Romei d’occidente: Una storiografia da riscrivere.
di Francesco Manni
Contesto storico bizantino antico e tardo in Terra d’Otranto (dal VI-XVIII secolo).
Nella mia recente pubblicazione “Il Cielo Interiore di Matteo Tafuri” (scritta a quattro mani con l’amico Tommaso Margari), nonché nel presente lavoro editoriale, ho concentrato la mia attenzione principalmente su quella che ritengo essere una datata e, sotto molti punti di vista, errata storiografia bizantina (VI-XI sec.) e tardo bizantina in Occidente (per tardo bizantina intendo il periodo che si protrae dalla conquista del Salento da parte dei Normanni nell’XI sec. sino alla scomparsa del rito bizantino in Terra d’Otranto avvenuta nella seconda metà del XVIII sec.) e in particolar modo nel Salento.
Di fatto, parlare di storia bizantina in Terra d’Otranto (data l’importanza che ha rivestito) significa discutere dei fondamenti culturali, etnici e monumentali del nostro territorio e, di conseguenza, continuare ostinatamente a perpetrare errori rilevanti in questo ambito significa minare l’intera storiografia locale.
Entrambi i lavori partono dal presupposto che molti assunti storici sull’argomento non siano nient’altro che teorie ormai datate che hanno pian, piano assorto a valenza dogmatica senza però avere le necessarie basi storiche che potessero giustificare una tale certezza.
Io di seguito elencherò tutta una serie di fatti e avvenimenti storici che ho ampiamente dimostrato (da più di vent’anni a questa parte e confrontandomi con centinaia di altri esperti della materia) essere dubbi se non addirittura palesemente falsi e nel presente volume approfondirò tutta una serie di elementi che vadano a sostegno di tale tesi.
Per una questione di comodità partirò dal periodo più antico per giungere via, via ai tempi più recenti.
Quanto sopra esposto può essere tranquillamente considerato il dogma assoluto della storiografia bizantina. Peccato che sia palesemente falso.
Di fatti, non si comprendono assolutamente le motivazioni che avrebbero spinto i monaci a fuggire dalle loro terre d’origine per giungere nel Sud Italia dove avrebbero trovato una situazione politica, amministrativa e in varie zone addirittura etnica pressoché identica a quella appena lasciata.
Basti considerare, ad esempio, che il Salento (nonché numerose altre regioni del meridione d’Italia) era già da tempo (fine della guerra greco-gotica del 553) parte integrante dell’Impero bizantino con stesse regole, leggi, apparato burocratico e militare ecc.
Rammento, fra l’altro, che agli inizi dell’VIII sec. Otranto è ancora la sede dello Stratego ( e lo sarà sino all’876 quando per una migliore difesa del territorio contro le sempre più presenti comunità longobarde, sarà spostato a Bari) nonché dell’arcivescovato bizantino, la popolazione è pressoché completamente grecizzata da almeno due secoli e l’apparato militare bizantino controlla con fermezza il territorio.
Quindi, quale vantaggio avrebbero avuto i monaci ad emigrare nel Sud Italia trovando la stessa situazione? Assolutamente nessuno.
A rafforzare tali tesi, vi sono molte altre prove. Infatti, fu lo stesso Leone III Isaurico che al fine di punire il Papa (ricordo che Roma era a lui direttamente assoggettata e lo sarà sino al 751 anno in cui Ravenna capitale romea in Occidente e sede dell’esarcato e di conseguenza Roma sarà conquistata dai Longobardi) e i cattolici che non avevano accettato l’iconoclastia, spostò la tassazione delle chiese greche del Sud Italia che sino ad allora avevano regolarmente versato a Roma, direttamente verso le casse di Costantinopoli.
Da ciò è facilmente comprensibile come politicamente e da un punto di vista prettamente religioso, le chiese del Sud Italia (come ovvio che fosse) dovessero dare conto direttamente all’imperatore d’Oriente.
