Riuscirà il PNRR a salvare il Servizio sanitario pubblico? Una conversazione-intervista con Maria Antonietta Vanto, Dirigente di Consultori familiari
di Enrico Conte
L’attuazione del PNRR sta ormai per chiudere i suoi primi due anni. Approvato nel luglio del 2021 sono attualmente in fase di ridefinizione alcuni dei suoi obiettivi ritenuti non raggiungibili. Entro agosto dovrebbero pervenire alla Commissione UE le proposte di rimodulazione dei progetti. Prima il costo dei materiali e l’inflazione, poi quello dell’energia, aggravato dalla guerra in Ucraina, hanno inciso sull’andamento dei costi.
La capacità politico-amministrativa del sistema pubblico ha fatto il resto.
Tra i settori che avevano dato origine al finanziamento straordinario del Piano, il sanitario rappresenta quello centrale: è stata la pandemia, infatti, e le sue conseguenze economiche e sociali, a spingere l’UE, nel 2020, a ritenere necessario un inedito programma per finanziare la ripresa dei paesi dell’UE.
Con una emissione straordinaria di titoli del debito pubblico europeo per complessivi 800 miliardi, dei quali circa 200 destinati all’Italia, per finanziare i Piani nazionali.
La risposta del Paese alla crisi sanitaria causata dal Covid è stata a macchia di leopardo: ha registrato maggiori criticità dove il sistema regionale era già in sofferenza (Calabria) o dove il servizio era prevalentemente affidato ai privati ( Lombardia) e non funzionava la sanità territoriale, i medici di base e i distretti.
Per dare una risposta il PNRR, stanziando 15 miliardi sulla Missione 6, ha scelto un modello di sistema sanitario prendendo spunto da alcune esperienze diffuse sul territorio (Emilia) e ha previsto, congiuntamente all’acquisto di macchinari e tecnologia, la creazione di Case e Ospedali di Comunità, dei Distretti e di Hub regionali per fornire una risposta coordinata e capillare e in chiave di prevenzione.
Valorizzando le esperienze di socialità digitale, che durante la pandemia hanno permesso che la vita economico e sociale continuasse, Il PNRR ha previsto la telemedicina per poter seguire il cittadino da casa con l’ausilio di dispositivi di rilevazione e il fascicolo sanitario elettronico. In sintesi: dovrebbero essere realizzate 1350 Case di Comunità, per una assistenza integrata di prossimità, con medici, infermieri, assistenti sociali, psicologi, e 400 Ospedali di Comunità, per chi non richiede necessariamente un lungo ricovero ospedaliero.
E’ stato scelto per tutte le regioni un modello minimo di servizi di territorio, con una riforma tra le più compiute sulla carta, tra quelle previste dal Piano.
Il PNRR, tuttavia, non finanzia le spese correnti se non quelle che, per un 12% del totale, sono state autorizzate dalla Commissione UE in quanto legate a certe riforme (giustizia), o a specifici investimenti ( personale per i Centri per l’impiego), a contributi per gli investimenti delle imprese, a trasferimenti alle famiglie e alla riduzione dei contributi per le imprese.
Le spese correnti per il personale necessario a far funzionare i Nidi d’infanzia, o le citate infrastrutture sanitarie, sono invece a carico del bilancio dello Stato e delle Regioni. La chiacchierata che segue è con la dott. ssa Maria Antonietta Vanto, Assistente sociale e già Dirigente di Consultori familiari, nella Regione Friuli Venezia Giulia.
