceva parte della Presidenza onoraria dell’Associazione Italia-Albania) scrisse Sull’altra sponda (Lacaita editore, Manduria 1960, pp. 56), un panphet ancora oggi leggibilissimo, e il saggio Nel XX anniversario della Resistenza albanese (Associazione Italia-Albania, Roma, 1964, pp. 16).
Oltre ad essere presente in decine e decine di riviste e giornali con appunti, articoli, saggi, lettere, e altro, suoi scritti furono pubblicati su «Humanitas» (di Piero Delfino Pesce), «Critica Politica» (di Oliviero Zuccarini), «Il Mondo» (di Giovanni Amendola), «Volontà» (di Giovanni Torraca), «Coscientia» (di Giuseppe Gangale), «Vita delle Nazioni» (di Umberto Zanotti Bianco), «Il Lavoro» di Genova, «Corriere della Sera» (di Luigi Albertini), «Corriere dell’Irpinia» (di Guido Dorso), «Quarto Stato» (di Carlo Rosselli e Pietro Nenni), sul quale ultimo pubblicò Appunti per un programma socialista per il Mezzogiorno, di fatto uno dei primi saggi sulla Questione Meridionale. Nel 1945, pubblicò Il Catechismo Liberal-socialista del partito d’Azione, documento tenuto in considerazione nell’elaborazione della Carta Costituzionale del 1948. Lungo fu il suo sodalizio con Benedetto Croce, anche se su posizioni politiche differenti.
Curò molto il rapporto con i giovani e nel 1970, quasi novantenne, diresse la rivista «Il Risveglio del Mezzogiorno» e la rivista dei Comitati Antifascisti Antimperialisti di Bari «Lotta Partigiana», per il quale incarico fu portato a processo da un magistrato fascista (leccese), che chiese per lui l’infermità mentale. Fiore non si scompose e vince la causa.
Ecco ora il libro di Daniele Giancane (Bari, 1948), Tommaso Fiore. Studioso e uomo d’azione. Le sue poesie (Solfanelli editore, 2023, pp. 64). Non appena ho visto il libro, ho pensato subito alla rivista «Fermenti» e ho quindi telefonato a Daniele per chiedergli la liberatoria per la pubblicazione delle poesie di Tommaso Fiore. Daniele (col quale, assieme ad Antonio L. Verri, ho collaborato anni fa) mi ha confortato dicendomi “fai pure”. Non vado per lunghe e riprendo parte del commento al libro, fatto da Giancane in quarta di copertina:
«Questo volume ripercorre agilmente la straordinaria avventura di Tommaso Fiore […] il grande meridionalista amico di Gaetano Salvemini e Sandro Pertini, frequentatore di Benedetto Croce. […] In questo lavoro sono presenti anche nove poesie di Tommaso Fiore (quasi totalmente inedite o comunque assai poco note), che il grande vecchio (lui aveva ottant’anni, io venti, ma nacque una grande amicizia) mi affidò come un dono prezioso. Sono poesie che hanno un senso per approfondire sentimenti e itinerari culturali del grande “don Tommaso”, non si tratta di parti letterari di grande spessore, ma lui lo sapeva bene: la sua era un’ispirazione saggistica. Ed è stato un impegno a tutto campo dalla parte degli umili, dei diseredati, dei contadini sfruttati dai latifondisti, di coloro che non avevano “parola”».
Ovviamente il libro di Giancane si compone – come egli stesso scrive – di «tre scritti che riguardano il mio rapporto – culturale e umano – col grande meridionalista Tommaso Fiore […] Il primo scritto riguarda un saggio che ripercorre la vita e l’opera di Tommaso Fiore. […] il secondo riguarda una mia riflessione sulla rivista che l’ottantenne “don Tommaso” inventò: “Il risveglio del Mezzogiorno”. […] Il terzo scritto è certamente il più importante: Tommaso Fiore, poco tempo prima di morire, mi affidò uno scartafaccio con le sue poesie inedite».
