Terza Missione dell’università e della ricerca applicata. Una conversazione-intervista a più voci.
di Enrico Conte
Partecipano a questa chiacchierata:
Nadia Bray, Ricercatrice di Filosofia, Unisalento
Fabio Ciracì, Professore di Storia della Filosofia, Unisalento
Guglielmo Forges Davanzati, Professore di economia politica, Unisalento
Angelo Salento, Professore di sociologia economica, Unisalento
Elisabetta Salvati, Presidente Aforisma, Scuola di Management, UniSalento
Viviamo un periodo di veloci cambiamenti, forse – a leggere opinionisti e commentatori – il più rapido della storia, ma anche il più complesso, perchè non c’è dimensione della società che ne sia esente.
I cambiamenti climatici, la transizione energetica, la crisi della democrazia liberale e il ritorno sulla scena dei despotismi, i divari territoriali, le disuguaglianze sociali, le discriminazioni e il lavoro, che non sempre c’è e che bisogna andarselo a cercare lontano da casa, ed il cui profilo quantitativo è minacciato dall’IA.
In questo contesto riveste – o almeno dovrebbe rivestire – una inedita centralità non solo la pratica educativa, e formativa, ma il modo attraverso il quale si sceglie di produrla, il modo di organizzare le didattiche, di coinvolgere i destinatari negli apprendimenti, di valutarne l’impatto, individuale e collettivo.
La pandemia sembrava avesse aumentato la consapevolezza sulla importanza delle interdipendenze, ma è stata solo un’illusione collettiva.
Maura Gancitano, durante il Festival del “Pensare contemporaneo” a Piacenza, ha recentemente sottolineato che la parola pensiero viene dal latino pensum e che, anticamente, indicava un certo quantitativo di lana grezza che veniva pesata e passata alle filatrici,che avevano il compito di „sgrezzarla“ e filarla. Il pensiero – così la Gancitano – non viene allora dall’astrazione, ma da una tecnica manuale precisa e profondamente legata alla materia..
D. Le Università, e i centri di ricerca, si potrebbe dire che svolgono un lavoro analogo a quello delle filatrici?
Fabio Ciracì: un filosofo contemporaneo, Hartmut Rosa, ha parlato del nostro tempo come l’epoca della “Accelerazione e alienazione”. Il punto è che i due fenomeni si muovono in parallelo e non sempre la velocità del cambiamento è indice di progresso e miglioramento. Si pensi al mutamento del mondo del lavoro, la cui velocità ha messo in crisi i modelli classici e spesso l’impossibilità di adattamento della classe dei lavoratori ai nuovi “lavori liquidi”, per dirlo con Zygmunt Bauman. Un altro veloce cambiamento è quello climatico, accelerato dall’azione antropica, con conseguenze epocali di problematica gestione.
Le università sono la fucina delle idee e del futuro. E per poter fare scienza occorre sicuramente seguire un fil rouge, il filo del discorso. Lo si fa attraverso il metodo scientifico che è innanzitutto un modello in cui le ipotesi di ricerca devono passare per il vaglio dell’esperienza, devono essere messe alla prova dell’esperimento. Si tratta di un metodo eminentemente antidogmatico, perché, come insegna Galileo, una certa verità è tale “fino a prova contraria”. Nel caso delle discipline umanistiche, la storia rappresenta il grande laboratorio in cui verificare in che modo e con quali esiti le teorie (mettiamo il caso delle ideologie o, più semplicemente, di certe visioni ideali) si sono sviluppate nel tempo. Ma le università e i centri di ricerca non sono solo “filatrici” del pensum, rappresentano anche il luogo in cui il filo è prodotto, la materia stessa del pensiero e, non per ultimo, il suo destino. Anche la mitologia ricorre all’immagine delle tessitrici, che ben si attaglia al nostro discorso. Si pensi alle tre Parche o Moire, le divinità del destino umano di cui scrive Esiodo: Cloto, la ‘filatrice’ della vita; Lachesi, la ‘fissatrice della sorte’ toccata all’uomo; Atropo, la ‘irremovibile’ fatalità della morte. L’università si configura perlomeno come le prime due divinità, perché la ricerca produce la materia del pensiero e la sviluppa. Tuttavia, Atropo è rappresentata dagli investimenti statali, spesso insufficienti o assenti, i quali decidono della vita o della morte della ricerca.
Angelo Salento: sì, il compito della scienza è grossomodo questo, produrre buoni concetti e smontare cattivi concetti, in entrambi i casi per rendere il mondo più intellegibile e la vita umana più vivibile. La separazione fra il materiale e l’astratto è sempre provvisoria, è un cantiere.
Elisabetta Salvati:sono molto felice di sentirla avviare questa conversazione citando Maura Gancitano e il Festival del “Pensare Contemporaneo“, appena conclusosi nella sua prima e brillante edizione a Piacenza. Ho il piacere di conoscere il suo curatore Alessandro Fusacchia che, tra le altre, nell’ambito di una delle sue altre iniziative – Pratolungo Unconference – mi ha permesso di incontrare e conosce la Gancitano. Non ho potuto essere presente al Festival e sarei felice di cogliere l’occasione per leggere lo sviluppo del pensiero di entrambi e le propongo di far rispondere direttamente loro a questa domanda.