Altra testimonianza importante è riscontrabile da un ulteriore elemento fondamentale: nel Salento non vi è presenza di affreschi bizantini precedenti al IX sec. (forse i più antichi sono quelli dipinti al di sotto dello starato superficiale visibili attualmente nella fase più antica -del pittore Teofilatto- della chiesa rupestre di S. Cristina a Carpignano Salentino che è del 959 d.C.).
Secondo lo scrivente, ciò è semplicemente spiegabile dal fatto che con ogni probabilità nel Salento le guerre iconoclaste ci sono state e, per quanto scritto precedentemente e considerando gli interessi del basileus nel Sud Italia contro i confinanti latini, probabilmente le si può immaginare come addirittura molto cruente e comunque non meno efficaci di quelle avvenute nel vicino oriente.
Tale tesi può essere avvalorata anche da un altro dettaglio non secondario. Il mosaico presente nell’abside della chiesa di S. Maria della Croce a Casaranello (Foto 1) è datato al 450 d. C. Ciò rappresenta una palese dimostrazione delle tesi sopra espresse.
Infatti, non essendoci nei mosaici presenti figure di santi o comunque rappresentazioni umane, sono probabilmente stati risparmiati dalla distruzione in quanto non in conflitto con le regole dell’iconoclastia.
Con l’occasione, approfitto anche per smentire una terminologia fin troppo abusata e erronea ossia quella che indica col termine di “basiliani” i monaci bizantini. Questo modo di definire i monaci orientali è una pratica cattolica errata.
In oriente, di fatti, non esistono gli ordini monastici ma solo i monaci in senso generico. E S. Basilio non ha fondato nessuna regola come invece in auge in Occidente ma ha esclusivamente fornito delle regole di vita che dovevano essere seguite da chi intendeva diventare monaco.
Di fatti, fu solo nel 1579 a seguito dei dettami della controriforma che il Cardinale Guglielmo Sirleto di Guardavalle di Stilo (1) si adoperò nella creazione in Occidente di un Ordine che potesse raccogliere gli ancora numerosi monasteri di rito greco presente nel sud Italia e si decise di chiamare basiliano tale nuova entità.
Di conseguenza, la terminologia giusta da adottare sarebbe quella di monaci bizantini o ortodossi se sono assoggettati ai vari patriarcati. Oppure se riconoscono l’autorità del Papa, cattolici di rito bizantino o greco.
Quindi, per quanto sopra esposto, a cosa si può addurre le reali motivazioni di una così ampia presenza di emigrazioni di popolazioni (e non di monaci come scritto in tutti i libri. Nella realtà la migrazione fu di popolazione con tutte le sue componenti sociali) di cultura greca nel sud Italia soprattutto dal VII-VIII sec. in poi?
A partire dalla prima metà del VII sec. l’avvento della nascente potenza araba portò questi ultimi a fagocitare letteralmente nel giro di meno di un secolo due terzi dell’impero bizantino.
Naturalmente, conseguenza di ciò, fu una migrazione epocale che portò ampie porzioni della popolazione a spostarsi nella zona più Occidentale dell’impero che era giustamente percepita come molto più sicura rispetto al medio oriente.
Ovvia conseguenza fu quella dell’arrivo soprattutto nel Sud Italia di enormi ondate migratorie che andarono a stanziarsi dove trovavano una stessa amministrazione politica, stessa religione e una popolazione con la medesima cultura.
Chi ha erroneamente portato avanti per un secolo e mezzo la motivazione dell’iconoclasmo come fondamento di questa migrazione ha fatto un gravissimo errore di valutazione dovuto probabilmente alla coincidenza temporale dei due avvenimenti ma poi non li ha colpevolmente messi in relazione con la storiografia locale.
Per tale motivo noi ancora oggi in tutti i testi riscontriamo come ufficiale un evidente falso storico.
