Sei un mito
Gianvito Pipitone
L’idea di questo articolo nasce dal mio amore “carsico” per il mondo greco antico e per il bellissimo repertorio della mitologia classica. Una passione rinfocolata dall’interesse mostrato recentemente dal mio Piccolo che, con mio magno gaudio, si è appassionato ai bellissimi fascicoli della collana “Mitologia per bambini”, edita da Hachette. Da quando cioè ha scoperto che la mitologia greca è piena di mostri e di mirabolanti avventure, non c’è serata che non finisca in compagnia di Perseo, di Ulisse o di Eracle e degli spaventosi mostri che questi eroi sono di volta in volta chiamati a sconfiggere. Ho così avuto modo di ripassare questo vasto corpus di storie, rinfrescando le mie ormai flebili reminiscenze liceali, troppo spesso “contaminate” dal ricordo di Pollon, quel magnifico cartone degli anni ‘80, in stile manga, campione del political incorrect, che da piccoli ci aveva portato a casa l’Olimpo con tutti i suoi bizzarri e viziosi dei. E fra i vari spunti che la mitologia classica ci può offrire oggi, è interessante notare come i miti antichi siano “per sempre” come un diamante prezioso, e che, rifattosi il trucco, ritornino sotto le forme più svariate, entrando prepotentemente nel nostro quotidiano. Più spesso di quanto possiamo immaginare.
Quando nell’ormai lontano 1993 gli 883 lanciarono il singolo tormentone (alquanto banalotto) “Sei un mito”, forse non immaginavano che quella canzonetta avrebbe contribuito a consolidare definitivamente un modo di dire che era già in voga fra i più giovani. Le espressioni “mito” e “mitico” fanno da tempo ormai parte non solo della parlata slang degli adolescenti ma anche del registro medio–colloquiale della lingua italiana. È così diventato comune apostrofare in maniera disinvolta con l’aggettivo “mitico” o con il sostantivo “mito”, un giocatore di calcio, un gruppo musicale, un attore, un divo televisivo, ma anche un concerto, un film o una serie Tv. E l’idea sottesa a queste espressioni iperboliche è quella di indicare eventi o personaggi eccezionali, o azioni destinate a rimanere indelebili nel tempo, da ricordare per sempre: mitiche, appunto.
Una cosa simile accadeva, in certo qual modo, ai narratori dell’antichità, che hanno dato vita all’immenso inventario della Mitologia Classica. Anche se il “mito” in Grecia aveva uno scopo più elevato. Serviva infatti a raccontare, attraverso le peripezie degli dèi e degli eroi, delle storie create per dare risposta alle domande più profonde dell’esistenza, ad esempio: l’origine dell’uomo, la natura del bene e del male, il dolore della morte e della perdita, le debolezze dell’uomo, le paure e le insidie della vita, il significato della bellezza, le ragioni della forza e delle guerre, e così via. Non solo. I miti tornavano utili anche per stabilire le regole e i valori della società di allora, mescolando personaggi storici, oggetti, luoghi e situazioni realmente accadute con significati simbolici o frutto della fantasia degli antichi autori. Non a caso, il termine “mito” deriva dalla lingua greca e sta a significare “racconto“.
Il modello mitologico è rintracciabile nella storia di tutti i popoli e si è mantenuto vivo fino ai giorni nostri, mutando pelle e definitivamente globalizzandosi. Una volta il mito veniva raccontato oralmente, e il racconto passava di generazione in generazione; adesso si diffonde attraverso i media e i social media imponendosi in poco tempo in ogni angolo del pianeta. È così che la “società liquida” oggi elabora e trasforma alcuni personaggi in divi riattualizzando modi e metodi del lontano passato con altri mezzi. Con i risultati che vedremo fra un pò.
Alla base del mito c’è quasi sempre il desiderio dell’uomo di identificarsi con l “eroe“. E l’idea del “divismo” è quella di creare personaggi in cui si riconoscano tutti. Niente di nuovo, è sempre accaduto così nella società consumistica. Gli eroi moderni devono apparire “fuori dal comune” perché forti, belli, irraggiungibili, capaci di imprese straordinarie, e a volte anche tormentati e infelici, proprio come gli déi e i personaggi della mitologia. I goal di Cristiano Ronaldo, il fisico e l’espressività di Cate Blanchett, la nuova canzone di Rihanna, o il personaggio tormentato e tenebroso di Johnny Depp, cosa sono se non lo specchio della forza, della bellezza, dell’abilità in cui gli “spettatori” desiderano immedesimarsi. Alcuni di questi personaggi famosi poi, segnati da morte prematura, sono a maggior ragione diventati “mitici”, perché posti al di fuori del tempo: Che Guevara, Jim Morrison, Marylin Monroe, J. F. Kennedy, John Lennon, Kurt Kobain, solo per fare alcuni esempi dal dopoguerra ad oggi. Altri miti sono sopravvissuti con dignità alla popolarità, qualcuno invece non ce l’ha fatta, crollando sotto i riflettori della ribalta e altri ancora sono transitati sul palco con la stessa velocità di una meteora.