Nadia Bray: «Sgrezzare la materia». Una metafora bellissima, capace come le metafore ben trovate di profondo potere euristico, diagnostico e creativo. Voglio svolgerla impiegando alcune osservazioni documentabili nel Menone di Platone, e in particolare una dottrina che è meno discussa rispetto a quelle soprattutto conosciute di quell’opera. Socrate viene interrogato da Menone su cosa sia la virtù e su come si possa conseguire. I tentativi di definire la virtù falliscono tutti nel Menone, si giunge tuttavia alla certezza che l’anima umana sia la sede autentica della virtù che cerchiamo. Il processo con cui l’uomo giunge alla virtù segue il processo della conoscenza di se stessi, perché la virtù, ciò che noi siamo, i nostri talenti, le nostre posizioni rispetto al mondo, il mondo dei valori in cui crediamo sta al fondo di noi stessi. Spesso è latente e soprattutto coperto da „incrostazioni‘ culturali, opinioni anche provenienti dal mondo della cultura dominante, magari anche da quella accademica, le quali sovrastano il contatto con noi stessi. Conoscersi è un processo che dipende dallo studio, ma anche dalla fortuna di incontrare buoni maestri, di godere di buone relazioni. Ecco che giungo alla mia risposta. In quel dialogo, il buon maestro pone domande al suo allievo, ascolta, indirizza alla corretta ricerca di una risposta che egli stesso non può proporre, ma alla cui generazione può certamente contribuire attraverso la fiducia, l’ascolto critico e costruttivo.
Sono convinta che ‚sgrezzare la materia‘ sia esattamente la competenza di chi è capace della didattica di cui oggi più che mai si ha bisogno. Una didattica che è sempre connessa alla ricerca. Una ricerca tuttavia che fa tesoro della storia, della filosofia, della scienza, intendoli quali strumenti di diagnosi di una realtà che si trasforma e che è anch’essa ascoltata, piuttosto che normata. L’ascolto dotto, quello nutrito della cultura, di cui noi docenti dovremmo essere capaci, permette di porre la persona e le relazioni al centro, di indagare le motivazioni autentiche che avvicinano i nostri ragazzi allo studio delle discipline che insegnano, di aiutarli a scoprire i loro talenti, a divenire consapevoli che il loro ruolo culturale nel mondo è essenziale, e che deve essere critico e al tempo stesso costruttivo. È alla luce di questi valori che, a mio avviso, siamo nelle condizioni di stabilire un match tra i bisogni di una cultura che cambia, a partire da quella del nostro territorio, e le risorse di cui le giovani generazioni sono sicuramente capaci e alle quali va chiesto subito di intervenire con competenza e con responsabilità, senza delegare e soprattutto senza spirito di soggezione alcuna. La responsabilità allo studio comincia da qui, perché lo studio diventa lo strumento ulteriore per ciascuno per ‚sgrezzare la materia‘, trovando valori, risposte, strategie per riportare le persone al centro in un mondo che spesso invece se le trascina dietro in una corsa cieca.
D.Cosa può fare, in tutto questo contesto attraversato da profondi mutamenti, l’università che alla ricerca e alla didattica affianca, da alcuni anni, una sua Terza missione, legandosi ai bisogni del territorio? Cosa funziona, o non funziona, in Italia, e in Salento, di questo modello?
Fabio Ciracì:Il riferimento al territorio è fondamentale perché è da esso che l’Università trae le proprie energie, sia materiali sia intellettuali. L’Università del Salento è stata fondata affinché i figli di questa terra potessero istruirsi in loco, potessero cioè trovare nell’istruzione non solo uno strumento di riscatto sociale e di ammodernamento, ma di emancipazione culturale, poiché istruirsi vuol dire divenire autonomi, acquisire capacità critiche che, in ultima istanza e per dirlo con Kant, vuol dire pensare da sé. Questa è la vera missione dell’università che si chiama “terza” solo se si separano la ricerca e la didattica dalla loro finalità, ovvero solo se si pensa in astratto. E se è vero che i modelli culturali sono universali, è vero altresì che trovano applicazione quando sono calati in un contesto storico, quando prendono vita in una realtà sociale, quale è appunto quella del territorio. La maniera migliore affinché ciò avvenga non è soltanto rispondere alle domande del territorio, ai suoi bisogni immediati, ma anche alimentarne la progettualità, la capacità di investimento in idee e fattività, ovvero non solo nella costituzione di nuove tecnologie, essenziali per la trasformazione sociale, ma anche nell’istituzione di modelli culturali, i quali sono i soli a guidare il cambiamento della nostra società.
Angelo Salento: le Università hanno sempre avuto un ruolo con il territorio (nelle sue diverse dimensioni). Oggi la chiamiamo Terza Missione perché occorre prestarle particolare importanza. Il termine è emerso negli anni Novanta, quando le imprese sono diventate meno disposte a elaborare conoscenze e competenze per se stesse, e quindi hanno iniziato a domandare alle università di farsene carico. Più recentemente – e direi: fortunatamente – nell’idea di Terza Missione abbiamo iniziato a includere non soltanto il contributo delle Università alla competitività economica, ma anche il cosiddetto social engagement, cioè l’enorme quantità di iniziative di collaborazione fra le Università e il loro ambiente per lo sviluppo sociale e culturale.
