“ San Francesco e il Sultano”, un racconto di Vincenzo Fiaschitello
Il destino del piccolo convento francescano di R. era ormai segnato. Da qualche anno il priore, nonostante le sue lamentele presso il Ministro Generale dell’Ordine, non era riuscito a incrementare lo sparuto gruppo di frati, rimasti appena in tre dopo la morte di due anziani e ottimi confratelli. Crisi economica e crisi di vocazioni avevano determinato una situazione insostenibile.
Quella mattina il viavai degli autocarri che trasportavano attrezzature e arredamenti del convento si era fatto più intenso. I motori lanciavano nell’aria folate di fumo puzzolente e irrespirabile ed era un sollievo quando finalmente carichi si allontanavano dal piccolo cortile interno, dove un tempo sostavano soltanto carri e carrozze, tirati da cavalli, che poi riposavano nelle vicine stalle.
Al frate Silvestro era stato assegnato il delicato compito di chiudere in grosse scatole di cartone i libri della biblioteca e tutte le carte che si trovavano in grandi scaffali, alcuni dei quali protetti da robuste serrature, perché custodivano incunaboli e vari manoscritti antichi.
Nell’intervallo, tra un carico e l’altro, aspettando i camion, il frate, che portava avanti con scrupolo il suo lavoro, sbirciava tra le vecchie carte. Fu in una di quelle pause che frate Silvestro si trovò tra le mani una decina di fogli che un confratello aveva indirizzato al suo superiore una cinquantina di anni prima. La data, infatti, era leggibile solo a metà. Si intuivano le prime due cifre 19.., le ultime due erano completamente sbiadite.
-Io, frate Egidio, voglio umilmente portare all’attenzione di Vostra Eccellenza, questa storia che mi è stata oralmente narrata sul letto di morte da un confratello. Egli l’aveva ascoltata da un altro confratello, prima di morire. Presumo, dunque, che si tratti di una storia, passata di bocca in bocca, destinata ad accrescere la gloria del nostro santo Francesco. Ma poiché nulla dice fra Tommaso da Celano nella biografia del santo, né San Bonaventura nella sua Legenda Maior, ciascuno aveva timore a diffonderla per non incorrere in eventuali colpe o persecuzioni, nel caso che gli episodi narrati non sarebbero stati ritenuti in linea con quanto accolto dalla tradizione ufficiale dell’Ordine.
“Una donna chiamava il suo figliolo:
-Aqmar, Aqmar! Vieni qui, tuo padre vuole parlarti.
Un ragazzo di circa dodici anni con una carnagione chiara e con capelli scuri e lisci, interruppe la sua corsa con il piccolo amico e rientrò a casa.
-Padre, mi hai fatto chiamare? disse Aqmar con voce ancora concitata. Stavo quasi per battere in velocità il mio amico! Ma, non fa nulla: la prossima volta sono sicuro di potercela fare.
-Vieni, siediti accanto a me. Ho da rivelarti un grande segreto, è arrivato il momento giusto. Tu sai che io sono molto malato e che non avrò ancora molto da vivere. E tu che ormai sei quasi un uomo puoi apprendere la verità. Tua madre ed io ti abbiamo curato e cresciuto con tanto amore. Ma tu non sei nostro figlio!
-Padre, ma cosa dici? Forse è la malattia che ti sconvolge la mente! Certo la tua memoria vacilla.
-No, Aqmar. Te lo ripeto. Tu non sei nato dal ventre di tua madre. Purtroppo tua madre desiderava tanto un figlio, ma Allah non ha voluto. Così io giurai che avrei fatto tutto il possibile perché potessimo, come gli altri, essere una famiglia, avere almeno un figlio. Quando ti catturai, cominciavi appena a camminare. Potevi avere un anno di età. Eri quasi biondo, candido, e pensai subito che ti saresti potuto chiamare Aqmar, che, come sai, significa “candido, più brillante della luna”. E così sei rimasto nel cuore e nell’aspetto, tranne i capelli che il nostro sole d’Egitto ti ha scurito. Ti abbiamo amato e tu hai ricambiato il nostro amore.
-Padre, ma che vuol dire che mi hai catturato. Ero forse da piccolo un animale del deserto?