Ora muoviamo verso il periodo tardo, ossia quello che va dalla conquista normanna dell’XI sec. all’estinzione del rito bizantino nell’entroterra salentino avvenuta nella seconda metà del XVIII sec.
Se per il periodo bizantino prettamente detto ci sono degli errori gravi, per quanto riguarda la storiografia tardo bizantina del Salento la vicenda diviene addirittura grottesca se non tragicomica.
Gli errori in questo caso sono sistematici e molto gravi in quanto hanno inevitabilmente condotto su strade sbagliate nello studio di avvenimenti molto importanti per la storia e la cultura locale.
2-L’errore in assoluto più grave che ancora oggi viene perpetrato è quello di continuare ostinatamente, (come purtroppo presente in quasi la totalità delle pubblicazioni sia locali che straniere, soprattutto greche) a considerare le chiese greche del Sud Italia e in particolare del Salento ortodosse.
In realtà, tali chiese non sono state mai ortodosse.
La differenziazione tra chiese ortodosse (legate ai patriarcati scismatici d’oriente) e chiese cattoliche (che riconoscono l’autorità del papa di Roma) lo si ha a partire dallo scisma d’Oriente (o d’Occidente per gli ortodossi) avvento nel 1054 quando Papa Leone IX e il patriarca di Costantinopoli Michele I Cerulario si scomunicarono a vicenda portando a compimento la definitiva separazione che si perpetua ancora nei nostri giorni.
Prima di questa fatidica data, anche se con evidenti differenze e plurisecolari attriti, le varie chiese erano riuscite a mantenere un’unità formale.
Da quanto scritto sopra, si può comprendere che sino a questo momento le chiese greche del sud Italia non erano ortodosse ma bensì di rito bizantino proprio in virtù della ancora unione formale delle due confessioni religiose.
Tra metà e seconda parte dell’XI secolo il meridione della nostra penisola e ovviamente anche il Salento furono conquistati dai normanni (1068 Otranto, 1071 Brindisi e Bari) (Foto. 2).
Naturalmente gli “uomini del nord” erano apertamente filo cattolici in quanto era stato proprio per volontà del pontefice che da mercenari si erano spinti nel sud al fine di riportare sulla retta via quelle popolazioni che sotto i bizantini (e gli arabi in Sicilia) si erano palesemente allontanate dal controllo della madre chiesa romana.
Questi nuovi conquistatori trovarono però ampie aree dei territori fortemente grecizzate nella lingua, cultura e religione. In particolare nel Salento e nella Calabria meridionale tale presenza era pressochè totalitaria.
Naturalmente, loro si sentirono obbligati a promuovere le istanze cattoliche e di conseguenza optarono per importanti e radicali modifiche nell’assetto politico-religioso di queste regioni.
In particolare, nel 1089 tennero un importante concilio (III di Melfi) in cui invitarono i rappresentanti delle chiese di rito greco del sud Italia che per secoli e sino a quel momento erano state assoggettate al patriarcato di Costantinopoli.
A seguito di ciò, tutti i vescovi greci vennero via, via sostituiti da prelati filo latini e fedeli al papa di Roma. Naturalmente, anche l’importante sede metropolita bizantina di Otranto dovette subire la stessa sorte e da questo momento e per sei/sette secoli le chiese greche presenti in questi territori saranno assoggettate a un “pastore” lontano dal loro modo di concepire la religione ma anche la loro cultura d’origine.
Nello stesso concilio imposero loro di assoggettarsi politicamente al papato di Roma abbandonando gerarchicamente il patriarcato di Costantinopoli che per secoli era stato il loro punto di riferimento.
Di conseguenza nacque nell’alveo del cattolicesimo romano il rito bizantino.
Quindi viene con ciò confermata la tesi con cui ho principiato il discorso. In realtà dalla fine dell’XI e sino all’estinzione del rito nel XVIII secolo le chiese greche del meridione d’Italia non saranno scismatiche come le chiese d’Oriente ma bensì cattoliche di rito bizantino.