D. Quali azioni potrebbero intraprendersi per migliorare il Servizio sanitario pubblico?
R. “Investimenti adeguati per potenziare le infrastrutture, per acquisire nuove attrezzature mediche, per migliorare l’accessibilità e la qualità delle cure, ridistribuire le risorse in modo più equo ed efficiente tra le diverse regioni, cosa che può implicare una revisione del sistema di finanziamento e l’implementazione di meccanismi per garantire che le regioni con maggiori bisogni ricevano una maggiore quota di risorse. Servirebbe ancora un rafforzamento della medicina preventiva anche perchè significherebbe ridurre i costi a lungo termine e migliorare la salute della popolazione. Ancora, migliorare l’efficienza con la riduzione delle liste di attesa, ottimizzare i processi interni, ridurre la burocrazia, diffondere le cartelle cliniche elettroniche può contribuire a migliorare il sistema. E quindi, Formazione e reclutamento del personale sanitario e incentivi per attirare medici e infermieri dove occorre. Ricerca, innovazione e promuovere la collaborazione di Università con Ospedali e Industria per favorire lo sviluppo di nuove terapie. E infine partecipazione dei cittadini nei processi decisionali può aiutare per identificare i bisogni locali”.
D. Dott.ssa Vanto la risposta sopra riportata mi è stata fornita dal programma di Intelligenza Artificiale Chat GPT: a questo punto la domanda su quali azioni siano necessarie per migliorare il servizio sanitario pubblico, la rivolgo a lei, limitandomi ad aggiungere che sembrava che la pandemia avesse reso centrale l’importanza della ricerca scientifica, medica e delle cure, mentre poi ci si è dimenticati che tutto ciò richiede un “sistema” con moderne attrezzature ma soprattutto ben organizzato, e con personale sanitario adeguatamente motivato.
R: Partirei dalla risposta di IA, da “E infine la partecipazione dei cittadini nei processi decisionali…….” che a mio parere dovrebbe stare all’inizio. Bisognerebbe prima decidere quali sono le finalità, poi gli obiettivi, quindi le organizzazioni e le azioni migliori per raggiungerli. Ed è imprescindibile un processo di partecipazione di cittadini, operatori, utenti, rappresentanze, corpi intermedi per orientare, o meglio ri-orientare il Sistema Sanitario Nazionale, se tale è ancora e se tale deve restare. Dal mio punto di vista di ex dirigente di Consultorio familiare che ha conosciuto da cittadina le mutue e ha cominciato a lavorare nella sanità proprio con la nascita del SSN, quello che la pandemia ha reso centrale è che, appunto, c’è bisogno di mettere mano alla organizzazione e anche migliorare azioni e interventi ma, preliminarmente, ridare scopo, corpo e significato concreto e tangibile, per tutto, alle definizioni “Sistema Sanitario” e “Nazionale”. Lapandemia ha reso evidenti cose già note in termini di diseguaglianze e persino esiti diversi in termini di mortalità tra i servizi sanitari regionali e questo è un tema che, mi pare, sia stato presto dimenticato.
Come sono finiti in ombra temi altrettanto importanti quali la carenza di personale, non solo medici, infermieri, OSS ma anche riabilitatori, psicologi, assistenti sociali, educatori e non ultimi, anzi, personale amministrativo che è altrettanto indispensabile. E poi accorpamenti, chiusure di strutture sanitarie, territori resi deserti e abbandonati, ecc.
Il PNRR nomina la Missione 6 con il termine “Salute” e non “Sanità” (che è altro) e ci dà l’opportunità, volendola cogliere, di rimettere in asse “il valore universale della salute, la sua natura di bene pubblico fondamentale e la rilevanza macro-economica dei servizi sanitari pubblici” . Chiaramente tale affermazione che si ancora ai principi-fondamenti istitutivi e costitutivi del SSN, ex l.n.833/78, ha bisogno di essere “messa a terra” con norme attuative, finanziamenti adeguati, processi di investimento, valorizzazione e coinvolgimento del personale e di partecipazione collettiva. Ma in realtà qui le cose si complicano e da quel che si vede pare si stia andando in altra direzione.