-Ma no, figliolo! Eri un bimbo, bello e vivace come tanti altri, nato da una donna che non era però della nostra terra. Allora ero ancora giovane e mi fu facile imbarcarmi con altri giovani per correre su veloci galee e approdare in terre d’Europa, predare ricchezze, schiavi e lodare Allah per la riuscita delle nostre imprese. Fu durante una di queste imprese che sulle coste di un’isola chiamata Sicilia, dove per lungo tempo aveva sventolato il verde vessillo del Profeta, mi trovai con un folto gruppo di compagni a uccidere tutti gli infedeli che incontravamo per le vie, giovani e vecchi pescatori, a entrare nelle loro case e a prendere tutto ciò che poteva servirci.
Facemmo schiave le loro donne con i loro bambini. Uno di questi era stato dimenticato in un angolo di una casupola. Dormiva e nessuno l’aveva visto. Io lo presi in braccio, dopo aver riposto la mia scimitarra, e subito si svegliò.
Gli altri ebbero le donne che vendettero al mercato al nostro ritorno, io tenni il bambino e con gioia lo portai a casa da mia moglie. Quel bambino eri proprio tu. Da quel giorno sei stato sempre con noi. Che Allah ti protegga sempre!-
Il padre di Aqmar era morto da qualche mese, quando si diffuse la notizia che i crociati ancora una volta erano giunti numerosi a devastare le loro terre e ad assediare Damietta. I guerrieri del Sultano si battevano come leoni nel nome di Allah.
Quattro crociati, che non portavano armi, a piedi nudi e vestiti con un saio di stoffa grezza, si erano spinti dopo aver superato ogni sorta di ostacoli dentro la città assediata.
La folla, dapprima incuriosita, li guardava procedere mentre pregavano ad alta voce. Nessuno capiva la loro lingua, finché qualcuno della folla gridò che erano guerrieri travestiti venuti a uccidere il Sultano. In un attimo li circondarono e riversarono tutto il loro odio verso quei frati che, benché avessero mandato in precedenza notizie del loro arrivo, furono picchiati ferocemente.
-Aiutaci, Francesco, gridavano con il volto e il corpo insanguinati, costoro ci uccidono!
A sua volta, frate Francesco, che come gli altri veniva colpito, aveva la forza di rincuorarli dicendo: “Abbiate fiducia, il Signore ci libererà presto da questo tormento!” E alla folla gridava: “Devo parlare col Sultano…devo parlare col Sultano!”
Intanto il Sultano era stato informato sulla sorte che stavano subendo quei quattro infedeli temerari e, infine, ritenuta sufficiente la punizione, ordinò di portarli al suo cospetto.
Impolverati e insanguinati, con i sai ridotti a stracci, con i volti tumefatti e con ferite in ogni parte del corpo, furono spinti a terra dalle guardie dinanzi al seggio del Sultano. Una gran folla si era radunata ad assistere a quello strano incontro.
Con un cenno il Sultano mise fine a quella sorta di proscinesi che i musulmani avevano ereditato dagli imperatori bizantini.
A nome degli altri fratelli, così parlò Francesco, asciugandosi con un lembo del saio il sangue che colava dal naso e dalla bocca: “Oh, Sultano, queste ferite che la tua gente ha inflitto a me e ai miei compagni, noi le accettiamo nel nome e nel ricordo di ciò che ebbe a soffrire nostro Signore nel cammino doloroso del calvario, fino alla crocifissione e alla morte. Come Lui ci ha insegnato a perdonare, così anche noi, nel suo nome benedetto, perdoniamo di cuore coloro che ci hanno fatto soffrire. Noi siamo venuti in pace per far conoscere a voi la parola del Vangelo e per pregare liberamente nei luoghi in cui Gesù nacque, visse e soffrì”.
-Mi piaci come parli, frate! Mi sembri un uomo giusto e pacifico. Ti ascolterò domani nella mia residenza, alla presenza dei miei saggi sacerdoti-
E diede ordine di ospitare quei frati, di dar loro vesti pulite e tutto ciò di cui avevano bisogno.
Francesco lo ringraziò, accettò l’ospitalità, ma rifiutò le vesti che i servi avevano portato, lui che già una volta si era spogliato di vesti eleganti, restituendole al padre Pietro di Bernardone!
In tutto questo tempo, Aqmar non si era persa una scena di quanto era accaduto, né una parola di frate Francesco. Una simpatia inspiegabile lo portava misteriosamente a parteggiare per Francesco, a differenza di tutti coloro che lo attorniavano e che esprimevano opinioni astiose contro quei cristiani.
Aqmar ripensò alle sofferenze patite da quei frati e la notte seguente fece strani sogni.