Con ciò mi preme smentire un altro luogo comune che ancora oggi è presente nella storiografia bizantina studiata in Occidente ossia quello che attribuisce la nascita del rito bizantino-cattolico alle conseguenze dei due concili di Ferrara e Firenze tenuti del 1438-39.
Infatti, a seguito di quell’ennesimo tentativo di riunificare le chiese, (provvedimento che sarà sancito ufficialmente ma che non si concretizzerà a causa delle enormi proteste avvenute a Costantinopoli e in tutto il medio oriente) vennero creati coloro che ancora oggi vengono chiamati “Uniati” presenti principalmente in nazioni quali l’Ucraina, l’Ungheria, la Romania e comunque in buona parte delle nazioni dell’Est Europa.
In realtà, come ho pocanzi dimostrato, le chiese d’oriente non scismatiche di rito greco che quindi riconoscono l’autorità del papato, nascono molti secoli prima in conseguenza della forte presenza di chiese orientali nel meridione della penisola italiana.
Fra l’altro, come asserisco nel libro “Il cielo interiore di Matteo Tafuri”, esistono una quantità notevole di elementi che evidenziano come tale tesi sia reale.
Vari esempi in tale direzione li possiamo riscontrare nella chiesa di S. Sofia e Stefano, monumento importantissimo proprio perché realizzato dalla e per la comunità italo greca di Soleto e dove è ovunque riscontrabile la ferrea volontà politica di mettere in evidenza come la comunità italo-greca fosse cattolica e non ortodossa.
L’esempio più evidente e chiaro di ciò lo troviamo nel catino absidale della cappella dove in un punto volutamente messo in risalto dal frescante con la rappresentazione della pentecoste, sicuramente istruito dal protopapàs, troviamo l’iconografia della più importante controversia teologica tra ortodossi e cattolici ma, apparentemente e paradossalmente, la versione filo latina ossia il “Filioque”.(Foto 3)
In realtà, per quanto scritto in precedenza, non vi è nulla di paradossale in quanto si comprende come esso sia stato inserito con l’evidente volontà politica di dimostrare la propria fedeltà al cattolicesimo romano.
A sostegno di quanto appena asserito riporto di seguito un breve passo che troverete nella sessione dedicata al Tafuri:
“Sicuramente, a tal proposito, la più rilevante differenza dogmatica tra chiesa cattolica e ortodossa, è la diversa concezione che hanno sulla processione dello spirito santo con l’aggiunta della formula del filioque in occidente, elemento dottrinale sempre considerato eretico (e a tutt’oggi vige ancora questa diversa interpreazione) dalle chiese ortodosse.
Non si sa con certezza quando e come il filioque sia stata introdotto in occidente. A quanto si sa fu usato per la prima volta nel 587 a Toledo in Spagna e, per secoli non fu accettato nemmeno dalla stessa chiesa cattolica romana. Divenne sempre più adoperato però nelle chiese del centro, nord Europa che erano legate, in maniera particolare, all’autorità del Sacro Romano Impero che usò il filioque principalmente per fini politici anziché religiosi con l’intento di distinguersi dall’Impero romano ufficiale ossia quello con sede a Costantinopoli.
Non è un caso, infatti, se a Roma tale formula fu impiegata per la prima volta in un periodo molto tardo e proprio nelle circostanze dell’incoronazione di un Imperatore germanico ossia Enrico II da parte di papa Benedetto VIII.
Diverrà dogma definitivo per tutta la Chiesa cattolica romana solamente nel 1274 a seguito del secondo Concilio di Lione, evento nel quale fu, tra l’altro, sancito, anche se per breve durata, l’unione delle due chiese.
Il dogma del filioque è elemento essenziale nelle complesse e travagliate vicende delle chiese e comunità greche del meridione d’Italia poiché considerato vero elemento discriminante e probatorio a dimostrazione della loro unione con Roma e non con le chiese ortodosse.