D. Il tributo lasciato sul campo dai medici e dagli infermieri morti causa Covid (379 medici e 90 infermieri) ha assunto i connotati una delle tante calamità italiane, come accade per terremoti, esondazioni, dissesto idrogeologico, dopo poche settimane spariscono dai radar delle programmazioni necessarie per prevenirli: accade ora con la sanità e non c’è da stupirsi se gli operatori sanitari stiano abbandonando il sistema pubblico con un ritmo molto preoccupante( vedasi rapporto OMS).
R: Già, è proprio così. Le operatrici e gli operatori lasciano il sistema sanitario perché l’ambiente di lavoro è diventato insostenibile, non solo per guadagnare di più. E la perdita non è solo quantitativa, sono professionisti formati, non pochi lavoravano da molti anni nella sanità e questo dovrebbe fare riflettere profondamente. E poi il personale viene coinvolto? Viene motivato? Le organizzazioni verticistiche, con flussi di comunicazione interna scarsi o basati su comunicazioni formali e burocratizzate, decisioni prese senza sentire e coinvolgere i professionisti allontanano, non trasmettono appartenenza, valore. La maggioranza degli operatori che lavora nel sistema pubblico ne riconosce il valore, ma molti vanno via delusi perché vivono ogni giorno l’indifferenza, l’abbandono del sistema. Ma tutto questo non è una perdita, anche economica, che potremmo evitare? Io penso di sì e forse costerebbe meno di quello che si pensa, sicuramente meno di quanto stiamo perdendo giorno per giorno.
D. la spesa sanitaria non dovrebbe essere un inutile costo ma un investimento ( come lo è, dovrebbe essere, quella per istruzione e formazione) e invece la spesa era stata portata dal precedente Governo al 7% del PIL, mentre con il Governo in carica scende al 6,7 e, nel 2024, calerà al 6,2%.Le richieste che le regioni fanno ora al Governo sono di tre miliardi aggiuntivi.
R: Nell’incipit della Missione 6 del PNRR già si sottolinea che la spesa sanitaria sul Pil risulti inferiore rispetto alla media UE. E io da cittadina non capisco: se è vero che l’UE finanzia il PNRR Italiano e quindi anche la Missione 6 con il rilancio del sistema sanitario, come mai si dà di meno? E’ chiaro che riparare ai danni fatti dagli inizi degli anni ’90 in poi richiede un investimento di risorse importante ma non mi è chiaro perché questo non avvenga. O meglio, invece di cambiare rotta si continua a “fare cassa” tagliando su sanità, scuola, ecc?
E’ chiaro che le Regioni chiedano maggiori risorse e tra l’altro il sistema sanitario è fatto di persone per le persone e quindi bisogna capire che la spesa del personale non coperta dal PNRR diventa centrale.
D. Si troveranno le risorse per le coperture finanziarie necessarie per dotare del necessario personale le Case di Comunità o non è solo un problema di risorse ma di visione sul modello di sanità prescelto?
R: La seconda che ha detto! Vale quanto risposto alla prima domanda: le organizzazioni sono funzionali a degli obiettivi che derivano da finalità o visioni, se si vuole davvero investire nell’assistenza territoriale si trovano sia le risorse che i modi per realizzare ad esempio le Case della Comunità o gli altri presidi e processi, in una logica di sistema che possano davvero erogare un’assistenza diffusa, di prossimità, nell’arco dell’intera giornata. Già prima del PNRR in alcuni territori si andava proprio in questa direzione con esperienze di eccellenza. Sembra che le risorse ci siano sempre solo quando si esternalizza motivando con un assiomatico “perché il pubblico non ce la fa”. Ma perché non ce la fa? E perché una volta fatta la diagnosi che “non ce la fa” l’unica cura sia affidare prestazioni al privato accreditato (profit o non profit)? Non voglio assolutamente demonizzare l’apporto del privato ma, così come viene posta la questione, è un privato in competizione con il pubblico, che farebbe meglio per definizione mentre a mio parere la questione è più complessa e andrebbe vista in un’ottica più di “sistema” che di committente-fornitore, in cui il pubblico è davvero garante nella concretezza dei servizi resi nei confronti del cittadino.