Di Daniele è bella anche un’altra sua affermazione: «amava i poeti […] e si rammaricò di non essere un poeta./ Tommaso Fiore, se non era un poeta, aveva però un’anima di poeta. […] Tomasso Fiore, pur non essendo in verità un buon poeta (ma lo sapeva, eccome!) scriveva talvolta poesie che pubblicava sulla [rivista] “Il Risveglio del Mezzogiorno”: ricordo A mio figlio Graziano (traboccante d’amore per questo figlio ghermito da un feroce destino). A Melisenda, Il cuculo ed altre poesie scritte durante i giorni di prigionia» (pp. 14 e 25).
Nel capitolo Il dono di Tommaso Fiore. Nove poesie, Daniele Giancane le introduce così: «Negli anni in cui frequentavo la casa di Tommaso Fiore, […] mi donò nove sue poesie. I nove testi furono stampati quasi alla macchia in un libretto a cura del sottoscritto e di Francesco Bellino, Rino Bizzarro, Italo Interesse, Rossella Lovascio, col titolo Poesie dal carcere Bari 1942, che era il titolo apposto dallo stesso Tommaso Fiore sullo scartafaccio che mi dette» (p. 27).
Un altro passaggio significativo, Giancane lo pone con una domanda rivolta al grande Formicone di Puglia: «Ma tu perché non scrivi poesie, don Tommaso? Gli chiesi più di una volta. Lui faceva spallucce»./ Invece cominciò a far apparire su “Il Risveglio del Mezzogiorno” alcune sue liriche […] Però queste non sono poesie – diceva – Io non sono poeta, sono troppo abituato a pensare e il poeta è uno che vola. […] Ma queste poesie hanno un valore grande di testimonianza. […] Queste poche pagine ineguali di reminiscenze dantesche e improvvisi coinvolgimenti emotivi giungano là dove don Tommaso Fiore non è conosciuto, portino le sue parole di un uomo tra gli uomini. Anche questa è poesia» (pp. 31 e 33).
Certo che anche i versi di don Tommaso sono poesia. Dentro di essi io scopro la forza del combattente per gli ideali di Giustizia, Libertà, Democrazia e, soprattutto l’Antifascismo, a cui non è mai venuto meno. E questo non è affatto poco.
///
Tommaso Fiore
POESIE
(Nel libro di Daniele Giancane le poesie presenti sono: 1. A mio figlio Graziano – 2. Al cuculo – 3. A Melisenda – 4. Allegro ma non troppo – 5. Purità – 6. Colloquio con lo spirito – 7. Lamento – 8. Ai miei figli – 9. Ballata delle carceri di Bari. Qui ho riportato solo la 1. e la 9. Inoltre ho aggiunto un’altra poesia di Fiore – Tre donne intorno al cuor mi son venute, p. 13 -, presente nel volume Poeti di Puglia e di Basilicata, – a cura dello stesso Tommaso Fiore -, Adriatica Editrice, Bari, s. d., pp. 244).
A MIO FIGLIO GRAZIANO
Bravo Graziano! Mi diventi uomo
a quindici anni! E chi l’avrebbe detto?
Venti giorni?! Ma, caro hai un nuovo aspetto!
In venti giorni ti sei fatto uomo!
Prima, ne hai dati al babbo dispiaceri!
Cionco eri, molliccio, quasi attrappita
per crampi avesti l’anima e la vita
pel cielo ne fu occluso, una lontra eri!
Poi, non so come, di dietro t’abbrancò
chi mai? Il destino? Io non lo vidi, figlio,
con gli occhi e non potei salvarti, figlio…
E via dentro un abisso ti rotò.
Ben udivo le grida e il rombo forte,
le tue grida di figlio e m’avventai…
Squassai la porta salta del carcere… ahi!
Urlando caddi lì come per morte.
Or stare ove tuo padre sta ti piace…
fra piccoli compagni di sventura
ti trastulli o racconti l’avventura
di Ulisse, finché in casa si ebbe pace.
Diman, se in guerra ti chiama l’onore,
tu, uscendo al rischio, all’insidia, onde niuno
torna tranquillo tu, dirai, taluno:
– Perché sorridi, capitano Fiore?