Guglielmo Forges Davanzati: L’attività di Terza missione è purtroppo ancora poco sviluppata e non adeguatamente incentivata dal Ministero. Per quanto mi riguarda sono pienamente favorevole all’ipotesi di istituzionalizzazione della valutazione Anvur di questa attività: si tratta di fare in modo che il personale docente delle università italiane, assuma – per le parti di sua competenza – il compito di favorire lo sviluppo locale. Per quanto mi riguarda ho sempre fatto molta attività di Terza missione e sto cercando di incentivarla tramite la creazione di Albi territoriali riferiti a tutor accademici, ovvero docenti universitari che accompagnano aziende locali, pubbliche e private, nei processi di internazionalizzazione e di innovazione. È doveroso, in ogni caso, che sia il Mur a finanziarla, in quanto è un’attività collaterale non prevista nella contrattazione collettiva.
Elisabetta Salvati: il ruolo dell’università nella società è fondamentale e deve adattarsi al contesto attuale. L’introduzione della Terza Missione, che si concentra sulla collaborazione con le imprese, l’innovazione, la formazione continuare le iniziative culturali, è un passo significativo per soddisfare le esigenze della comunità locale. Le iniziative di Terza Missione di successo prevedono strette collaborazioni di successo con le imprese locali, che portano a progetti di ricerca congiunti stage e servizi di consulenza. Le università possono anche contribuire all’ecosistema dell’innovazione locale trasferendo alle aziende locali le tecnologie sviluppate a livello accademico. Anche l’offerta di programmi di formazione continua per i professionisti e la valorizzazione della cultura e del patrimonio locale attraverso mostre e conferenze sono attività importanti. Tci sono sfide che devono essere affrontate. La frammentazione e la mancanza di coordinamento possono ridurre l’impatto complessivo delle attività delle università.Lo scarso coinvolgimento della comunità può portare a una mancanza di aderenza alle reali esigenze del territorio. Anche le risorse limitate possono ridurre la portata e l’impatto delle iniziative.La burocrazia e la rigidità all’interno delle istituzioni accademiche ostacolano la loro capacità di adattarsi rapidamente alle esigenze in continua evoluzione. Per migliorare l’efficacia della Terza Missione è necessario investire in strategie di coordinamento, maggior coinvolgimento della comunità e risorse adeguate. Inoltre, promuovere una cultura della flessibilità e dell’innovazione all’interno delle istituzioni accademiche è essenziale per adattarsi ai cambiamenti dell’ambiente sociale ed economico.
Nadia Bray: Recentemente ANVUR ha introdotto il concetto di Terza Missione definito come “apertura verso il contesto socio-economico mediante la valorizzazione e il trasferimento delle conoscenze”. Gli obiettivi sono sostanzialmente due: da un lato la valorizzazione economica volta a supportare lo sviluppo competitivo del sistema produttivo territoriale, dall’altro la valorizzazione culturale e sociale che è invece diretta a creare «beni pubblici che aumentano il benessere della società» e, più in generale, concorrano a elevarne il livello di sviluppo umano. Le discipline umanistiche si riconoscono, direi, soprattutto nel secondo dei suddetti obiettivi. Teorici come Martha Nussbaum, Zygmut Baumann, per citare i due nomi a me più cari, hanno variamente sottolineato quanto le società in cui non vi sia un’adeguata crescita culturale, intesa non nel senso degli specialismi, quanto piuttosto nell’accesso allargato alle conoscenze da parte della cittadinanza, siano società in cui la democrazia, proclamata come un diritto, viene delegittimata di fatto. L’accesso ai diritti richiede conoscenze e competenze. I diritti sanciti restano lettera morta se non vi sono le condizioni culturali che ne permettano l’esercizio. Essere nelle condizioni di poter esercitare i propri diritti è la condizione senza la quale non esiste alcuna promessa di benessere che sia autenticamente tale. Questo per me il valore fondativo, precipuamente culturale, con il quale l’università dovrebbe interpretare la sua terza missione. Se questo messaggio passasse, ci potremmo magari attendere un’inversione di tendenza quanto mai ambiziosa, vale a dire una sollecitazione ai finanziamenti rivolti ai progetti umanistici e non solo tecnologici. Le idee, i valori e gli attori sociali che li supportano hanno infatti bisogno di poter tradurre in lavoro i progetti. La progettazione culturale e umanistica, volta a portare le persone dalla periferia al centro in tutti i contesti possibili – le carceri, le periferie, i centri di ricovero per gli anziani, le scuole, gli ospedali – ha bisogno di finanziamenti tanto quanto i brevetti tecnologici.
D. Una relazione molto forte tra università e industria c’è negli USA, dove si registra un importante ruolo dell’investimento privato nella ricerca. E in Italia e in Salento?
Fabio Ciracì: La nostra Università ha da tempo attivato numerosi percorsi indirizzati alla formazione al lavoro con prestigiose partnership sia a livello territoriale sia a livello nazionale e internazionale. Nello specifico, il Corso di studi in filosofia e scienze filosofiche da alcuni anni ha avviato seminari e laboratori sul tema, a cura delle Colleghe Nadia Bray e Luana Rizzo, che coinvolgono tanto i partner strategici quanto le parti sociali in attività seminariali di formazione e mettono a frutto l’esperienza sul campo dei nostri interlocutori nella prospettiva di un arricchimento della formazione universitaria. Per esempio, si sono avviate attività formative con Samsung, Calcagnile Academy, Aforisma, Icaro Editore e molti altri attori presenti sul territorio salentino e nazionale. Voglio però sottolineare che si tratta di un arricchimento, non di uno schiacciamento della didattica e della ricerca sul mondo del lavoro. In questo senso, la formazione universitaria deve certamente potersi declinare in modo da realizzarsi in pratiche lavorative, cercando di incidere sulla società, ma deve al contempo mantenere la libertà che le è propria per poter assumere un ruolo di guida dei processi che governano il mondo del lavoro.