D.Il doversi misurare con la regionalizzazione del servizio sanitario rappresenterà l’occasione per svuotare di contenuti la vera, e unica, riforma già confezionata dal PNRR che sembrava voler attualizzare e diffondere, con caratteri di organicità su tutto il territorio, la riforma del 1978?
R…..Come ho già accennato, a proposito delle gestione regionale della sanità, la pandemia ha dimostrato che “il re è nudo” evidenziando quali gravi diseguaglianze e discriminazioni si siano create per i cittadini rispetto al diritto soggettivo alla salute solo per una condizione personale, essere residenti in un determinato luogo o un altro, in aperto contrasto con l’art. 3 della Costituzione che informa, a mio parere più dell’art. 32 Cost., la legge n.833/1978. Rimanendo sulla favola di C. Andersen sappiamo che il sovrano ha continuato lo stesso a sfilare, con i ciambellani a reggere lo strascico inesistente. Con i sistemi sanitari regionali il governo centrale fa fatica a garantire uniformità dei livelli essenziali di assistenza, andrebbero riviste le prassi di gestione regionali, deve essere mantenuta una dialettica tra governo e regioni più incisiva. Si pone, secondo me, anche un problema di sbilanciamento dei poteri su materie, come la sanità e la scuola, che non possono essere in mano solo di chi rappresenta una parte del territorio (e della popolazione) nazionale.
Uno sforzo è stato fatto con il Decreto ministeriale n.77/22 “Regolamento recante la definizione di modelli e standard per lo sviluppo dell’assistenza territoriale nel Servizio sanitario nazionale” che rappresenta il tentativo di cercare di uniformare su tutto il territorio nazionale l’assetto dell’assistenza territoriale. Ma si tratta, appunto, di un Regolamento, nessuna garanzia che venga applicato a meno che non si decida di rimettere mano al rapporto Stato-Regioni riguardo il diritto alla salute, quindi equità e universalismo, e potrebbe essere un’occasione per entrare nel merito dei problemi, per discutere non solo di pareggio di bilancio ma anche, e soprattutto, della qualità dei servizi e della garanzie per dare uniformità ed equità.
D. I medici di famiglia riusciranno a non essere solo dispensatori di ricette?
R: Bella domanda! Anche qui ci vuole una decisione radicale e quindi riformare il sistema di relazioni con i medici di famiglia che da una parte si dice che facciano parte integrante del SSN dall’altra però il fatto che siano professionisti privati convenzionati fa emerge delle contraddizioni rispetto ad una effettiva integrazione e partecipazione nel sistema. Secondo me dovrebbero essere dipendenti del SSN e coinvolti e valorizzati nel loro mandato, non accontentarsi di avere dei meri “prescrittori” ma professionisti preparati e attivi. Sul ruolo centrale e sul potenziale dei medici di famiglia non dico nulla di più di quanto sia stato già detto e scritto in questi anni e anche attualmente. Adesso servono i fatti e anche in questo caso si tratta di una scelta. Si vuole fare?
D. La telemedicina non costituirà l’ulteriore pretesto per allontanare il medico di base dalla relazione personale con il paziente? Sostituendo la burocratizzazione della medicina generale con la digitalizzazione e rendendo virtuale ogni controllo sanitario?