– Perché… ragazzi, è cosa di molti anni…
Ma ora è tempo di vincere o morire…
In venti giorni… sì, ebbi a divenire
Uomo – Che caso strano! quindici anni.
Rivedrai quando con labbra infantili chiedevi
– I nostri vecchi… Gente grama
sempre? – Anzi di gran valore ebbero fama:
mai servi all’oro, mai nell’opera vili.
Felici! Se liberamente andarono
errando per la Puglia spaziosa!
Mandrie di jazzo in jazzo senza posa
e a più alto sentir gente avviarono.
Che dici, figlio? A quel capo chino?
Stanco? Hai ragione, è tempo di posare.
Se entra mamma ti verrà cullare.
Figlio, ahi! Uomo anzitempo… È il destino.
1942
(tratta da D. Giancane, Tommaso Fiore. Studioso e uomo d’azione. Le sue poesie, Solfanelli editore, 2023, pp. 37-38)
///
BALLATA DELLE CARCERI DI BARI
Or che via di qui ci caccia, senza chiedere permesso
all’aperto, ma legati per un filo siamo lo stesso,
quasi quasi ripensando a questa pace di convento,
tutto bene ponderato, di restar sarei contento.
Un pan bigio, una minestra ogni giorno assicurati,
senza pene oppur fastidi, privilegi indubitati
son, per cui l’Angelo, il Tedesco, l’Italian, lottano invano,
il Nipponico col Russo, sino al ricco Americano.
È un saccone. Poca cosa! Non per noi, per l’uomo civile,
che dovunque ormai s’interra, come fiera nel covile.
Poi la cella, un po’ lercia: in compenso una brigata
di volanti, di striscianti, vi rallegra la giornata.
Tante celle, una prigione; le prigioni, una città,
son prigioni son gli stati, sol prigion l’umanità.
E ogni uomo ha la sua cella, dove ognuno incasellato,
ruminando, vegetando, può passarsela beato;
dove ognuno impacchettato, se lo libera la legge,
può restar tutta la vita, per piacere di chi regge.
Medio-Evo: il confessore qui, un buon col breviario,
dice messa e all’occasione fa da bibliotecario,
perché poi uno scaccino, nei momenti di riposo,
passi qualche suo libercolo a noi pecore, untuoso.
Viva! Panem et circenses! Ma a cessar la lotta oscena,
fra i momenti, fra le belve, ecco una balza nell’arena
Medio-Evo. Oggi s’abbatte l’eresia. La folla impazza
tornei, drammi, carole, roghi e emesse sulla piazza,
mentre dalle steppe, si vento boreal, funebre e roco
vien dei tisici il lamento e si spegne a poco a poco.
«Vien con noi… Perché ritardi? Ben tu sei della famiglia.
Tal degli uomini la storia: oggi un duol l’altro poi piglia».
Datemi, ora in carità, datemi ora un po’ di tregua,
ché una storia dolorosa del mio carceriere io segua.
Carcerieri, carcerati; tutti sventurati al par
inviliti, sminuiti per potervi sostentar.
Questi qui son rinserrati, che han rubato un po’ di pane,
quei fan da guardiani, per avere un po’ di pane,
non son uomini, ma quasi, ché voler più non hanno,
carcerieri, buoni, tristi: non importa quel che fanno.
Non sono uomini, né bestie, ché la lingua han per parlare;
che han da dire poco importa: tocca ad altri comandare.
Ecco il medico – «Oh, dottore; questo e quello. Neppur guarda,
è già fuori. Quante visite! Firmare, ormai i tarda».
Gran signore quel direttore! Che finezza il suo saluto!
«Che possiate uscire presto». Io, commosso, resto muto.
Ogni giorno carta e penna… Tu scrivano dal cuor dolce,
(posso piangere coi miei) il sorriso tuo mi molce!
Finché un dì… mi è proibito… Oh! Dio piangere è vietato?!
Tu non piangi, non sorridi, l’occhio hai torbido… Che è stato?
Al mio arrivo un vecchio torce, come a un morso, il ceffo in fuori:
«Tutti uguali qui nel carcere, assassini e professori».