Nadia Bray: Mi ricollego alla risposta del Presidente del nostro corso di Laurea( ndr Fabio Ciracì). Mi piace innazitutto sottolineare che l’attuale profilo del corso di studi in Filosofia nei suoi rapporti con gli Stakeholders del terriorio è l’esito di un lavoro decennale difficile e ostinato che abbiamo portato avanti con una visione ostinata. Innanzitutto abbiamo interpretato l’invito ministeriale ad aprirci al dialogo con le imprese, esattamente come il professore Ciracì ha messo in evidenza, non come uno snaturamento quanto nei termini precisi di una missione. Ci siamo chiesti se la formazione storico filosofica avesse veramente una spendibilità nel mondo delle imprese, degli enti pubblici, oltre che naturalmente nella ricerca e nella didattica tradizionale. Ci siamo risposti di sì. Abbiamo ritenuto che fosse doveroso cercare un dialogo con gli attori del territorio nel quale la nostra Università, quindi anche i nostri studenti e le loro famiglie sono inserite. Abbiamo scoperto che questo mondo era molto più preparato ad accoglierci e a valorizzare le nostre competenze, di quanto noi stessi potessimo immaginare. Le imprese e gli enti pubblici hanno da tempo compreso che il pensiero critico, l’immaginazione trasversale e la capacità di confrontare modelli teorici astratti e diversi sono i punti di forza di qualsiasi progettazione capace di stare al passo con le sempre più accellerate trasformazioni economiche e culturali e sono necessari per individuare le medesime nel loro momento di incipienza e per guidarle, anziché semplicemente affrontarle. I punti di forza richiesti ad una progettazione lungimirante sono i medesimi che contraddistinguono il profilo di uno studente formato alle discipline umanistiche e in particolare filosofiche.
Forti di questa consapevolezza abbiamo intrapreso il dialogo con Partners fortemente collaborativi, motivati dalla medesima intenzione di voler contribuire a dare slancio al territorio, ciascuno attraverso le proprie competenze e mettendo in rete le proprie risorse. È così che sono nati progetti in cui la filosofia si è interrogata sul concetto di cura, contribuendo alla progettazione di strategie volte a promuovere l’accesso a teconologie biomedicali personalizzate (Medtronic), alla progettazione dell’accesso digitale di beni materiali e immateriali del territorio (Samsung), alla divulgazione di valori umanistici, filosofici e culturali attraverso la moda e il teatro (Calcagnile Academy, Astragali), della filosofia nelle scuole (International House Oxford), all’editoria (Icaro), all’orientamento (Aforisma).
Si tratta di un percorso in costruzione, per il quale serve visione, impegno e per il quale manca ancora qualche passaggio. Bisogna arrivare, questo è il punto su cui insisto continuamente, a costruire una rete forte in grado di partecipare a progetti competitivi e di accedere ai corrispondenti finanziamenti. Solo così si potrà dimostrare che le visioni non sono utopie, quanto piuttosto sono tasselli di un mosaico più complesso, il quale si può e si deve costruire, e che diventa capace di innescare circuiti economici virtuosi, per i quali esiste compenso – che riconosce la dignità del lavoro, e non mero profitto.
Angelo Salento: In Italia il contributo dei privati alla ricerca è, tradizionalmente, ridotto. Questo in ragione della piccola dimensione media delle imprese, ma forse anche della scarsa propensione delle imprese a fare innovazione di processo e di prodotto. La possibilità che le imprese hanno avuto di ridurre il costo del lavoro le ha portate molto spesso a competere su questo piano, anziché sul piano dell’innovazione, e oggi ne paghiamo le spese in termini di precarietà del lavoro, di bassa produttività e di scarsa competitività. Per fortuna, la ricerca pubblica è comunque andata avanti, troppo spesso misconosciuta in questo suo ruolo di grande innovatrice.
Guglielmo Forges Davanzati: condivido l’analisi di Angelo Salento e aggiungo che la ricerca pubblica italiana è largamente sottodimensionata. L’Italia ha meno sedi universitarie della media europea. Pur a fronte di questo, come ripetutamente documentato dal blog Roars, riusciamo a produrre molta buona ricerca scientifica di livello internazionale.