R: Penso che il miglioramento di processi e strumenti tecnologici non sia mai di per sé un male, pur non essendo una nativa digitale sono sempre stata disponibile a imparare e usare nuove modalità che migliorino i servizi resi al cittadino. La tematica è sempre la finalizzazione dello strumento e quindi verificare costantemente gli effetti che produce, ad es. la telemedicina, in termini di “salute” (attenzione, non di “sanità”!) per il cittadino. Non un cittadino generico e “ideale” ma quello che ho davanti, con la sua particolarità. E quindi nessuno strumento è efficace in questo campo se non è mediato, orientato da una relazione umana gestita con un professionista. Certo che si corre il rischio, così come si corre quando si applicano in modo rigido protocolli e procedure come se questi fossero il fine e non il mezzo. Si rischia anche di fare errori clinici e di valutazione. E non dimentichiamo che la digitalizzazione non mediata crea esclusione, non tutti hanno le stesse opportunità di accesso, sia come mezzi sia come linguaggi. Negli atti attuativi della Missione 6 del PNRR si è introdotto l’uso di algoritmi, nella gestione delle malattie croniche, in grado di “comporre”, in base ad una profilazione di complessità di bisogno e intensità di cure, gli interventi idonei. Nella Regione FVG è stato appena annunciato l’utilizzo di questo strumento a partire dalla gestione delle malattie rare. E’ lo strumento migliore rispetto alle finalità da perseguire? Come si concilia una standardizzazione di questo livello con la centralità, e unicità, della persona e la più volte sottolineata “personalizzazione” del progetto di salute?
D. A parte il problema delle risorse economiche ( le tariffe LEA-livelli essenziali di assistenza- sono state recentemente aggiornate) da cosa dipendono, a suo parere, i problemi più gravi nel servizio sanitario?
R: Se si sceglie di rilanciare il sistema pubblico vanno assicurati finanziamenti adeguati con una programmazione certa di medio-lungo periodo che possa sanare questioni critiche come:
- Le responsabilità dello Stato e delle Regioni: come ho già detto prima, bisogna metterci mano e individuare dei dispositivi che tengano a bada la difformità presente nelle prassi di gestione dei servizi sanitari; i territori che si trovano in situazione più critica devono essere aiutati con interventi mirati, non si può lasciare la sanità ai governi regionali senza alcun contrappeso a garanzia di, ripeto, universalismo ed equità;
- Il personale: va fatta un’analisi approfondita e globale della situazione sia in termini quantitativi che qualitativi, penso siamo stufi di sentire solo frasi fatte tipo “sono troppi” o “sono pochi” senza mai entrare nel merito davvero e senza specificare in relazione a cosa si consideri troppo o poco. Ho già evidenziato prima anche le scarse o nulle politiche sia nazionali che locali di rendere attrattivo lavorare nella sanità pubblica.
- L’assistenza territoriale: nonostante le lezioni date dalle pandemia non mi pare si stia andando nella direzione di un effettivo potenziamento dell’assistenza territoriale vista come presa in carico di lungo periodo e non come un mero aumento delle prestazioni domiciliari. Assistere nel territorio, a domicilio, ha bisogno di processi di intervento ampi e in rete, nei luoghi di vita dei cittadini. L’azione deve essere duplice sia verso il singolo bisognoso di assistenza che verso la comunità che “cura” e quindi deve essere “curata” a sua volta. Se ciò non accade l’ospedale ha un motivo in più per collassare. Bisogna agire in termini di sistema ospedale-territorio, per funzionare bene ogni parte del sistema deve poter svolgere adeguatamente il proprio compito
D. Cosa fare per rendere attrattivo per i giovani le professioni sanitarie nel pubblico?
R: Valorizzare, anche con campagne fatte bene di comunicazione sociale dirette alla popolazione generale (anche per contrastare campagne denigratorie portate avanti da politici negli ultimi decenni) il mandato etico-politico del sistema pubblico universale e solidaristico, i principi costituzionali che lo informano e il ruolo che possono svolgere i professionisti della sanità. Poi bisognerebbe ripensare all’accesso universitario e, naturalmente, ai contratti, alla valorizzazione economica e di percorsi di carriera. L’operatore sanitario e sociosanitario pubblico più vicino al cittadino dovrebbe essere il più valorizzato e incentivato proprio perché ha di fronte la vera “proprietà”del sistema sanitario che è la cittadinanza. I direttori generali, i manager dovrebbero svolgere l’importante funzione di assicurare i mezzi e gli strumenti migliori per poter svolgere il mandato di fare salute.