Ecco il capo, un omarino che s’inalbera: ho imbrattato
di latin, di poesie tutte quante le vetrate,
dove Burns anche ha dettato l’inno per la libertà,
ma l’inglese, per fortuna, l’omarino non lo sa!
Ecco qui testa di legno, ecco i due di farmacia,
che darien senza volerlo, un rimedio purchessia»;
ecco quegli che ragiona: «Ben capisco le sue idee,
ma a volere del padrone legar l’asino di deve»;
ecco il tristo, che figlioli, moglie, pargoli sospetta
e gli unghioni nelle tasche, nel cuor par che gli occhi metta.
Ecco quel faccia cagnazza, muto e dritto come stocco,
ecco quel faccia patata che i celebra S. Rocco.
Condannarvi? Non son uso, se l’orecchio esercitate.
Tocca ad altri, comandare. Volentieri il male fate.
Facce buone, facce brutte, della forca scese qua,
hanno tutti la miseria, tutti implorano pietà.
Carcerieri, carcerati, tutti sventurati al par
inviliti, sminuii, per potervi sostentar.
Tante celle una prigione; le prigioni una città:
sol prigioni son gli stati, sol prigion l’umanità.
Oh! Matteo, miglior di tutti se’, scordar come ti posso?
Come chiocciolo ognor cede, senza nervi e senza osso…
Sopra, sotto, il santo giorno – Oh! Trovare un po’ di posa.
«Le prigioni sono tombe, son le tombe la città,
tombe solo son gli stati, tomba sol l’umanità».
«Siamo qui, gentil grammatico, venuti a liberarti».
«Gran mercé! Ma non sum dignus, o maestri di bell’arti».
Meraviglia! Come valle d’improvviso occupa un nembo,
ville, alberi, casali ravvolgendo nel suo grembo;
meglio: come d’improvviso nel teatro cade scena
ed un’altra, più mirabile, occhi attoni incatena,
così m’occupa la celia, così inonda la prigione
inattesa, una funesta, strana, orribile visione.
Non è uno, son mille: non son mille son migliaia,
cui dannati ingiustamente, l’innocenza insieme appena;
senza colpa in mille guise tutti quanti martoriati,
messi in croce, su di un rogo, od impalati ed impiccati,
uncinati, scorticati, o alle belve dati in pasto,
squartati o decapitati, senza fare alcun contrasto.
E quanti oggi l’un fucila, l’altro abbatte delle reni,
l’altro getta capofitti nelle macchine dei treni,
a un dall’alto d’un palazzo fa tentar d’Icaro il volo,
quel rapito è da una pizza, per perire ignoto e solo.
Pria di tutti quel che a Atene, per la vita pia vissuta,
accusato, con sereno volto bevve la cicuta!
V’è il maestro dello Stoa, con la fida, invitta moglie;
ma svenarsi col marito, bieco Cesare le toglie,
a che piante! E chi minaccia? O spettacolo mai visto
a undici anni una bimba, vuol morir, fedel a Cristo.
«Meraviglia! Tu, magnanimo qui! Oh! giusto che per poco,
per decreto di Firenze, non finivi anche nel foco!».
Qui è l’antico che la vita trasse errando, poiché vide
le sciagure degli Arghivi per dispetto dell’Atride.
Tu Guglielmo! Ben salvato! Quali pene ti minaccia
l’Inghilterra in suo rigore, che di frodo andavi a caccia.
Anche tu qui, Mantovano! Pietoso, che nei carmi
desti a Cesare il consiglio di deporre l’empio armi.
Ben venuto! Onde venite? Chi vi guida? Ma vi tocca
sgombrar presto, ché vietato è a chiunque aprir bocca.
Che cercate? Eterno giovine, che tutti mette in sacco.
Con le Muse! Hai reso amabile anche Paride, il vigliacco!
Cerchi Will, Riccardo terzo? Cechi Macbeth? Morti in campo.
Chi cercava? Salve, o saggio, dell’impero nobil tromba;
or che ancora abbiam l’impegno fai, vieppiù all’oltretomba?