Senonché, ormai da alcuni decenni, il marketing pubblicitario ha preso il sopravvento, aprendo i cancelli ai miti “usa e getta”. Non ci si stupisce più che, trattati come un qualsiasi prodotto, questi “falsi miti” nati da precise strategie industriali, abbiano vita piuttosto breve, incalzati da vicino dalle nuove esigenze di mercato. Cito alcuni esempi del passato per rendere l’idea: i Take That o le le Spice Girls, icone pop per un breve lasso di tempo negli anni ’90; oppure per venire agli esempi di casa nostra, i Jalisse, i Righeira, Scialpi; e diversi volti del mondo dello spettacolo, un tempo notissimi, che improvvisamente sembrano essere scomparsi nel nulla: i presentatori Corrado Tedeschi, Maurizio Seymandi, o le soubrette Eleonora Brigliadori e Gabriella Golia. Oppure alcuni calciatori beniamini delle curve, caduti in disgrazia per proprie debolezze, come Paul Gascoigne, indimenticabile nr. 10 della Lazio, o Andreas Brehme, il pluri-scudettato difensore di una fortissima Inter, negli anni ’90. Oppure ancora, allargando la ricerca ad altre discipline, alcuni “falsi eroi” scomparsi dalla scena pubblica a causa di gravi motivi con la giustizia: Oscar Pistorius, che con le sue protesi alle gambe aveva fatto sognare gli appassionati di atletica di tutto il mondo, O.J. Sympson uno dei più grandi giocatori nella storia del football americano, oppure ancora Mike Tyson, il pugile che non ha certo bisogno di presentazioni. Tutti inghiottiti, si potrebbe dire, da Lete, il fiume dell’oblio.
Fra i miti più forti, al primo posto si annovera quello della “bellezza”, impersonata nel mondo classico dalla dea Afrodite. Anzi, la “grande bellezza”, si potrebbe dire, di cui l’Italia è leader incontrastata. Le cifre non lasciano spazio a dubbi: secondo i dati riportati di recente da Il sole 24 ore, il 60% dei prodotti per il make–up del mondo è infatti “made in Italy”. E l’Italia è anche il quarto Paese in Europa per consumo di cosmetici. Non solo: il fatturato del comparto è in salita da oltre dieci anni, un record rispetto alle altre manifatture, e nel 2019, anno prima della pandemia, ha superato i 12.000 miliardi di euro di valore della produzione, con esportazioni in aumento del 4,9%.
A questi numeri si aggiunge il boom del fitness. Prima della crisi pandemica le palestre registravano un incremento vertiginoso di iscritti e, in nome dei muscoli del dio Eracle/Ercole, offrivano i corsi più disparati (spinning, step, crossfit, zumba, esercizi isometrici e via discorrendo). Non mancano, ovviamente, i consigli per un’alimentazione sana e controllata, preferenzialmente biologica e l’indicazione di centri benessere, spa e beauty farm per i ritocchi estetici dei più “precisini”.
Alla base un solo comandamento: essere belli come Afrodite/Venere o come il dio Apollo. Del resto, l’imperativo prioritario dei nostri tempi, quello veicolato dai vari media, è quello di piacere agli altri (forse più che a se stessi). Ad ogni costo. E le star televisive più esposte nel circo mediatico sembrano avere chiare le linee guida: sono curatissime, fighissime e sanissime. La loro vita appare scevra dalle complicazioni dei comuni mortali e sembrano godere di privilegi come solo gli dei dell’Olimpo godevano un tempo. Poco importa se umanamente e artisticamente valgano poco o nulla. Dettagli.
Di fronte a cotal bellezza ecco dunque che scatta il desiderio di emulazione. Ma la ricerca spasmodica della forma perfetta rischia di sfociare spesso nello psico-dramma: anoressia, bulimia, binge eating, sono solo alcuni di una serie di disturbi legati ad un anomalo rapporto con il cibo e con la propria forma fisica. Secondo il recente rapporto della Società Italiana per lo Studio dei Disturbi del Comportamento Alimentare (SISDCA), questi disturbi in Italia colpiscono ogni anno 8.500 persone e la fascia compresa tra i 15 e i 19 anni è tradizionalmente quella più a rischio.
