IL PENSIERO MEDITERRANEO

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Seneca e la terapia dell’ansia

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di Mario Pintacuda

La lettura delle “Lettere a Lucilio” di Seneca costituisce sempre un arricchimento impagabile. Le epistole del filosofo, che si era ormai ritirato a vita privata dopo gli anni passati accanto all’imperatore Nerone, sono una miniera di spunti, un costante invito alla riflessione, un’analisi profonda della condizione umana.

Da quasi tutte le lettere si ricavano ancora oggi messaggi di una validità sconcertante, a dimostrare quanto siano risibili, inconsistenti e disinformate le affermazioni di chi frettolosamente considera obsolete e inutili le opere antiche.

L’epistola 13 a Lucilio affronta il tema dell’ansia; come è facile capire, è un tema di un’attualità straordinaria, perché forse mai come ora predominano timori e incertezze su ciò che ci può riservare il futuro; e se questo è vero a livello storico generale, è vero anche e soprattutto per ognuno di noi, per le nostre esistenze individuali, spesso segnate da preoccupazioni di varia natura (affettive, lavorative, psicologiche, economiche, ecc.) che ingenerano in noi stati di viva apprensione. Ebbene il filosofo, rivolto all’amico e discepolo Lucilio, nella lettera 13 affronta l’argomento con un’analisi lucida e oggettiva. Anzitutto, Seneca entra nel meccanismo dell’ansia, che provoca in noi timori per lo più inesistenti: «Sono più, o Lucilio, le cose che spaventano, che quelle che ci fanno effettivamente male; e noi siamo più spesso in angustie per le apparenze che per fatti reali» (par. 4; utilizzo qui la traduzione di Giuseppe Monti).

Ne deriva il consiglio di non fasciarsi mai la testa prima del tempo e di non angustiarsi anticipatamente per il timore di mali che magari non ci colpiranno mai: «Ti raccomando di non renderti infelice prima del tempo, perché i mali che hai temuto imminenti forse non verranno mai, in ogni caso non sono venuti. Per alcune cose noi ci angustiamo più di quello che dovremmo (“quaedam ergo nos magis torquent quam debent”), altre ci crucciano prima del necessario, altre senza alcuna necessità. O ci aumentiamo noi stessi il dolore, o lo anticipiamo, o lo creiamo con la nostra immaginazione» (par. 4-5).

Con finissimo intuito psicologico, Seneca osserva che ciò che a qualcuno può apparire terribile e preoccupante, per un altro può essere irrilevante: «Può darsi che tu giudichi molto grave un male che per me è lieve. So bene che c’è chi ride sotto la sferza, e chi geme per uno scappellotto» (par. 5).

In ogni caso, sono da evitare assolutamente quelle persone che soffiano sul fuoco, che contribuiscono ad alimentare la nostra ansia, che ingigantiscono ulteriormente i nostri irrazionali timori; dovremo invece imparare ad analizzare la nostra situazione freddamente e lucidamente, per scoprire così l’inconsistenza di certe nostre paure: «Intanto accetta questo mio consiglio: ogni volta che ti vengono intorno per persuaderti che sei un infelice, non prendere in considerazione quello che hanno detto gli altri, ma quello che tu senti, esamina la tua situazione con serenità e domanda a te stesso, poiché ti conosci meglio degli altri: per quale ragione costoro mi compiangono, sono in ansia per me, e hanno persino paura di starmi vicino, come se la mia sventura potesse contagiarli? È essa un male reale o piuttosto una falsa congettura? Domàndati ancora: non c’è caso che io sia triste e crucciato senza motivo, e che mi crei un male che non esiste? (“numquid sine causa crucior et maereo et quod non est malum facio?”)» (par. 6).

L’attualità di questa analisi psicologica è fantastica: quante volte tendiamo a “creare” il male anche quando non esiste, tormentandoci e avvilendoci “senza motivo” (“sine causa crucior”)! Ai mali reali, oggettivi, concreti si aggiunge una pesante sovrastruttura di mali immaginari, soggettivi, astratti; e il bello è che l’ansia per i mali “sognati” fa mettere in secondo piano la preoccupazione per i mali “reali” e, conseguentemente, complica la soluzione di questi ultimi.

Il fatto è, dice Seneca, che “noi ci affanniamo per semplici sospetti” (“plerumque enim suspicionibus laboramus”, par. 8), ci lasciamo ingannare da dicerie e labili sensazioni; soprattutto, “non cerchiamo di veder chiaro nei nostri timori, né abbiamo il coraggio di scacciarli, ma voltiamo le spalle trepidanti, come chi fugge dal campo solo per aver visto la polvere sollevata da un branco di pecore, o come chi si spaventa al racconto di cose leggendarie e irreali, di cui non si conosce neppure l’autore» (par. 8).

La riflessione del filosofo è lucidissima: «Non so perché, ma le cose immaginarie turbano di più (“magis vana perturbant”). Le cose vere hanno i contorni ben definiti, mentre tutto ciò di cui non si ha certezza è in balìa dei giudizi arbitrari e fallaci di un animo atterrito. Niente porta conseguenze così dannose e irreparabili, come il timor panico: se le altre forme di paura sono irragionevoli, questa è dissennata» (par. 9).