Sognò un angelo che gli diceva di aver fiducia in frate Francesco. Questi lo confortava e lo incoraggiava a sopportare le sue sofferenze e privazioni perché presto sarebbero finite. Nessuno a Damietta avrebbe più sofferto la fame a causa del lungo assedio dei cristiani, i quali sarebbero tornati nelle loro terre e lui, rimasto solo dopo la morte anche della madre, avrebbe seguito in Europa il frate.
Si svegliò la mattina al sorgere del sole e decise che avrebbe tentato ogni sforzo per avvicinarsi a frate Francesco e parlargli, magari impadronendosi di un pezzetto della sua logora tunica.
Accadde che quella stessa notte Francesco, mentre era in preghiera, ebbe una visione: un angelo lo esortava a condurre con sé in Europa un ragazzo chiamato Aqmar.
Al mattino seguente Francesco, lasciati gli altri confratelli, si recò dal Sultano per il colloquio promesso. Un dubbio lacerava il suo cuore. Forse tutti i suoi tentativi di partire per la terra santa col proposito di fare proselitismo, di convertire i fratelli dell’Islam alla vera religione di Cristo, regolarmente falliti, erano stati un segno divino. La partenza con una nave veneziana da Ancona e lo sbarco a Damietta, già assediata dai crociati, poteva costituire finalmente quel vento favorevole tanto atteso per la realizzazione del suo progetto. Ma la stessa energica opposizione del legato pontificio Pelagio d’Albano dimostrava che in realtà non sembrava ancora chiara la manifestazione del volere divino all’impresa disperata.
Vinto l’ultimo ostacolo, aveva potuto avventurarsi in territorio musulmano senza alcuna protezione.
Assistito da un folto gruppo di sacerdoti, il Sultano, seduto in trono come un imperatore, rivolge la parola a Francesco:
-Certo tu sei un uomo coraggioso che ha osato sfidare l’ostilità della mia gente, ma non posso fare a meno di estendere anche a te tutta la nostra disapprovazione. Voi cristiani siete venuti a invadere le nostre terre, ora da lunghi mesi le vostre navi bloccano il porto e non ci consentono di procurarci le necessarie vettovaglie. La mia gente muore per la fame e per le malattie. Come potete affermare che venite in pace? Come potete divulgare con la forza della spada il vostro Vangelo?
A Francesco non sembravano false o ingiuste quelle accuse. Pensava con amarezza come, in tempi lontani per diffondere il Vangelo, i missionari al seguito di Carlo Magno non avessero avuto scrupoli a servirsi della spada contro i Sassoni che non volevano piegarsi alla nuova religione.
-Quel che tu dici, è vero. Per ottenere un fine per noi cristiani prezioso e irrinunciabile, qual è la possibilità di avere Gerusalemme e di percorrere i luoghi sacri della nascita e della morte di Gesù, ci serviamo di strumenti di morte. Sono qui per annunciare a te e al tuo popolo le parole di amore, di carità e di perdono che sono fondamentali nel Vangelo. Nel vostro libro sacro, il Corano, si esorta a diffidare degli infedeli e a ucciderli. Noi leggiamo invece che dobbiamo amare i nostri nemici, che dobbiamo fare del bene e pregare per quelli che ci perseguitano. Io sono pronto alla prova del fuoco, perché Dio riveli qual è la vera religione.-
Approntato un grande fuoco di legna dinanzi al seggio del Sultano, Francesco si preparava ad entrarvi, dopo aver invitato uno dei sacerdoti musulmani che assistevano. Ma quello si ritrasse terrorizzato e così tutti gli altri. A quel punto, il Sultano fermò Francesco e gli proibì di attraversare il fuoco. Poi, impressionato dal coraggio e dalla fede di Francesco, disse:
-Noi non rinunceremo all’Islam, ma un accordo in queste circostanze si può trovare. Riferisci al capo delle milizie cristiane che il Sultano Malik al-Kamil, nipote di Saladino, vi concederà Gerusalemme in cambio della liberazione di Damietta e del territorio egiziano musulmano. Allah mi è testimone della mia buona fede. E come segno tangibile dispongo la liberazione di un nobile principe cristiano, mio prigioniero.