Nella sfrenata corsa alla “bellezza”, forse si dovrebbe prendere a monito l’episodio del Pomo della Discordia, ossia il primo dei casi documentati di un “concorso di bellezza”. Un giorno, la dea Discordia, invidiosa della bellezza altrui, getta di nascosto sul tavolo degli dei una mela d’oro con su scritto “alla più bella”, scatenando una guerra non troppo sotterranea fra le tre veraci dee: Afrodite, Atena ed Era. Solo l’intervento di Zeus mette fine alla violenta disputa. E la scelta di Paride di incoronare Afrodite “Miss Universo” fa rinsavire le sue rivali che, in un momento di follia, si erano lasciate deviare dalle loro naturali virtù: Atena, dea della Sapienza e delle Arti ed Era, dea del matrimonio, della fedeltà coniugale e del parto.
Il mito che viene appena dopo la bellezza, manco a dirlo, è quello della ricchezza. Si fa presto infatti a dire “i soldi non fanno la felicità” ma probabilmente solo in pochi ci credono veramente. È sempre stato così, fin dagli antichi Greci che agognavano di trovare la ricchezza nel Giardino delle Esperidi, dove crescevano le famose mele d’oro. Oggi questi luoghi ideali, dove raccogliere i frutti, si sono trasformati in sale da bingo o in qualsiasi tabaccheria, dove le lotterie sono pronte ad esplodere a cadenza oraria come bombe ad orologeria. Ad oggi poi, si contano più di una cinquantina di tipi di Gratta e Vinci, regolamentate dall’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli. Mentre negli ultimi anni si sono aggiunti innumerevoli casinò on line frequentati da milioni di persone. Secondo i dati di un recente studio dell’Istituto superiore di Sanità, tra il 2014 e il 2019, il fatturato del gioco d’azzardo legale in Italia è passato da 84,5 a 110,5 miliardi di euro. In termini percentuali parliamo di quasi il 3% del PIL, con una crescita del 30% in cinque anni che fotografa la realtà del pre-pandemia. Impressionante.
Alla base del “giocatore seriale” c’è una sola idea, alimentata dal mito della ricchezza facile: qual fatidico “colpo di fortuna” che può cambiare la vita di chiunque. In qualsiasi momento. Colpo che riuscì molto bene al mitologico re Mida, il quale, a credito di un favore del dio Dioniso, gli chiese di essere ripagato con il dono di trasformare in oro tutto ciò che toccava.
Se non fosse però, e qui casca l’asino, che la dipendenza da gioco d’azzardo, rappresenta una vera e propria patologia. Le conseguenze più dirette si rilevano nel deteriorarsi delle attività personali, familiari e lavorative, con conseguenze spesso catastrofiche per alcuni: perdita di reddito, peggioramento della qualità della vita sociale, lavorativa e familiare. Secondo i calcoli dell’IPSAD, questa malattia affligge circa un milione di italiani, mentre altri due milioni sono classificati “soggetti ad alto rischio”. Anche in questo caso il mito di re Mida ci insegna che la felicità dura poco: soltanto il tempo che arrivi per lui l’ora di pranzo. Infatti, quando sperimenta che anche il cibo si trasforma in oro al suo tocco, il re intuisce che la sua nuova capacità lo condannerà a morire di fame e di sete. Per questo corre da Dioniso implorandolo perché lo liberi da quel malefico potere.
L’espressione “fare il volo di Icaro” è molto diffusa e si riferisce ad uno degli episodi forse più conosciuti della mitologia greca. Il padre Dedalo, grande architetto ed inventore, nel costruire per sé e per il figlio un paio d’ali che avrebbero permesso loro di fuggire dal terribile labirinto del Minotauro in cui erano stati imprigionati, aveva però avvertito Icaro di non cedere alla tentazione di volare troppo in alto, ossia troppo vicino al sole. Questo avrebbe infatti comportato lo scioglimento delle ali (fatte di piume di uccelli attaccate al corpo tramite cera) causandone la sua caduta. Ma, nonostante gli ammonimenti del padre, Icaro, trasportato dall’eccitazione del momento, e dal desiderio di “strafare” volò molto più in alto del dovuto. Così le sue ali si sciolsero e precipitò tragicamente nel mare, che da allora venne chiamato il mare di Icaro. Per questo motivo, l’espressione “fare il volo di Icaro” indica il sopravvalutare sconsideratamente le proprie capacità, non riconoscere i propri limiti e, quindi, compiere uno sforzo superiore alle proprie forze, andando incontro a conseguenze negative o, nel peggiore dei casi, ad eventi rovinosi e irreparabili.