Il termine che Seneca usa qui per definire il “timor panico” è (al plurale) “lymphatici metus”, ove l’aggettivo significa propriamente “forsennato, pazzo, furioso” (già Livio usava “lymphaticus pavor” per definire questo “timor panico” irrazionale, cfr. X 28, 10). L’origine del vocabolo va ricercata nel termine “lympha”, che nei testi poetici indica l’acqua, ma da cui deriva un verbo “lymphare”, che al significato di “mescolare con acqua” aggiunge quello di “far impazzire” (“mens lymphata Mareotico”, “mente sconvolta dal vino Mareotico”, dice Orazio, Odi I 37, 14). In altre parole, quello che oggi chiamiamo “panico” viene smascherato nella sua componente originaria di “acqua fresca”, di sostanza originariamente innocua ma trasformata dalla nostra mente in un micidiale mix angosciante e paralizzante.

I consigli di Seneca sono molto razionali: «È verosimile che qualche male possa accadere, ma non è senz’altro certo. Quante cose sono avvenute inaspettate e, viceversa, quante, che erano aspettate, non sono avvenute! (“Quam multa non expectata venerunt! Quam multa expectata nusquam comparuerunt!”) E anche se un male deve venire, che vantaggio c’è ad andargli incontro? Sarai in tempo a dolertene, quando verrà; intanto àugurati cose migliori (“tibi meliora promitte”); guadagnerai tempo» (par. 10).

L’uovo di Colombo, dunque, è “augurarsi cose migliori”, reagire al pessimismo dilagante che ci paralizza, riflettere sulle possibilità reali che un evento temuto si realizzi veramente. Come osserva la moderna psicanalisi, spesso siamo noi a rendere reali le profezie malevole che si annidano nelle nostre menti (si parla di “profezia auto-avverante”): e se non c’era motivo che qualcosa andasse male, siamo noi spesso a farla andar male con il nostro comportamento preoccupato e pessimista.

In ogni caso, Seneca invita a venir fuori da questo tunnel della paura e dell’ansia, mitigando il timore con la speranza: «Se si è presi dal timore di tutto quello che può capitare non c’è più un limite alle miserie umane e cessa ogni ragione di vita. Qui ti sia d’aiuto la saggezza: respingi con la forza dell’animo la paura, anche quando è giustificata; o, almeno, cerca di mitigarla con la speranza (“spe metum tempera”), sostituendo un difetto con un altro (“vitio vitium repelle”)» (par. 12).

Per Seneca, anche la speranza è un difetto, perché può ingannare: «Proprio le cose più temute non si realizzano, e quelle sperate deludono: non c’è realtà più certa di questa fra tutte quelle che possiamo temere. […] Pensa che la maggior parte dei mortali si affanna e si agita senza avere alcun male e pur non avendo la certezza che qualche male venga in avvenire» (par. 13).

In conclusione, dunque, l’ansia si vince vivendo intensamente il presente, senza caricare il futuro di speranze e timori; occorre accettare la realtà, dedicando le nostre energie alle azioni che possiamo intraprendere per migliorare la nostra vita.

La stessa cosa, in fondo, fu detta molti secoli dopo da Schopenhauer: «Solo il presente è vero e reale: esso è il tempo realmente inverato, e in esso soltanto è contenuta la nostra esistenza. Perciò dovremmo sempre fargli una lieta accoglienza, e quindi godere, consapevolmente, di ogni ora sopportabile e libera da immediate contrarietà o sofferenze così com’è, senza, cioè, turbarla crucciandoci per le delusioni del passato o per le preoccupazioni sul futuro; perché è del tutto insensato voltare le spalle a una bella ora del presente, o rovinarla di proposito col rammarico per ciò che è stato o l’apprensione per ciò che deve venire».

La lettera 13 di Seneca ci invita a non lasciarci trasportare da ogni soffio di vento, a ritrovare il senso della misura nella valutazione dei fatti; questi consigli operativi, ispirati da un alto senso morale, possono risultare ancora utili oggi, quando negli studi di psicologi e psicoterapeuti moltissime persone esternano a fatica il loro disagio quotidiano e cercano di sottrarsi alla tirannide dell’ansia. In tal senso, può risultare consolante il fatto che, secondo alcuni psicologi, al giorno d’oggi l’ansia si basa su cinque categorie di preoccupazioni, quattro delle quali del tutto immaginarie; solo la quinta categoria comprende preoccupazioni che possono avere un motivo, ma queste ultime di fatto costituiscono solo l’8% delle preoccupazioni quotidiane totali; in effetti, dunque, l’arte di preoccuparsi oltre misura ha fin troppi masochistici seguaci…

Mario Pintacuda

Nato a Genova il 2 marzo 1954. Ha frequentato il Liceo classico “Andrea D’Oria” e si è laureato in Lettere classiche con 110/110 e lode all’Università di Genova. Ha insegnato nei Licei dal 1979 al 2019. Ha pubblicato numerosi testi scolastici, adottati in tutto il territorio nazionale; svolge attività critica e saggistica. E’ sposato con Silvana Ponte e ha un figlio, Andrea, nato a Palermo nel 2005.Visualizza tutti gli articoli di Mario Pintacuda.


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