La plurisecolare tolleranza con cui la chiesa romana aveva dominato sulle comunità greche del Salento era dovuta proprio al fatto, come abbiamo già visto, di considerare delle “consuetudini” alcune differenze di approccio ritualistico.
Altro è, viceversa, tollerare le principali differenze dogmatiche esistenti tra le chiese d’oriente e d’occidente.
Da ciò, possiamo dedurre che, da questo momento in poi, la presenza o meno di questo dogma nell’utilizzo liturgico e/o artistico, può essere, di fatto, considerato elemento discriminatorio di appartenenza all’una o all’altra confessione religiosa.
A tal proposito nel territorio salentino esiste una testimonianza molto rilevante nella chiesa tardo bizantina di S. Sofia e S. Stefano a Soleto, patria d’origine proprio del nostro Messer Tafuri.
Nella parte superiore dell’abside, realizzata molto probabilmente nella metà del XIV secolo dalla e per la fiorente comunità italo-greca del chorion bizantino, nella scena della pentecoste troviamo in maniera inequivocabile la rappresentazione pittorica del filioque in cui il Padre e il Figlio con le braccia aperte, sono intenti a mandare lo Spirito Santo sulla madonna e i dodici apostoli raffigurati nella Gerusalemme celeste.
Troppo spesso, nelle pubblicazioni sino ad ora realizzate su questa chiesa, evidenziando la presenza di questo dogma, non si è però riusciti a comprendere ed evidenziare la valenza rivoluzionaria dovuta alla sua rappresentazione.
Il suo inserimento per volontà della comunità bizantina, è da considerarsi a tutti gli effetti un vero e proprio schieramento politico. Qui, in maniera inequivocabile, la comunità greca di rito bizantino afferma di riconoscersi all’interno della comunità cattolica e non in quella ortodossa. Di fatti, per quanto sopra esposto, per motivazioni religiose e soprattutto politiche, mai un papas o un pittore ortodosso avrebbe inserito un elemento considerato da loro ancora oggi eretico. Da ciò possiamo con relativa certezza confermare la tesi di partenza, ossia che le comunità e chiese greche del sud Italia e in particolar modo del Salento, a partire dalla conquista normanna in poi, devono essere considerate cattoliche di rito bizantino e non ortodosse come purtroppo tuttora si continuano erroneamente a definire su tutte le pubblicazioni.”
3-La tradizione bizantina nel Salento ha avuto una tale importanza a livello storico, etnico e culturale da incidere in maniera sostanziale anche in periodi molto tardi sino addirittura al XVII-XVIII secolo.
Così, importanti fenomeni storico-artistici che apparentemente sembrano centrare poco o nulla con tale presenza, in realtà ne rappresentano l’epilogo.
Il barocco leccese, di fatti, può secondo lo scrivente essere annoverato tra i fenomeni monumentali/culturali conseguenti alla forte presenza nel periodo della contro riforma in Terra d’Otranto di una ancora numerosissima comunità italo greca di rito orientale. Di fatti, bisogna assolutamente precisare che nella seconda metà del XVI secolo nel Salento i paesi con ancora una parrocchia greca superavano la trentina di unità e non mi sembrerebbe strano se attraverso uno studio più attento delle varie visite pastorali di altri villaggi si scoprisse che erano addirittura maggiori di quaranta.
Purtroppo, nella quasi totalità dei casi in cui ci si è occupati del fenomeno del barocco leccese lo si è studiato da un punto di vista prettamente artistico e spesso non riuscendo a comprendere le reali motivazioni per le quali nella nostra Terra questo stile (ma anche cultura) fosse stato così presente e importante mentre è sufficiente spostarsi per poche centinaia di chilometri in Terra di Bari per notare come di fatto esso scompaia conservando ancora in maniera sostanziale nelle chiese lo stile romanico pugliese.
In realtà le motivazioni sono semplici e palesi.