Elisabetta Salvati: negli Stati Uniti assistiamo ad una stretta e radicata collaborazione tra le università e il settore industriale. Questo legame è notevole ed è basato sull‘importante apporto dell’investimento privato nella ricerca, che si traduce in progetti congiunti di ricerca, finanziamenti provenienti da aziende per la ricercaaccademica e la creazione di centri di ricerca e sviluppoallinterno delle istituzioni universitarie.sebbene negli ultimi anni siano stati compiuti sforzi per proimuovere una maggioore sinergia tra il mondo accademico e l’industria si osserva una collaborazione meno sviluppatarispetto agli Stati Uniti.Questo divario è in parte attribuibile a sfide legate alla tradizione e alla cultura accademica. La situazione inoltre varia notevolmente in base a specifiche dinamiche locali e alle risorse disponibili con l’efficacia della collaborazione tra università e industria che dipende dalla presenza di settore industriali rilevanti nella regione e dall’entusiasmo delle istituzioni locali.E’ fondamentale rilevare che spesso il principale ostacolo risiede nella capacità di operare piuttosto che nella disponibilità di finanziamenti,dato che in Italia ci sono consistenti fondi per l’innovazione messi a disposizione di governi regionali,nazionali e comunitari.La promozione di una maggiore interazione tra università e industria è riconosciuta cone una opportunità di primaria importanza per stimolare l’innovazione e favorire lo sviluppo economico.Tuttavia il successo di tali sforzi richiede un impegno congiunto sia da parte del mondo accademico che dell’industria,insieme ad una più efficace collaborazione nella gestione e utilizzo dei finanziamenti disponibili.
D. Quando si parla di ricerca applicata si tende a pensare alla ricerca scientifica e tecnologica. Eppure l’innovazione, ancor prima che essere una vicenda “applicativa”, non dovrebbe riguardare i modelli sociali e comportamentali e contribuire nella costruzione delle policy?
Fabio Ciracì:non vi è nulla di più concreto della “idea di mondo”, quella che i tedeschi chiamano Weltanschauung. È la visione di insieme che permette di mettere in pratica le conoscenze specialistiche e sono i modelli culturali ad orientare il pensiero e l’azione. Si pensi a un modello culturale fondato sulla sostenibilità: solo se si ha ben chiaro che cos’è la sostenibilità (Lo sviluppo sostenibile è uno sviluppo che soddisfi i bisogni del presente senza compromettere la possibilità delle generazioni future di soddisfare i propri) che si può intervenire sui tre pilastri che la fondano: società, ambiente ed economia. Oppure, per fare un esempio negativo: basta l’idea sbagliata dell’esistenza di una razza superiore a determinare guerre e disastri storici dei quali oggi pare si sia persa memoria.
Angelo Salento: la “deformazione tecnologica” è uno dei mali peggiori del nostro tempo. Confondiamo l’innovazione con l’hi-tech, è un errore tanto grossolano quanto frequente. E così non ci rendiamo conto che abbiamo bisogno di innovazione nell’organizzazione delle attività essenziali: nella sanità, nell’assistenza e nella cura, nei trasporti, nella produzione e distribuzione del cibo, nel trattamento dei rifiuti, e via dicendo. E non si tratta soltanto di innovazione tecnologica, ma proprio di innovazione organizzativa. In che modo dobbiamo organizzare queste attività essenziali affinché rispondano ai bisogni del presente? Come le rendiamo compatibili con le pressanti esigenze di giustizia sociale e di sostenibilità ambientale? Siamo drammaticamente indietro, su questi versanti. Anzi, possiamo dire che abbiamo fatto enormi passi indietro. Un esempio? Nel 1978 abbiamo fondato il Sistema Sanitario Nazionale, la più grande innovazione sociale ed economica del secolo scorso. In questo primo quarto di secolo lo abbiamo fatto a pezzi. E questo vale anche per molte altre infrastrutture della vita quotidiana.
Elisabetta Salvati: attualmente si! L’innovazione in genere associata alla sfera scientifica e tecnologica è una forza che in realtà non è confinata a tali ambiti.Si estende di fatto alle dimensioni sociali e comportamentali della realtà umana e naturalmente alle politiche pubbliche che regolano la vita collettiva.
La filofosia, che è la storia del pensiero umano, svolge un ruolo fondamentale per l’innovazione sociale perchè opera per la costruzione e ristrutturazione dei paradigmi culturali,nella ridefinizione delle norme sociali e nell’elaborazione di politiche pubbliche più efficaci e rispondenti alle mutevoli esigenze della società.
L’innovazione sociale rappresenta il veicolo attraverso il quale si manifesta il cambiamento e l’evoluzione delle dinamiche sociali e comportamentali per affrontare questioni complesse quali la povertà, l’uguaglianza di genere,la sostenibilità ambientale e altre sfide della nostra attualità.Essa si esplica attraverso l’adozione di nuovi paradigmi,l’implementazione di nuovi programmi innovativie il coinvolgimento attivo delle comunità nei processi di ricerca e sviluppo di soluzioni sostenibili.
Inoltre, l’innovazione può influenzare significativamente il processo di formulazione di politiche pubbliche, questo richiede un approccio basato sull’anali di dati, sull’implementazione di politiche fondate su evidenze concrete,nonchè una partecipazione attiva dei cittadini o delle parti interessate nella definizione di politiche pubbliche più efficienti e flessibili,in grado di adattarsi alle mutevoli esigenze della società contemporanea.
In sintesi,l’innovazione è un concetto che va al di la della ricerca scientifica e tecnologica abbracciando le sfere sociali e politiche della realtà umana. La sua capacità di influenzare e trasformare modelli di pensiero, comportamenti e politiche pubbliche è fondamentale per il progresso sociale e per il benessere collettivo,contribuendo così alla costruzione di una società più equa, inclusiva e sostenibile.
