Seneca e il ricordo dei defunti
di Mario Pintacuda
Nel giorno dedicato alla commemorazione dei defunti, ho riletto una lettera di Seneca all’amico e discepolo Lucilio, la n. 63 della raccolta.
Lucilio è addolorato per la morte di un amico e ha chiesto conforto al filosofo; ma la risposta che ne riceve è sconcertante: «La morte del tuo amico Flacco mi rattrista; tuttavia non vorrei che tu te ne affliggessi oltre misura» (par. 1; uso qui la traduzione di Giuseppe Monti).
Il dolore per la perdita di una persona cara, prosegue il Maestro, è comprensibile e scusabile; però occorre porre un freno alle lacrime, come si legge già in Omero: «bisogna, chi muore, dargli la sepoltura / con cuore fermo, dopo aver pianto un giorno» (par. 2; cfr. Il. XIX 228-229, trad. Calzecchi Onesti). Il fatto è, dice Seneca, che a volte «noi cerchiamo, con le lacrime, di dare una prova della nostra sofferenza; non piangiamo per il dolore, ma ne facciamo mostra. […] O miserabile stoltezza umana! Vi sono vane apparenze anche nel dolore» (ibid.).
Seneca si oppone alla “spettacolarizzazione” del dolore, ma prevede che Lucilio sarà perplesso e si chiederà se occorra quindi dimenticarsi dei morti. Il concetto viene allora chiarito maggiormente: «Tu gli prometti un ricordo molto breve, se deve durare finché dura il dolore. Qualunque motivo occasionale non tarderà a ridestare il riso sul tuo volto. Non occorre lungo tempo perché ogni pena si affievolisca e anche i dolori più strazianti si calmino» (par. 3).
In altre parole, quando perdiamo una persona cara noi soffriamo, piangiamo, ci disperiamo; ma siccome intanto la nostra vita va avanti, è realisticamente possibile che “qualunque motivo occasionale” possa venire a “dis-trarci”, cioè a “tirarci da un’altra parte”, facendo svanire, sia pure momentaneamente, anche i più grandi dolori. Siamo poveri esseri umani: basta pochissimo, anche nei momenti più cupi, a riportarci alla necessità di andare avanti.
Seneca è di un realismo quasi brutale e sgradevole: “Anche se ora tu ti tieni stretto il tuo dolore, esso ti sfuggirà, e cesserà tanto più presto quanto più è acuto” (ibid.).
Ma ammesso che questo ragionamento sia corretto, che si deve fare? Come si deve gestire il nostro dolore per le persone care defunte?
La risposta del filosofo è netta: “È ben vero che i cari perduti ci debbono tornare alla memoria con una stretta al cuore, ma in questo stesso sentimento c’è anche una certa dolcezza. Infatti, come soleva dire il nostro Attalo: “Il ricordo degli amici defunti è dolce come certi frutti gradevolmente aspri, come un vino troppo vecchio di cui ci piace anche quell’amaro che ha. Col passare del tempo le impressioni angosciose si attenuano e rimane in noi un senso di schietta gioia”» (par. 4).
La citazione del filosofo stoico Attalo, che era stato maestro di Seneca, esplicita ottimamente quel misto di gioia e dolore che caratterizza la memoria dei nostri “cari perduti”.
Seneca però era uno di quegli alunni che non si appiattisce sulle parole del suo maestro, ma ne trae alimento per raggiungere una sua posizione personale; infatti precisa: «Io non ho la stessa opinione; per me la memoria degli amici defunti è dolce e blanda: li avevo con me, come se un giorno avessi dovuto perderli; li ho persi, ed e come se li avessi ancora» (“habui enim illos tamquam amissurus, amisi tamquam habeam”, par. 7, con elegante chiasmo fra le forme verbali dei due verbi “amittere” e “habere”, “perdere” e “avere”).
La sorte, il destino, la “fortuna” (come la chiamavano i Latini, con una “vox media” che univa negatività e positività nello stesso vocabolo), quando perdiamo una persona cara, ci toglie qualche cosa di prezioso, ma ce la toglie solo dopo avercela data: «essa ha tolto, ma aveva dato» (“abstulit, sed dedit”, ibid.).
E poi, dice ancora Seneca (ed è una frustata, questa, per tutti noi che magari ci accorgiamo del valore di una persona solo quando l’abbiamo persa): «Pensiamo che spesso abbiamo lasciato gli amici per fare qualche lungo viaggio, o siamo stati a lungo senza vederli, pur vivendo nella stessa città: ci accorgeremo che, quando essi erano vivi, è stato molto di più il tempo in cui non abbiamo goduto della loro compagnia. Potresti tu tollerare costoro che sono così trascurati con gli amici in vita, per piangerli poi sconsolatamente quando sono morti? e non sanno amare qualcuno finché non l’hanno perduto?» (par. 8-9). Bisogna amare le persone care davvero, nei fatti, finché le abbiamo con noi; se no le nostre lacrime future per la loro perdita diventano lacrime di coccodrillo.