D. Quali sono i motivi, dichiarati, in base ai quali si vorrebbero diminuire nella Regione FVG i Consultori Familiari?
R: in premessa c’è da dire che ci si ricorda dei Consultori ogni tanto, spesso quando partono campagne contro l’aborto, l’uso della RU486 o la contraccezione per i minorenni, dopo ci si dimentica. La disattenzione si è cronicizzata nel tempo e nel tempo questi servizi si sono impoveriti come numero e come dotazione di personale multidisciplinare. Una recentissima ricerca dell’Istituto Superiore di Sanità su 1800 consultori italiani condotta tra novembre 2018 e luglio 2019, a cui hanno partecipato il 98% dei consultori (1535 su 1800) ha evidenziato in modo puntuale le criticità diffuse in tutto il territorio compresa la grande variabilità regionale. Dal report della ricerca risulta che nel 1993 c’erano in Italia 2725 Consultori Familiari diffusi su tutto il territorio italiano, all’incirca 1 ogni 20.000 abitanti, parametro che si ritrova nella legge n.34/96 e ribadito peraltro anche dal recente Decreto Ministeriale n.77/22 collegato all’attuazione della Missione 6 (Salute) del P.N.R.R.
Nel 2016 questo numero si è ridotto a 1944 pubblici+147 privati (0,6 CF ogni 20.000 abitanti). Nel 2018 erano1800.
E nel Friuli Venezia Giulia cosa sta succedendo? Ad oggi la Regione FVG e le Aziende sanitarie non hanno ritenuto di considerare questa ricerca dell’ISS nel processo di riorganizzazione in atto che ha coinvolto anche i Consultori familiari. All’epoca della ricerca in regione avevamo 1 sede di Consultorio ogni 47 mila abitanti ed è la quarta regione con il peggiore rapporto tra numero di popolazione per sede, avevamo ed abbiamo situazioni e condizioni diverse nei vari territori della Regione, non ultima l’organizzazione in cui sono inseriti. Gli atti aziendali ci consegnano oggi uno stravolgimento dell’organizzazione di questo servizio, così come dell’insieme dei servizi distrettuali territoriali, che accorpano il servizio in funzioni e organizzazioni dal nome fantasioso che non contiene neanche più la denominazione “Consultorio familiare”. Ci sono territori in regione FVG in cui nella sede del Consultorio è presente solo psicologo e assistente sociale mentre gli interventi ostetrico-ginecologici vengono erogati negli ambulatori dell’ospedale e questa soluzione viene incensata come “ottimizzazione delle risorse” o “integrazione ospedale e territorio” mentre si tratta di smantellamento del lavoro di équipe. Ci sono territori in cui l’organizzazione del CF è unica per tutto il territorio dell’Azienda sanitaria e questa configurazione di fatto toglie quella caratteristica di prossimità e di radicamento territoriale che questo servizio ha e deve mantenere anche nel disegno organizzativo. Quando i servizi si accorpano una struttura organizzativa ampia il numero di personale cala e se chiedi qualcosa la risposta è di “ottimizzare o fare economia di scala”. Nella ricerca dell’ISS citata prima si è osservato che al crescere del numero di residenti per sede la copertura dei bisogni della popolazione di riferimento diminuisce. La stessa relazione è stata rilevata anche sull’ampiezza o meno dell’orario di apertura. È un servizio ad accesso libero, non serve impegnativa, non è diretto a patologie o fasce di età predefinite, chiunque può entrare nel servizio e porre la propria richiesta. I dati ci dicono che il 90% dell’utenza è donna. E allora l’accoglienza, così come la presa in carico, deve essere competente, ci vuole capacità di essere inclusivi e anche saper fare rete con servizi e soggetti del territorio. Per essere un servizio così ci vuole investimento in termini di persone, sedi diffuse e adeguate nel territorio, progetti. Le ragioni della riduzione delle sedi territoriali? Non sono chiare, si rimanda ad un generico ”miglioramento