Nadia Bray: Esattamente. Sono daccordissimo e mi pare di aver espresso esattamente questo concetto nelle risposte precedenti. Con il suo invito a dialogare con il territorio, oggi il Ministero dell’Università e della Ricerca, portando avanti la politica europea, mi pare richieda a noi umanisti di ripensare il nostro ruolo nella cultura, legittimando il senso stesso dell’esercizio delle nostre discipline e degli studi che coltiviamo. Tale senso non può essere riposto nelle aule dell’Università, intese quali contesti autoreferenziali. Nel rischio di autoreferenzialità la cultura delegittima se stessa. Lo studio delle discipline umanistiche e i progetti che possono nascere a partire da una visione del mondo fondata sui valori è capace di promuovere in modo critico modelli sociali e costruire delle policy rispondenti ai bisogni della nostra società. L’Europa stessa oggi richiama gli intellettuali a questa responsabilità.
D. Riprendendo il sopra citato ragionamento di Maura Gancitano a Piacenza…”il pensiero non nasce perfetto ma va trattato e scomposto, richiede discernimento e capacità di separare… riuscire a pensare contemporaneo significa recuperare una dimensione concreta, applicandola a questioni su cui non è possibile dare risposte semplici, ma che presentano grovigli, da sciolgliere”…..
Angelo Salento:certo, siamo pieni di “wicked problems”, questioni diabolicamente difficili, che non hanno una soluzione definitiva (né semplice né complessa), ma richiedono di essere trattate nel modo più ragionevole e razionale possibile. Il “soluzionismo tecnologico”, come ho detto, è fallace, in questi casi: crea illusioni e poi, per conseguenza, delusioni.
Nadia Bray: discernimento, capacità di separare, capacità di pensare la complessità. Si tratta di competenze assolutamente centrali nella diagnosi e nella proposta di soluzione di problemi culturali e sociali. Promuovere segmenti di soluzioni, in qualsiasi tipo di problema, ha senso se i segmenti fanno parte di una visione complessa e unitaria. Non ha senso invece se il disegno viene fuori dalla giustapposizione di segmenti, perché in quest’ultima ipotesi, i rimedi ad un caso circoscritto, decontestualizzati, cioè proposti al di fuori di una visione d’insieme del problema medesimo, rischiano di introdurre degli effetti collaterali, persino capaci di produrre effetti peggiorativi sul sistema complesso che trascurano di considerare. La soluzione, a costo di ripetermi, consiste nel partire dalle persone, e forse, ancora prima, dal concetto di uomo e dai bisogni di un uomo. Dovremmo tornare a leggere il Convivio di Dante, con qualche buona introduzione. Dovremmo forse custodirlo sul comodino della camera da letto, per non dimenticarci mai, cosa è un uomo.
D. Con i nuovi problemi emergenti – così un recente “Manifesto per una nuova economia e per la salvezza della civiltà”, firmato da tantissimi economisti – diviene inadeguato il modello del ricercatore chiuso nella sua torre d’avorio, avulso dalla società, ed è invece urgente quella terza missione dell’impegnarsi in prima persona a saldare le connessioni strette tra didattica,ricerca,e ricadute sociali che da esse derivano”….
Angelo Salento: Il modello del ricercatore nella torre d’avorio, nella realtà, si è sbriciolato da molto tempo. E alcune volte, paradossalmente, il problema è proprio questo: i ricercatori si lasciano ingaggiare in questioni che riguardano interessi specifici, che sono molto spesso interessi “forti”. Il punto, quindi, non è tanto se si esce dalle mura dell’università oppure no. Piuttosto, bisogna capire per che cosa si esce dalle mura: se per mettere il sapere a disposizione degli interessi economici, oppure se per metterlo a disposizione del progresso sociale. Oggi abbiamo bisogno di un sapere che aiuti a ricostruire una società e un’economia giuste e sostenibili. Bisogna superare l’epoca dell’“econocrazia”, cioè del dominio di una tecnica economica che è solo apparentemente imparziale.
Nadia Bray: sono assolutamente d’accordo con quanto proposto nella domanda e con quanto osservato dal collega Angelo Salento. Come dicevo, i mandata ministeriali possono essere subiti oppure interpretati e, nell’applicazione persino guidati. L’invito ai ricercatori oggi è proprio quello, come sottolinea il collega, di uscire dalla torre d’avorio. Le ricerche specialistiche vanno assolutamente coltivate. È tuttavia necessario comprendere che qualsiasi specialismo diventa chiusura ermetica e irresponsabile se non porta con sé, quanto meno come corollario, l’impegno a confrontarsi con le questioni che richiedono di esprimere i nostri valori democratici; di esercitarla, infondo, quella democrazia che vantiamo come diritto. Perdendoci un po’ di tempo, mettendoci, a costo di sbagliare, anche a volte un po’ la faccia. La parola è uno strumento delle cui potenzialità non siamo del tutto consapevoli. Produce cultura, valori ed è capace di promuovere valutazioni che concludono in scelte. La sua efficacia non va abbandonata alla mercé di chi ha bisogno di sponsorizzare prodotti di mercato, di lucrare sulla sollecitazione di bisogni indotti. Dobbiamo riappropriarci della capacità di narrazione, fare rete e promuovere collaborazioni capaci di incidere positivamente e costruttivamente sulla diagnosi dei bisogni autentici delle persone, delle famiglie, della società e sul mercato del lavoro.
D Le spese nella ricerca, tanto più se applicata, non dovrebbero essere considerate al pari degli investimenti e trattate quindi come spese in conto capitale piuttosto che di natura corrente?
