IL PENSIERO MEDITERRANEO

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Somari si nasce non si diventa

alpino_con_il_suo_mulo

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di Sandra Guddo

SOMARI SI NASCE NON SI DIVENTA

Vincitore PREMIO LETTERARIO INTERNAZIONALE 2023

RACCONTI BREVI I GUERRA MONDIALE

18 MAGGIO

Angelica, sei stanca? Sei stata brava, hai camminato tanto anche oggi, ma adesso tolgo tutto il carico, ti do una bella strigliata e ti faccio mangiare”.

Nessuno della compagnia ormai si stupiva delle parole affettuose che Pepè rivolgeva a ciascuno dei suoi animali. Per la precisione la mandria era composta da un’asina e undici muli. Dodici in tutto, come gli apostoli del Signore!

Orlando, adesso arrivo anche da te: state tranquilli, tutti voi avrete una grossa balla di fieno a testa e poi a nanna. Domani ci aspetta un duro percorso da fare … è vero sergente?”

Ugo Orsini, il sergente chiamato in causa, non sapeva se Pepè lo stava sfottendo o parlava sul serio. Che ne potevano capire i muli dei suoi discorsi?

“É vero sergente?” insistette Pepè e si stupiva di quell’uomo che lo fissava dubbioso: che non avesse capito la domanda? Il soldato non era siciliano come Pepè e forse non interpretava il suo italiano infarcito di espressioni dialettali, era dotato però del senso dell’umorismo.

Ti dovrei forse spiegare la strada che faremo domani così ne parlerai con i tuoi muli?”

Perché no?! A volte i somari capiscono meglio degli uomini”.

Non aggiunse altro ma in cuor suo pensava che solo delle bestie con sembianze umane possono decidere di mandare in guerra soldati affamati, impreparati e male equipaggiati o peggio uomini non più giovani, strappati dalla propria casa, com’era accaduto a lui.

Pensieroso Pepè tornò ad accudire i suoi muli, chiamandoli per nome e accarezzando i loro mantelli bai dal pelo lucente e folto.

 Erano di pura razza ragusana, i migliori che si possano trovare in Sicilia, selezionati per il trasporto di carichi che potevano arrivare fino a due quintali di peso. Per questo era stato chiamato alle armi anche se aveva ormai più di cinquant’anni. Troppo vecchio per fare la guerra.

Devi andare o ti fucileranno per alto tradimento”.

Gli aveva consigliato Vincenzo, il suo fedele amico che era diventato il rispettato maestro del suo paese mentre Pepè aveva deciso di allevare muli.

Sono gli animali migliori del mondo. Ubbidiscono ai tuoi ordini e non ti tradiscono mai, non danno problemi ma solo soddisfazioni. Senza di loro chi aiuterebbe il contadino nei lavori più pesanti? Chi trasporterebbe le merci da un paese all’altro senza difficoltà?

Pepè, non esagerare, i muli in Sicilia servono per forza! Non abbiamo strade ampie ma tante mulattiere che risalgono ai tempi dei tempi e che ci servono ancora. Sennò i muli non sarebbero così richiesti come i tuoi”.

“Ti sbagli! i miei muli sono richiestissimi: pure il re li vuole! Vedi questa lettera: per ordine del re devo andare in guerra e portare i miei dodici muli con me. Hanno il compito di trasportare armi, equipaggiamento invernale e vettovagliamento per i soldati prima che muoiano per il freddo, per la fame o morti ammazzati”.

“Allora devi andare, non hai scelta!”

 E così Pepè si era ritrovato con i suoi muli nel Cadore diretto verso il passo Falzarego per raggiungere la Cengia Martini sul Lagazuoi dove era stata stabilita la base operativa per la distribuzione del vitto e delle armi per le truppe presenti nel punto più strategico del teatro di guerra contro l’impero austro-ungarico. La postazione era talmente importante che presto fu fornita anche di cucine e posto di medicazione.

La Cengia Martini però faceva paura ai soldati perché era l’ultimo avamposto italiano e si trovava incuneato dentro il territorio austriaco.

“Se proprio ci tieni a saperlo, domani attraverseremo il Piave, passeremo dal villaggio Ponte sulle Alpi e da lì, inoltrandoci per fitti boschi di larici, arriveremo a Cortina”.

Tutto qui? Avete sentito, miei cari, sarà una passeggiata”.