Il primo dei divi del dopoguerra che mi viene in mente parlando di Icaro è certamente James Dean, uno dei primi attori hollywoodiani “maledetti” che divenne nell’arco della sua breve vita l’icona di tutta una generazione, riuscendo ad incarnare l’angoscia che in quei tempi spingeva i giovani a rompere i legami con i valori del passato. I valori dei loro genitori. Ed è forse proprio l’autenticità dell’angoscia di James ad aver reso tanto “mitico” il film di Nicolas Ray, Gioventù bruciata. La scena tragica della cosiddetta “chicken run” che consisteva nel lanciarsi a forte velocità a bordo di una macchina e gettarsi fuori prima che questa precipiti nello strapiombo sul mare, ci parla probabilemente di Icaro e dei suoi fantasmi.
Pochi anni prima, nel 1950, Cesare Pavese, considerato uno dei maggiori intellettuali italiani del XX secolo, antifascista e autore di libri importanti come Paesi tuoi e La luna e i falò, metteva fine alla sua vita, lasciando testuali parole sul verso di una copia di un suo libro: “Perdono tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi“. Fu solo il primo di una lunga serie di dei che avevano ingaggiato una lunga e mortale lotta contro i propri demoni, finendo per rimanerne travolti. Stessa sorte toccò a diversi musicisti rock, stelle di prima grandezza che avevano forse provato a volare così in alto da rimanere travolti dai raggi della loro incredibile popolarità: da Jim Morrison il poeta dei Doors a Kurt Cobain anti-leader dei Nirvana , da Lane Stanley, sensibilissima voce degli Alice in Chains a Amy Winehouse, fino al recente suicidio di Chris Cornell indimenticata voce dei Soundgarden. Scavare e attingere così profondamente dentro di sé, aprire la proprie profondità e guardarci dentro senza una guida e una protezione ha condotto molti di loro verso una morte precoce, più o meno consapevolmente, per mano propria.
Il campionario dei miti greci e delle corrispondenze o degli spunti con il mondo di oggi è sterminato e si potrebbe esaurire forse solo in trattati con decine o centinaia di volumi. Immagino, ad esempio, che non si farebbe troppa fatica a trovare profonde corrispondenze fra le creature mitologiche di un tempo con il corpo politico dei giorni nostri. Il campionario di mostri e creature orripilanti che la Mitologia greca ci riserva farebbe impallidire persino il vasto repertorio dei mostri Miti di Cthulhu di H.P. Lovecraft. E senza dubbio, figure mostruose come Cerbero, la Medusa, le Arpie, l’Idra di Lerna, Scilla e Cariddi, i Ciclopi, i Titani o gli Ecatonchiri troverebbero facile collocazione metaforica se accostati ad alcuni dei personaggi politici che hanno governato l’Italia dal dopoguerra ad oggi. Ma tutto sommato resta sempre una speranza. Fin a quando ci sarà un bimbo che travestito da eroe li vorrà sconfiggere, allora possiamo avere fiducia nelle magnifiche sorti e progressive.
Per concludere mi va di citare il “mitico” film Mediterraneo, di Gabriele Salvatores, del 1991. Il film offre uno spaccato dei pregi e dei difetti dell’italiano medio, raccontando di un plotone di soldati che nel 1941 sbarca in una delle isole della Grecia con il compito di stabilirvi un presidio strategico, all’indomani dell’occupazione nazista. Vi resterà in realtà per 3 anni (“inchia tre anni! non ci pozz penzari, tre anni!” cit), sfruttando l’isolamento geografico, e l’impossibilità di comunicare con il comando, e finendo per dedicarsi ad attività del tutto estranee alla guerra. All’ inizio del film il capitano del plotone, per tenere alto il morale dei suoi, distraendoli dall’inazione, li invita a cercare dentro loro stessi, raccontando loro che: “chiunque di noi voglia risalire alle proprie origini è qui in Grecia che le può trovare“. Parole sante.
E questo vale ancora di più per noi siciliani che per secoli (500 o 600 anni) abbiamo condiviso con Atene la stessa lingua la stessa cultura oltre che agli stessi dei e gli stessi miti. Miti che troppo spesso dimentichiamo di coccolarci come patrimonio della nostra sterminata cultura. Miti da cui imparare tanto perché in fondo ci parlano di noi stessi, di come eravamo e di come siamo diventati, di come invecchiamo e di come a volte ci siamo imbruttiti. Miti di un tempo trapassato che ci parlano sempre del presente.
Gianvito Pipitone