del servizio” applicando il modello “hub e spoke” già utilizzato nella revisione della rete ospedaliera. Tra l’altro questo modello molto in voga in questi anni pare stia entrando in crisi e in alcuni territori lo stanno rivedendo. Credo che nessuno dei dirigenti si sia chiesto se questo modello sia quello giusto per riorganizzare i Consultori e i servizi territoriali in genere. Credo che il motivo sia molto più terra terra: accorpo le sedi e il personale, elimino la diffusione territoriale come servizio e definisco “hub” ciò che resta e lì erogo più servizi, o meglio prestazioni e dove non posso proprio farne a meno insedio una sede “spoke” con parte del servizio che andrebbe reso, magari un paio di linee di intervento. Quindi in definitiva depaupero i territori dando meno servizi rispetto a prima. E’ quello che sta succedendo a Trieste dove funzionavano nell’area cittadina 4 Consultori familiari incardinati nei 4 Distretti sanitari e con équipes complete, con una adeguata e flessibile copertura oraria settimanale. La riorganizzazione ha ridotto a 2 i Distretti, svuotandoli di servizi e funzioni e poi è stata definita la riduzione anche dei Consultori chiudendo 2 sedi in zone popolose della città . Chiudendo queste due sedi si rimane con 1 consultorio ogni 103 mila abitanti, rapporto ben lontano da 1 ogni 20mila! Perché le indicazioni normative e ministeriali continuano a ribadire questo rapporto?
“I Consultori familiari sono l’unico presidio del Servizio Sanitario Nazionale disegnato per promuovere la salute e offrire misure preventive sul territorio. Occorre un impegno delle Regioni per rilanciare i CF garantendo le sedi, gli organici e la loro integrazione nella rete assistenziale territorio – ospedale . Occorre un impegno della società civile nel sostenere la prevenzione e la promozione della salute come attività prioritarie del Servizio Sanitario Nazionale”(Serena Donati, ISS).
Altri temi,altre domande, potrebbero essere sviluppate, non ultime quelle sulla crisi dei Pronto Soccorso.
Quello che restituisce questa conversazione sembra essere un approccio nell’attuazione del PNRR, per la Missione Salute, di tipo minimalista, quantitativo,di stampo tecnicista, analogamente a ciò che accade, invero, anche per altre riforme. Quella sulla PA,sulla giustizia civile, offuscata dal dibattito su abuso d’ufficio e concorso esterno in associazione mafiosa,sulla riforma del codice appalti. E ‘ un pò come se, lo stato di salute,pessimo, del servizio sanitario pubblico, riflettesse quello di un Paese che fa fatica anche e solo a rialzarsi, spinto a terra dai numeri,quelli della spesa, e da una inadeguata visione su dove si vuole andare.
Con un sistema pubblico infragilito non solo dai tagli degli anni precedenti, ma da una crisi di fiducia e di autorevolezza del sistema pubblico nel suo insieme, la stessa che spiega le aggressioni e le violenze nei Pronto Soccorso o, per cambiare settore, quella che è dietro alle aggressioni agli insegnanti, o alla stessa messa in discussione dei voti ricevuti dai ragazzi da parte di genitori-avvocati.
Nel frattempo la ricerca medica, intrecciata con la tecnologia, ha reso possibili progressi inimmaginabili appena 20 anni fa. Si potranno disegnare molecole, reiventare materiali, ideare muscoli sintetici – cosi Bernard Feringa, Nobel per la chimica nel 2016 – e, tra non molti anni, avremo i nano robot iniettabili”.
Per ora, forse, ci consola il fatto che il programma di IA Chat GPT,che ha risposto alla nostra prima domanda, non ci è parso poi cosi poco saggio. Che non sia il caso di mettersi umilmente maggiormente in ascolto per bilanciare le scelte, tra i tanti interessi che compongono e condizionano il servizio sanitario pubblico?
14 luglio 2023
Enrico Conte
Redazione di Trieste – de Il Pensiero Mediterraneo