Mica tanto, si tratta di un percorso spesso in salita e di passaggi stretti e scoscesi in mezzo alle montagne”.

“Grazie, sergente, anche a nome della mia bella Angelica!”

Orsini e gli altri scoppiarono a ridere e cominciarono a fraternizzare tra loro esseri umani e somari.

Il giorno seguente, dopo qualche ora di marcia, apparve fluido e scintillante come un lungo nastro di seta argentato:

Ecco il Piave, ci sono diversi punti in cui il fondale è basso e ghiaioso”.

“Dobbiamo trovare un punto in cui sarà facile anche per i miei muli il guado” puntualizzò Pepè al sergente, osservando con occhio critico la rete di sentieri che portava al fiume sacro della patria.

Fidati, Pepè, i tuoi muli stanno a cuore a me quanto a te”.

Il Piave appariva maestoso per la sua notevole portata d’acqua, perciò

suscitava ammirazione e rispetto per essere stato il baluardo naturale contro l’avanzata austro-ungarica e tedesca.

L’attraversamento avvenne in modo tranquillo, anzi la frescura delle acque, in quella calda giornata di agosto del 1918, suscitò l’ilarità di tutti e forse anche dei muli. Orlando, infatti, aveva cominciato a ragliare in modo insolito, a cui faceva eco la bella Angelica che sembrava duettare con lui a suon di ragli acuti che dilagavano nell’aperta radura.

Che c’è bello mio? Ti piace l’acqua di questo fiume? Dalle nostre parti non ce ne sono di così grandi, in compenso abbiamo il mare!”

Orlando sembrava capire e ricordare la tremolante massa d’acqua del Mediterraneo. I muli, si sa, sono testardi ma dotati di ottima memoria e quando fanno un percorso non se ne dimenticano più.

Poi il cammino si fece più arduo. Il sergente non aveva esagerato: ad un certo punto, in prossimità delle Cinque Torri, il sentiero era davvero stretto, scivoloso ed assai esposto. Bisognava procedere lentamente e con molta prudenza. Pepè sorvegliava i muli e si assicurava che l’enorme carico che trasportavano sulla schiena fosse distribuito in eguale misura da un lato e dall’altro, in perfetto equilibrio. Per tutto il percorso rimase con il fiato sospeso temendo che qualche mulo potesse mettere la zampa in fallo e scivolare sui ghiaioni di Dolomia o rimanere incastrato nei tanti crepacci che si presentavano all’improvviso. La montagna aveva un fascino particolare, appariva bellissima e misteriosa; eppure, c’era qualcosa di sinistro che spaventava ad ogni angolo la piccola carovana: il ricordo della sconfitta di Caporetto, avvenuta quasi un anno prima terrorizzava i soldati. Era stata una vera carneficina dove tante giovani vite, sia dalla parte italiana che austriaca, erano state spezzate. 

Quel ricordo era sempre presente nella mente di Pepè come una lama

affilata conficcata nel cuore di un padre che aveva perso il suo unico figlio in battaglia.

É morto da eroe” aveva cercato di consolarlo l’amico di sempre, il buon Vincenzo, ma dai racconti dei sopravvissuti erano emersi particolari agghiaccianti che indicavano il generale Luigi Cadorna come l’unico responsabile di quella carneficina.

Quando finalmente la carovana arrivò al passo di Falzarego, il sergente ordinò di sostare e di pernottare in paese. I muli carichi di vettovaglie non furono mai persi di vista. La popolazione era affamata e ridotta allo stremo da una guerra che avrebbe potuto facilmente essere evitata con una sapiente azione diplomatica italiana.

Pepè era davvero orgoglioso dei suoi muli ed in particolare della sua asina che donava latte gustoso e nutriente. Orlando però non era da meno: faceva bene il suo lavoro, era un attento capofila e procedeva a testa alta senza fermarsi mai, seguito dalla piccola mandria. Aveva un’aria intelligente forse per effetto di due cerchi bianchi che spiccavano attorno agli occhi e che sembravano due curiosi occhialini.

L’accampamento era rischiarato dal fuoco acceso attorno al quale erano seduti i soldati, ognuno ad inseguire i propri sogni che si innalzavano stentatamente verso il cielo come le faville destinate a spegnersi in poco tempo.

Poche parole, molti sospiri, qualche racconto per sentirsi ancora uomini.

Sapete la leggenda che circola su questo paese?”