Dopo aver sviluppato queste affermazioni, Seneca si avvia alla conclusione del suo ragionamento e afferma: «per l’uomo di buon senso, il modo peggiore di guarire dal dolore è quello di guarire per stanchezza. Preferirei che tu lasciassi il dolore, piuttosto di essere lasciato da esso» (par. 12).
Quando il lutto diventa esteriorità e abitudine, allora è meglio porvi fine: «Nessuna cosa viene in uggia più presto del dolore: quando è recente trova chi vuoi consolarlo e attira la simpatia di qualcuno; ma quando è di vecchia data viene deriso, e non senza ragione: infatti, o esso è finto, o è sciocco» (par. 13).
La durezza delle considerazioni del filosofo può apparire eccessiva; ma, come sempre, egli afferma di essere arrivato a queste conclusioni per esperienza personale; così gli era avvenuto, ad esempio, quando aveva perso il suo carissimo amico Anneo Sereno: «Ti scrivo queste cose proprio io, che ho pianto il mio carissimo Anneo Sereno tanto fuor di misura che merito purtroppo di passare come esempio di chi si è lasciato sopraffare dal dolore. Oggi, tuttavia, condanno il mio comportamento e comprendo il motivo principale del mio smodato dolore: non avevo pensato che il mio amico potesse morire prima di me» (par. 14).
Seneca mette il coltello sulla piaga: i dolori più grandi sono quelli inattesi, sono quelli che turbano un presunto equilibrio delle cose. Anneo Sereno era più giovane di lui, ma è morto prima di lui; e solo ora il filosofo capisce il suo errore di prospettiva: «Avevo in mente un solo pensiero: che egli era più giovane, molto più giovane di me; come se il destino seguisse un ordine cronologico!» (“tamquam ordinem fata servarent”, ibid.). Ben diverso sarebbe dovuto essere il suo pensiero: «Il mio Sereno è più giovane di me; che significa? Dovrebbe morire dopo di me; ma può anche morire prima» (“post me mori debet, sed ante me potest”, par. 15).
I nostri poveri calcoli umani, le nostre aspettative razionali, i nostri progetti, tutto crolla davanti al dominio di un destino imprevedibile: «La fortuna mi ha colto impreparato. Ora comprendo bene che tutte le cose sono mortali e che la morte non ha una legge fissa: ciò che può capitare in un qualsiasi momento può capitare oggi» (“hodie fieri potest quidquid umquam potest”, ibid.).
La morte, che “non ha una legge fissa”, può coglierci in qualunque momento; ma, per non negare una “pietosa insania” e una tenace speranza, Seneca conclude: «Perciò, o carissimo Lucilio, presto noi giungeremo dove, con rimpianto, pensiamo che egli sia giunto. E forse, se son vere le affermazioni dei saggi e se ci accoglie dopo la morte un qualche luogo, l’amico che noi crediamo estinto ci ha solo preceduto. Addio» (“quem putamus perisse praemissus est”, par. 16).
La lettera 63 è dura, a tratti sgradevole, prende di petto il tema, anzi il tema dei temi: la morte. Ma riesce a disseminare insegnamenti importanti: il rifiuto dell’ostentazione del dolore, la concreta realtà della vita che va avanti anche dopo un grave lutto, il ricordo dei momenti vissuti con le persone care e la gioia di averli comunque avuti, l’importanza del tempo che lenisce il dolore e lo pone in una diversa prospettiva, l’accettazione di una legge di natura irreversibile, la capacità di apprendere dai propri errori e dalle proprie esperienze tristi, la speranza di poter raggiungere – un giorno, chissà dove, chissà quando – chi “è stato mandato avanti” (“praemissus”).
Sarà per questo che, chiudendo il libro dell’antico filosofo, hic et nunc, oggi, 2 novembre 2024, io ricordo chi non c’è più, prima di tutti mia madre e mio padre, poi tanti parenti e amici perduti, tante persone care e importanti che non ci sono più.
Ne ricordo il viso, le parole, i gesti, gli atteggiamenti, i tic.
Rievoco i momenti passati con loro, li sento presenti e vivi nella tenace memoria, che va a ripescare, chissà da quale abisso, qualche istante lontano.
E davvero penso, come dice Seneca, che «è ben vero che i cari perduti ci debbano tornare alla memoria con una stretta al cuore, ma in questo stesso sentimento c’è anche una certa dolcezza».
Mario Pintacuda
Nato a Genova il 2 marzo 1954. Ha frequentato il Liceo classico “Andrea D’Oria” e si è laureato in Lettere classiche con 110/110 e lode all’Università di Genova. Ha insegnato nei Licei dal 1979 al 2019. Ha pubblicato numerosi testi scolastici, adottati in tutto il territorio nazionale; svolge attività critica e saggistica. E’ sposato con Silvana Ponte e ha un figlio, Andrea, nato a Palermo nel 2005.Visualizza tutti gli articoli di Mario Pintacuda.