Nel barese non vi erano di fatti gli italo-greci e quindi non vi è stata la necessità di inviare decine di ordini monastici latini per evangelizzare un’area già perfettamente inquadrata nel cattolicesimo romano.
L’”India d’Europa” (così veniva definito il Salento nei documenti della contro riforma) viceversa, era un’area che per troppo tempo aveva visto la tolleranza dei dominatori cattolici nei confronti delle comunità di rito greco ma che le nuove istanze controriformiste non poteva più ammettere.
Conseguenza di ciò, fù quello di trasformare Lecce in una vera e propria “città chiesa” e a seguito di questa abnorme presenza di ordini monastici latini (tutti ovviamente intenti a realizzare chiese e monasteri artisticamente più rilevanti di quelle costruite dagli ordini monastici concorrenti) portare, di conseguenza, ad una notevole presenza di monumenti religiosi.
E ciò è riscontrabile anche in tutti i paesi dell’entroterra (anche e soprattutto in quelli in cui si perpetrava ancora il rito bizantino) dove troviamo almeno un monastero o un convento edificato tra la fine del XVI e inizi del XVII secolo.
I monaci avevano l’improcrastinabile compito di evangelizzare l’area riportando sulla retta via intere popolazioni che per troppo tempo vi si erano allontanate.
Da questo momento quelle che per cinque secoli erano state giustificate come “consuetudini” perpetrate dalle comunità italo-greche non furono più tollerate e quindi furono costrette anche con evidenti maniere intimidatorie ad abbandonare il rito orientale. Ci vollero comunque ancora due secoli perché ciò avvenisse in maniera definitiva. Infatti, ancora nella seconda metà del XVIII secolo, troviamo paesi con una folta presenza di chierici more graecorum coniugati.
Ma la fine del rito bizantino era ormai imminente.
Per fortuna, estinto il rito, si è riuscita miracolosamente a conservare la lingua sino ai giorni nostri.
Note
1- Nascita della “Congregazione d’Italia dei monaci Basiliani”
Anno 1579: La decisione del papa Gregorio XIII di riforma filo-occidentale dei monaci greci dell’Italia Meridionale fu appoggiata dal cardinale calabrese Guglielmo Sirleto, il quale collaborò alla convocazione del I Capitolo Generale (Assemblea plenaria), a Seminara (Calabria) degli egumeni italo-greci, per la solennità di Pentecoste, dove si elaborarono le prime Costituzioni, improntate a quelle della Congregazione benedettina di S. Giustina di Padova.
Ma le personalità benedettine, che per diversi anni furono incaricate di dirigere la riforma (o trasformazione) del monachesimo italo-greco, furono inconsapevolmente portate a imprimergli caratteri e consuetudini propri dell’Occidente; sicché la conservazione di meri elementi esterni (barba, paramenti, lingua…) e qualche altra peculiarità secondaria non poterono certo riuscire sufficienti a impedire una troppo profonda trasformazione di una mentalità spirituale e di un regime di vita monastica tipici dell’Oriente cristiano.
Fu così impossibile far sussistere l’identità tipica (spirituale, acetica, organizzativa) degli ultimi rappresentanti in Occidente del monachesimo orientale delle origini e mantenere vive le sue preziose caratteristiche peculiari.
Fu per questo che una meccanica e radicale applicazione di ordinamenti monastici occidentali, estranei al mondo spirituale bizantino, si dimostrarono di fatto strumenti impropri a sottrarre i resti di una famiglia monastica, un tempo fiorente, alla sua lenta ma continua e inesorabile estinzione.
Con la Bolla “Benedictus Dominus” del 1° Novembre (!) 1579 papa Gregorio XIII approvava le decisioni capitolari e sottometteva tutti i superstiti monasteri italo-greci al nuovo Abate generale.
Questa decisione, se da una parte sembrò dare respiro a questa Istituzione monastica ormai morente, d’altra parte poco o nulla lasciò dell’antica e genuina tradizione bizantina…
(p. Alessio Mandanikiota)