Il Sergente faceva di tutto per tirare su il morale dei suoi uomini. Più la meta si avvicinava e più la paura di trovarsi in territorio nemico cresceva.

Ce la racconti?” lo invitò di rimbalzo Pepè che non aveva dimenticato la gentilezza di qualche sera prima.

Anche i tuoi muli vogliono sentire?”

E tutti giù a ridere.

“Loro per primi: hanno bisogno, come noi, di distrarsi e di dimenticare la fatica che pesa sul loro groppone”.

Gli uomini erano stanchi e sofferenti: avevano lasciato le loro case e i loro familiari e si chiedevano segretamente se avrebbero mai fatto ritorno. Tanto valeva distrarsi:

“Si, Sergente, ci racconti la leggenda di questo paese!”

Soddisfatto del consenso ottenuto, Orsini si schiarì la voce con un sorso di grappa che teneva nella borraccia metallica. Poi la passò ai suoi uomini; un sorso per ciascuno.

Dovete sapere che un tempo nel regno di Fanes, viveva con le sue figlie, Dolasilla e Luyanta, un Re egoista e avido di potere. Dolasilla era dotata di poteri magici per cui in battaglia non poteva essere ferita, almeno fino a quando non si fosse maritata. Soltanto il Re era a conoscenza dei poteri della figlia che rappresentavano per lui una vera risorsa contro i nemici. Un giorno però un cavaliere nobile e generoso, da sempre innamorato della fanciulla che lo ricambiava, la chiese in moglie. A quel punto il re lo fece cacciare via dal regno ma il giovane prima di partire regalò alla sua amata uno scudo magico che l’avrebbero protetta dalle frecce stregate del malvagio Spina de Mul, acerrimo nemico del regno di Fanes.

Dolosilla ignorava però che Spina de Mul, con uno stratagemma, era riuscito a procurarsi proprio da lei stessa, alcune frecce argentate capaci di trafiggere anche lo scudo magico. Quando la battaglia ebbe inizio, Dolosilla

fu colpita a morte. Intanto il Re, all’insaputa di tutti, aveva stretto un accordo segreto con il nemico che, in cambio, gli avrebbe consegnato tutte le ricchezze contenute nel sottosuolo di Lagazuoi. Lontano dal campo di battaglia, mentre era intento a trafugare le ricchezze tradendo la fiducia che il suo popolo aveva riposto in lui, il re di Fanes era rimasto ignaro della morte della figlia e della sconfitta subita dalla sua gente. Per queste gravi colpe venne tramutato in roccia. Giustizia era stata fatta! La leggenda ha dato origine al nome di questo luogo incantato delle Dolomiti: Falzarego, cioè “Falso Re”.

Un racconto bellissimo ma molto triste che denunciava ancora una volta l’inaffidabilità di chi detiene il potere e talvolta manda il popolo alla rovina o peggio incontro alla morte, per pura avidità. Pepè si rese subito conto che il racconto aveva sortito l’effetto contrario a quello desiderato, lo leggeva nel volto dei suoi compagni di sorte, dei suoi fratelli, così ormai li considerava. Anche il Sergente comprese che la leggenda, riproponendo il tema della guerra, aveva rattristato ancora di più i suoi uomini.

 Che fare?

 Da uno dei tanti sacchi che i muli trasportavano, Pepè tirò fuori, come dal cilindro del mago, una chitarrina e cominciò a cantare un brano. Il testo, scritto in siciliano era bellissimo e abbastanza comprensibile a tutti: raccontava l’amore disperato, forse non corrisposto, di un giovane alla sua bella. Una serenata mattutina sotto il balcone dell’amata che dormiva ancora e tardava ad affacciarsi al balcone per mostrare il suo bel volto di cui anche gli uccellini posati sul balcone e i fiori non ancora dischiusi, sentivano la mancanza.

Fu come una magia: presto alcuni soldati catanesi che conoscevano la

canzone, si misero a cantare insieme a Pepè. Gli altri erano completamente affascinati dalla musica e dalle parole, perfino al Sergente spuntò una segreta lacrima che il buio celava agli occhi di tutti. Un vero uomo non piange per la nostalgia, non in guerra … ma forse è vero il contrario!

“L’hai scritta tu? É una canzone bellissima!”

“Magari! Io l’ho sentita cantare da un mio compaesano e poi ho imparato a memoria musica e parole perché dovevamo fare la serenata alla sua donna prima di partire per il fronte”.