A sentire queste parole, Francesco si rinfrancò. Ma udito che proprio quel giorno era fissata l’esecuzione di una condanna a morte di un tale che aveva rubato, la cui moglie presente tra la gente piangeva e gridava di avere pietà del suo uomo, Francesco chiese al Sultano se poteva scegliere la liberazione di uno dei due. E avutone l’assenso, disse al Sultano di liberare quel povero ladro. Francesco aveva scelto la libertà di un umile musulmano al posto di un principe cristiano. Un mormorio di meraviglia si sollevò in tutta la sala.
Francesco uscì dal palazzo. Ora la folla, quella stessa folla che il giorno prima lo aveva selvaggiamente picchiato, lo circondava con curiosità e ammirazione. Tutti erano colpiti dal suo sguardo sereno, lo toccavano, lo stringevano da ogni lato. E in quella confusione, Francesco sentì uno strappo alla sua veste. Credeva che il saio si fosse impigliato in qualche cespuglio. Ma non era così. Un ragazzo gli si era avvicinato e, piegandosi sulle ginocchia, in un attimo aveva strappato un pezzetto di stoffa. La stringeva ancora fra le dita, quando i suoi occhi si incontrarono con quelli di Francesco. E questi prontamente gli disse: “Aqmar, seguimi!”
Quelli che avevano visto quel che era accaduto si meravigliavano e dicevano: “Come fa quest’uomo a conoscere il nome del ragazzo?”
Francesco, giunto nel luogo dove aveva lasciato i confratelli, ripartì in direzione del porto di Damietta, seguito da Aqmar e dai compagni.
Là giunti, Francesco riferì a Pelagio d’Albano del colloquio con il Sultano e della sua proposta di cedere Gerusalemme.
Poi si imbarcò con gli undici frati che lo avevano accompagnato in quella impresa e presentò loro il ragazzo. Raccontò come un angelo gli avesse ordinato di portarlo con sé nel viaggio di ritorno. Francesco affidò Aqmar a un confratello perché gli insegnasse la nostra lingua e lo istruisse nella nostra religione.
Venne il giorno stabilito per il battesimo. Aqmar e un gran numero di bambini dovevano ricevere il battesimo in una chiesa di Assisi. Quando giunse il turno di Aqmar, il vescovo non riuscì a versare l’acqua sul capo del ragazzo. La ciotola, appena riempita, si svuotava misteriosamente. E il vescovo per ben due volte fu costretto a interrompere la formula del rito. Allora si fece avanti Francesco e conoscendo la storia del rapimento di Aqmar e intuendo che egli alla nascita era già stato battezzato, spiegò al vescovo e al popolo radunato che il ragazzo faceva quindi già parte della comunità cristiana. Tutti applaudirono.
Aqmar faceva grandi progressi nello studio, seguiva spesso Francesco e gli altri frati quando andavano per la questua. La richiesta di elemosina, la sopportazione delle sofferenze, la predicazione di Francesco, la dolcezza del suo sguardo, le parole rivolte alle persone che incontrava, le lodi al Signore per la bellezza della natura, per il sole, le acque, gli uccelli, i fiori, erano tutti esempi di vita santa di cui Aqmar faceva continuamente esperienza.
Un giorno si ammalò. Una malattia sconosciuta lo aveva colpito: soffriva, ma non smetteva mai di lodare il Signore, come gli aveva insegnato frate Francesco. Morì al tramonto di un giorno di primavera, fra le braccia di Francesco. A lui aveva affidato un biglietto che aveva scritto con fatica quella mattina: “Dove è poco, aggiungi; dove è molto, togli!”
Francesco lo lesse e lo rilesse e lo conservò con cura.
Gli tornavano spesso alla mente quelle parole scritte da Aqmar, che aveva vissuto la spiritualità di due religioni che si combattevano. Che cosa aveva voluto dire? Francesco vi meditò a lungo, poi giunse alla conclusione che il Signore non poteva volere l’annientamento dell’Islam: il proselitismo non può voler dire necessariamente imporre la conversione, ma ricerca di un incontro, di una mediazione.
Laddove c’è poco senso della comunità, togliamo l’individualismo e sentiamoci tutt’uno con la Umma o con l’Ecclesia. Laddove c’è odio e vendetta, aggiungiamo amore e perdono.
Un angelo così parlò in sogno a Francesco:
“Verrà il tempo del dialogo e dell’ecumenismo. I tuoi confratelli avranno la gioia di lavorare nel tuo nome per questi scopi. Le religioni sono come le piante: di tanto in tanto occorre sfrondarle, tagliare i rami secchi, inutili e attendere che dalle gemme dei nuovi rami spuntino i fiori.”