Fabio Ciracì:La risposta qui è ovviamente sì.
Angelo Salento: la ricerca è certamente un investimento, in senso lato, senza ricerca non c’è futuro, in una società evoluta e civile. Ma non credo la si debba considerare come una spesa in conto capitale, perché richiede in massima parte un flusso di risorse costante. Il dogma della riduzione della spesa corrente ha fatto molti danni alla ricerca: ha portato a precarizzare una fetta sempre più larga dei ricercatori, anche nelle università. In realtà, la ricerca non procede soltanto attraverso specifici “progetti di ricerca”, finanziati singolarmente: richiede un finanziamento continuo e costante, senza il quale le strutture di ricerca non possono vivere.
Guglielmo Forges Davanzati: ritengo, riprendendo quanto detto dalcollega Salento, che la spesa pubblica per ricerca e sviluppo non andrebbe contabilizzata nel deficit, trattandosi sostanzialmente di un investimento a beneficio delle generazioni future.
Nadia Bray: assolutamente d’accordo con i colleghi.
D.”Interdisciplinarietà, radicamento del ricercatore nella società e sul territorio, volgendo in benefici le innovazioni (ndr: non solo tecnologiche). La specializzazione a silos deresponsabilizza, genera distonia dal comune sentire ed espone a usi irresponsabili e mercenari delle tecnologie”(Cfr Manifesto economisti)…….
Fabio Ciracì:etimologicamente, il termine Università si richiama all’universalità degli studi. In questo senso, il paradigma umanistico, classico e rinascimentale, viene, per così dire, aggiornato con il termine interdisciplinarità, ovvero all’idea che le discipline non siano dei compartimenti stagni e che il dialogo tra di loro sia non solo fonte di scoperte e innovazione, ma una necessità della ricerca propriamente detta. A partire da questo assunto, la ricerca interdisciplinare impone una formazione che non potendo essere “totale”, si esercita come ricerca di comunità, come luogo in cui la formazione e la ricerca sono date come prodotto dell’interazione di gruppi altamente specializzati ma capaci di collaborare in maniera sistemica e aperta.
Angelo Salento: sì, come ho detto, una scienza capace di affrontare le questioni più urgenti del nostro tempo – l’emergenza climatica e ambientale, le disuguaglianze, gli squilibri demografici – deve superare l’idea che ci sia sempre una e una sola soluzione. Serve una collaborazione scientifica. È una sfida difficile, perché molto spesso il dialogo fra diverse specializzazioni è un dialogo fra sordi. Alcune discipline, come la sociologia, possono fungere da “ponte”, ma il più delle volte ciascuno scienziato crede che la sua specializzazione detenga una competenza esclusiva o prioritaria su ciascuna questione. E gli esiti spesso sono infelici. Pensiamo ad esempio a quanto avvenne nel 2008: erano pochissimi, fra gli economisti, coloro che avevano previsto il tracollo finanziario. Soprattutto, quelli che lo ritenevano assai probabile non erano affatto ascoltati.
D.”Homo Stupidus Stupidus”, recente lavoro di Vttorino Andreoli, che riprende Robert Musil “Sulla stupidità”, e al quale sembra fargli eco il lavoro di Alessando Baricco “il Game”. L’umanità condannata a divaricarsi sempre di più, da una parte un gruppo ristrettissimo di individui dotati di “conoscenza”, abili e competenti, e che in Italia cercano di realizzarsi all’estero, dall’altra una massa di persone che giocano…
Fabio Ciracì: a me pare che l’idea di una divaricazione tra “stupidi e no” conduca a una sorta di tunnel cognitivo che prefigura una divisione all’interno del genere umano, magari non voluta, ma di certo interiorizzata a partire dal modello “capitalistico”. Là dove si addita lo stupido, al contempo qualcun altro si (auto)definisce migliore, (ἄριστος) àristos. Ma un pensiero aristocratico di solito, come sapevano bene Flaubert e Sartre (il primo con la bêtise erudita di Bouvard e Pécuchet, il secondo con l’Idiot de la famille) si tratta di una fatale attrazione verso se stessi, con il fine di segnare un differenza tra il proprio ego e gli altri. In questo cerchio autocentrato, che si restringe sempre più come la tunica di Nesso, l’io si mostra più fragile, più chiuso, e per rafforzarsi erge attorno a sé un muro di incomunicabilità e di superiorità, che non ha nulla a che fare con l’apertura richiesta a un uomo di cultura, mosso sia dalla curiosità e dallo stupore filosofico, sia dall’idea che la conoscenza si fondi sullo scambio reciproco.
Esiste poi una forma di “capitalismo cognitivo”, il possesso di conoscenze avanzate che, da sempre, dacché esiste l’uomo, ha deciso il suo sviluppo e il suo destino. Come specie umana, contrariamente alla logica imposta dal capitalismo, il sapiens ha imparato che il lavoro di comunità ha dei vantaggi evolutivi, che la disseminazione di idee permette il progresso, mentre la distribuzione sperequata del sapere porta a sacche di potere e a forme di dominio dell’uomo sull’uomo, e anche sulla natura. Noi non possiamo che essere contrari a questo modello fondato sulla competizione e improntato alla logica del profitto applicata anche alla scienza. Possiamo invece promuovere il modello della condivisione sapendo bene che, come ha scritto Gadamer, “La cultura è l’unico bene dell’umanità che, diviso fra tutti, anziché diminuire diventa più grande”. Lo scopo della scuola e dell’università è, antropologicamente, consegnare il sapere acquisito affinché diventi fonte e matrice di modelli culturali per il futuro. Ed quello che io immagino e auspico fortemente è un futuro di solidarietà tra gli uomini e di armonia con il nostro pianeta. Forse questo è davvero il fine e il senso che non possiamo smarrire nello svolgere il nostro mestiere di docenti.