“Come si intitola? Vorrei avere il testo per inviarlo alla mia fidanzata”.

“Il titolo è: “E vui durmiti* ancora”. Sergente, il testo è in siciliano, la sua fidanzata di dov’è?”

“Siamo tutti e due di Verona, la città degli amanti. Per noi l’amore abbatte tutte le barriere: l’amore unisce e fa crescere lo spirito di fratellanza e di solidarietà”.

“La città di Giulietta e Romeo, gli amanti per eccellenza, ma per fortuna gli amanti esistono a tutte le latitudini e questa canzone piacerà di sicuro anche a lei: era una poesia che poi fu musicata, non ricordo da chi … ma so che l’autore si innamorò del testo e in una sola notte scrisse la musica. Se non siete troppo stanco, vi scrivo le parole mentre voi mi reggete la lanterna”.

E mentre Pepè scriveva, nell’accampamento scendeva il silenzio e a qualcuno sembrò di sentire, aldilà delle trincee, l’applauso dei soldati nemici, anche loro affascinati dalla canzone.

 Ma forse era soltanto suggestione!

La commozione era profonda mentre riaffioravano emozioni dimenticate.

Le parole della canzone si adattavano perfettamente alla situazione di incredibile precarietà in cui si trovavano i soldati in trincea: la mia amata si affaccerà al balcone oppure ignorerà l’ardente spasimante? E io sarò ancora vivo? La ritroverò al mio ritorno?

Pepè era emozionato più degli altri per l’onore ricevuto dal suo Sergente che poteva avere l’età di suo figlio morto ammazzato a Caporetto. Ringraziava in cuor suo l’amico Vincenzo da cui aveva ricevuto un’istruzione di base e da cui aveva appreso la storia di Giulietta e Romeo che, pare, sia stata scritta da un siciliano, costretto ad allontanarsi dall’isola per sfuggire al Tribunale della Santa Inquisizione. Quel tale, che si dice fosse un eretico, si era nascosto nella splendida città di Venezia dove avrebbe appreso un fatto di cronaca che riguardava la rivalità tra due nobili famiglie che sarebbe sfociata in una vera strage. Proprio su questa vicenda, quel tale, un certo Guglielmo Xexpiru, avrebbe scritto il dramma, scegliendo come ambiente la città di Verona.  Poi avrebbe preferito allontanarsi anche da Venezia per sfuggire ai suoi creditori riparando in Inghilterra.

  Si era creata, intanto, nell’accampamento un’atmosfera magica che contrastava con la crudezza di quella guerra inutile. Sembrava che anche Angelica e Orlando si scambiassero uno sguardo pieno d’amore.

 Ma forse era soltanto suggestione!

Quella notte in pochi dormirono tra quelle trincee scavate nella roccia: la nostalgia, il desiderio di tornare a casa, di riabbracciare la propria donna, erano fortissimi. Chi aveva una foto dell’amata la tirava fuori dalla tasca, la girava e rigirava tra le dita irrigidite dal freddo, la copriva di baci. Alle prime luci dell’alba ripresero la marcia in silenzio. Anche Pepè che di solito amava scherzare con tutti, muli compresi, era taciturno, immerso nei suoi pensieri.

Si procedeva speditamente in direzione della parete meridionale del Piccolo Lagazuoi per raggiungere la postazione della Cengia Martini, divenuta una roccaforte privilegiata che consentiva di controllare qualsiasi movimento del passo. Finalmente apparve davanti ai loro occhi a pochi chilometri di distanza. Fu allora che Pepè con un fischio prolungato ordinò ad Orlando di fermarsi; il mulo si bloccò a quel suono familiare senza esitazione.

Allora è vero che i tuoi somari sono più intelligenti degli uomini” ironizzava il Sergente.

“E c’è di più, carissimo Orsini, somari si nasce non si diventa!”

Aggiunse con tono solenne ma cosa intendesse dire veramente non era chiaro al Sergente e forse neanche allo stesso Pepè.

Ho bloccato la carovana perché le devo parlare … a quattr’occhi”.

“Adesso? Perché adesso?”

“La questione è semplice: appena entrati alla Cengia Martini, il prezioso carico di cibo, armi ed equipaggiamento sarà consegnato e i miei muli non serviranno più da vivi. Da morti invece saranno una prelibata riserva di carne per questi soldati affamati da consumare durante l’inverno che è ormai alle porte. Io mi batterò contro tutti, contro gli ufficiali, i colonnelli, i generali dell’esercito italiano e, se fosse necessario, anche contro il re per proteggere i miei muli ma so che ogni mio tentativo sarebbe inutile. Soltanto voi potete salvarli. Di me potete fare ciò che volete ma salvate i miei somari”.