Non gli chiedere, si scorda, non sa mai far qualche cosa
e, guardandoti negli occhi (che mai sente? che comprende?).
«Vado via, questa è la vita. Perdonatemi, ho faccende».
Ssss… il prete ha detto messa: «Figli, Dio vi benedica,
i peccati a noi rimetta, doni il pan che ci nutrisca».
[Carcere di Bari], 5-9 giugno [1942]
(tratta da D. Giancane, Tommaso Fiore. Studioso e uomo d’azione. Le sue poesie, Solfanelli editore, 2023, pp. 52-58. | Qui mi sono permesso di togliere gli spazi ogni due versi, presenti nell’edizione Giancane, onde comprimere il testo per la rivista «Fermenti». Mi sono permesso pure di fare qualche piccola intrusione di punteggiatura e un solo caso di sostituzione di lettera)
///
TRE DONNE INTORNO AL CUORE MI SON VENUTE
Allora che Albino, il mio tenero amico,
nuova triade ammirò con suo stupore,
– Prima esclamò – Io l’amicizia dico! –
Miseria e poesia piangon a core.
Ahi strane, ahi adorabili sorelle!
Vengon tutte le sere a casa mia,
si metton a seder quelle monelle,
e non c’è Cristi di cacciarle via!
In qual mai luogo miseria non geme?
Nel Mezzogiorno ha luogo, ed in America
come stirpar di dittatura il seme?
Quando vi allignerà pace benefica?
Morte la vita a tradimento taglia:
Pitagora è bruciato vivo vivo!
L’economia ribelle par non vaglia!
Non ha Marx di che dar sepolcro ai figli!
O Giulia che fiorisci, o Beatrice,
o dolci seni, ineffabil profumo!
Per me ogni ora è sempre infelice.
Sempre farnetico e me ne vo’ in fumo!
Qual gioia, quale poesia mi è data?
Discordie e guerre ogni dì risento.
Dorma l’anima sotto un’albereta,
foglia ritorni, tremula al vento!
///
Maurizio Nocera
TOMMASO FIORE: UNA VITA NELLA LOTTA
Ci piaceva chiamarti
don Tommasino così
come per gioco
e per sentirci più a vicino a te.
Sai, grande formicone di Puglia,
io sono dei dintorni di Gallipoli
la città di donna Maria Piccolo
– tua moglie la coraggiosa –
quella Gallipoli che conoscesti
da docente di filosofia al liceo
dove il tuo compagno di lotta
socialista – Agesilao Flora –
dipingeva e scolpiva
bellezze d’ogni tempo.
Ricordi?!
Gallipoli è ancora la citta dove
il sole s’impicca all’orizzonte d’Oriente.
Tuttavia tu eri altamurano
e poi barese – per sempre.
Hai amato la Puglia – tutta.
Hai amato i suoi formiconi – tutti.
Della lunga nave
protesa nel Mediterraneo
– tra l’Adriatico e lo Jonio –
hai difeso la sua storia
ed anche la protostoria
e le origini magnogreche.
Ma soprattutto
hai difeso il valore dei suoi uomini
e delle sue donne anche,
tutti tutte combattenti
per la Libertà,
per la Giustizia sociale,
per la Democrazia concreta,
contro ogni razzismo,
fascismo, nazismo.
Quella Puglia,
don Tommasino,
dove la stretta di mano
vale per i compagni e le compagne.
Nessuno può affermare
che tu non sia stato un poeta
neanche tu, caro mio.
La tua poesia è la tua poesia
senza se e senza ma.
Sono i tuoi versi che cantano
la sofferenza inflitta
da vili fascisti
che non ebbero ritegno
ad ammazzarti il figlio tuo
tanto amato
– GRAZIANO –
che Vittore
l’altro tuo figlio poeta.
Ricordi?!,
era “nato sui mari del tonno”
mai dimenticò.
I tuoi versi
sono l’incanto di una storia
che non finisce mai;
storia di lotta e Resistenza
contro ogni sopruso:
oggi, domani, e sempre.