Angelo Salento: è una prospettiva per nulla entusiasmante. La cultura non è cultura se non è di tutti – si diceva un tempo. Oggi facciamo uso di tecnologie che plasmano le nostre vite, la nostra quotidianità, le nostre relazioni sociali, senza renderci conto che sono strumenti ideati, progettati, realizzati, finanziati da gruppi assai ristretti di persone. Non possiamo sorprenderci del fatto che producano effetti regressivi. Anche chi riesce a far parte del nucleo tecnico che governa questi sistemi, in realtà, non è una persona libera e autonoma. Può essere ben retribuita, può avere una vita anche molto agiata, vivere da privilegiato in città molto attraenti, ma non per questo si può dire una persona libera. La libertà si ottiene soltanto quando le infrastrutture della comunicazione e delle relazioni sociali sono gestite in maniera trasparente e democratica. Nel complesso, oggi stiamo allegramente procedendo in direzione opposta.
Nadia Bray: l’’accesso ai diritti è completo infatti solo se accompagnato dalla consapevolezza che di quei diritti sono titolare in quanto portatore della dignità inalienabile di essere un uomo. Tale consapevolezza richiede istruzione e cultura, condizioni che gli Stati promuovono attraverso i ministeri e le istituzioni preposte, l’obbligo dell’istruzione e il sostegno al proseguimento degli studi in termini di contributi economici o detassazioni nei casi di comprovata sofferenza economica.
Non stupisce che accanto ai tradizionali centri deputati all’insegnamento scolastico primario, secondario medio inferiore e superiore ed universitario, si tenti di individuare, a livello di politica comunitaria, strategie volte a contrastare i fenomeni di povertà educativa, a rafforzare percorsi di formazione permanente, richiamandoci alla responsabilità, cito… «di creare reti territoriali tra scuole, enti di formazione, università, centri territoriali per l’istruzione degli adulti, servizi per il lavoro, camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura, imprese» al fine di favorire, superando gli specialismi, l’accessibilità delle conoscenze anche a destinatari non addetti ai lavori. Una sfida laica! Si potrebbe dire in modo assai appropriato prendendo a prestito un concetto, quello di laicizzazione della filosofia, dal medioevo. Oggi laicizzare il sapere non è più un’operazione che richiede la traduzione dei contenuti dal latino in volgare. Parliamo tutti la medesima lingua nazionale. Non ci capiamo tuttavia. Il lavoro di ‘laicizzazione’ ci chiede infatti qualcosa di nuovo e di opportuno in questo periodo storico: la capacità di rendere fruibili i contenuti di discipline specialistiche in modo tale che i medesimi siano per tutti strumenti di esercizio di ragionamento critico, il solo capace di restituire l’uomo alla libertà della quale ha diritto.
Conclusioni
Lo scopo ultimo della ricerca dovrebbe essere quello di risolvere problemi, più o meno complessi, affinando e mettendo a disposizione della società strumenti concettuali e nuovi paradigmi culturali, producendo conoscenza e trasmettendola con la formazione avanzata. La differenza più evidente sembra sia data, a questo punto, dalla capacità di costruire“attività di collegamento“ con l’economia, con il mondo socio-culturale, con le istituzioni del territorio( cfr Giulio Buciuni e Giancarlo Corò, Periferie competitive).
Tra le „attività di collegamento“, lo si è visto nella conversazione, un sistema di valutazione che dia peso ai progetti di Terza Missione, ma si potrebbero aggiungere, a puro titolo di esempio, soluzioni che aiutino ad uscire dalla autoreferenzialità coinvolgendo, in forme che non siano solo formali e burocratiche e con dialoghi strutturati, tecnici e professionisti esterni, imprenditori economici e sociali (Terzo settore), dirigenti di azienda e della pubblica amministrazione (in tesi sperimentali, in dottorati di ricerca, nelle commissioni di laurea, ultimo, ma non ultimo, in quelle che valutano i docenti) per una diversa riprogettazione di corsi e insegnamenti.
Tuttavia, non è solo il rapporto tra università e territorio a segnare momenti di criticità lo è anche quello tra il mondo della scuola e quello del lavoro, dove si registra, negli ultimi anni, uno scarto preoccupante e pari al 48%: il mondo delle imprese non trova le persone con formazione adeguata, e delle quali ha bisogno; e non va taciuto, da ultimo, quello che i reclutamenti per il PNRR hanno reso evidente.La pubblica amministrazione non riesce ad attrarre e trattenere un numero adeguato di persone.
Le buone pratiche non mancano, ma sembrano rimesse ad iniziative individuali o di Corsi, eccezioni più che dinamiche strutturali in grado di trasmettere conoscenze per progetti di innovazione, sociale, ancor prima che tecnica, e che non sembrano ancora diventate patrimonio collettivo diffuso.
Trieste-Lecce 14 ottobre 2023
Enrico Conte