“Ho avuto anche troppa pazienza con voi! E adesso questi discorsi campati in aria … che cosa vi fa pensare che saranno macellati?”

“La fame è una brutta bestia e quando si ha fame l’uomo diventa lupo.

Dovete trovare una strategia, un inganno per salvare i miei muli da morte sicura”.

“Ci penserò” stavolta il Sergente era scuro in volto: la questione sollevata da Pepè aveva un suo fondamento.

“No! Dovete trovare una soluzione adesso, dopo sarà troppo tardi”.

Orsini sorseggiò la sua grappa; bere lo aiutava a pensare meglio:

Diremo che, dopo qualche giorno di riposo, i muli dovranno ritornare alla base militare di Verona per un nuovo carico di merci. Ciò li renderà più utili da vivi che da morti. Che ne pensate? Così dovrebbe funzionare”.

“Sì, penso che funzionerà ma …”

“Vi do la mia parola” aggiunse il Sergente per tranquillizzare il povero mulattiere. All’inizio non si fidava di lui e aveva chiesto al comando superiore informazioni su Giuseppe Sinagra, detto Pepè. Aveva così saputo che il figlio, che aveva all’incirca la sua stessa età, era morto in battaglia da eroe.

Magrissima consolazione per un padre a cui era stata nascosta una parte della verità. Marco Sinagra era stato ammazzato senza neanche combattere, senza sparare un colpo. Sfinito dalla fame e dal freddo, tormentato dalle pulci, stordito dal fetore di quella specie di fogna a cielo aperto dove era costretto a rimanere, sonnecchiava come tanti altri soldati in quella lurida trincea, ammorbata dal fango e dagli acquitrini da cui non si spostava da settimane, in attesa di combattere o di morire. Un’attesa interminabile che aveva logorato i nervi, che aveva annullato la volontà, che aveva reso gli uomini apatici e insofferenti. Un lume di speranza si era acceso soltanto quando cominciò a circolare la voce che presto sarebbero stati sostituiti da nuove Brigate che erano posizionate nelle retrovie: un ricambio necessario per allentare lo stress di una lunga guerra di posizione.

 Poi il contrordine: Luigi Cadorna, Capo di Stato Maggiore del Regio Esercito, non lo riteneva necessario. Escludeva la possibilità di un attacco immediato poiché pioveva ininterrottamente e in tali condizioni sarebbe stato assai improbabile che le truppe nemiche sferrassero l’assalto. La grande esperienza del generale non poteva essere messa in discussione anche se due soldati romeni, disertori, lo avevano messo in guardia su un possibile attacco improvviso. L’analisi dello scenario complessivo della guerra avrebbe dovuto contemplare un possibile intervento delle truppe tedesche che, distolte dal fronte russo crollato a causa della rivoluzione bolscevica, avrebbero potuto rinforzare l’esercito austro-ungarico lungo il fronte italiano, ormai in stallo da mesi.

No! Resistere fino alla morte era la parola d’ordine. Chi disertava era condannato, senza tanti complimenti, dalla corte marziale alla fucilazione. Se un soldato non fosse morto ammazzato dai nemici, lo sarebbe stato per il fuoco amico: il destino per molti soldati italiani era già stato scritto. Per troppi soldati, per ben quarantamila: tanti ne morirono o restarono feriti quella tragica notte del 24 ottobre 1917 durante la battaglia di Caporetto.

Tra costoro, il siciliano Marco Sinagra, ucciso da un gas sconosciuto.

Non aveva neanche trent’anni!

“Perché dovreste fare questo per me e i miei muli?”

Ugo Orsini ormai non poteva fare più nulla per il figlio di Pepè ma poteva ancora fare qualcosa per i muli a cui l’uomo era legato da un affetto viscerale.

Rispose con le parole che il cuore gli dettava e che soltanto chi è stato in guerra avrebbe potuto capire fino in fondo. Spesso le bestie sono migliori degli uomini

“Perché muli si nasce, non si diventa e oggi mi sento un mulo!”

SANDRA VITA GUDDO

 Note:

e vui durmiti = e voi dormite

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18 MAGGIO

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