Ricordo di Biagio Conte: “Ti posso chiamare fratello?”
Ho appena terminato la lettura del bellissimo libro che Alessandra Turrisi e Roberto Puglisi hanno recentemente dedicato a Biagio Conte: si intitola “Ti posso chiamare fratello?” ed è edito dalle Edizioni San Paolo.
Il volume ripercorre le tappe del cammino terreno del missionario laico palermitano che (come scrive l’arcivescovo di Palermo Corrado Lorefice nella Prefazione) ha avuto «il triplice dono di vivere da povero, di vivere con i poveri e di vivere per i poveri» (p. 8).
Biagio Conte, come scrivono gli autori, è stato davvero «un punto di riferimento per l’universo dei derelitti, un luogo di accoglienza per gli scartati della terra, un posto in cui la speranza non muore neppure per chi vive nella disperazione e nella solitudine, perché per tutti c’è una seconda possibilità, anche per coloro che vedono solo buio fitto all’orizzonte, che non si sentono amati da nessuno» (p. 14).
Il libro inizia dalla vocazione di Biagio, «una vocazione scoperta all’inizio degli anni Novanta, in una Palermo dilaniata dalla violenza mafiosa e oppressa dalle ingiustizie sociali» (p. 17). La vita di “un giovane come tanti”, di condizione agiata, destinato forse a diventare un facoltoso imprenditore, ha una svolta quando il contatto con la realtà lo turba e lo sgomenta; come raccontò poi egli stesso, «Il divertimento, la moda, gli oggetti di marca, il consumismo nel quale ero immerso, mi allontanavano dalla verità; ma dentro di me c’era come un vuoto, un campanello d’allarme: ero pieno esteriormente e materialmente, ma dentro avevo un vuoto da colmare e al tempo stesso sentivo il bisogno di colmarlo».
A 23 anni, nel 1986, il disagio esistenziale del giovane sfocia in uno stato depressivo e nella ricerca di solitudine interiore; inizia poi a “fuggire” da Palermo, recandosi dapprima a Firenze: ma «non basta cambiare città, le ingiustizie sociali e l’indifferenza dilagano ovunque» (p. 20).
Tornato deluso a casa, Biagio comprende che non può più rimanere uno spettatore passivo e inizia ad agire: scrive con i pennarelli su un cartellone una denuncia dei problemi più gravi della società e «come un uomo-sandwich attraversa le strade di Palermo, si piazza davanti alla sede del più antico quotidiano della città, il “Giornale di Sicilia”, e davanti ai palazzi di governo. Mostra agli scettici passanti che l’indifferenza può distruggere la società e che c’è qualcuno che è disposto a gridarlo a tutti, con il sacrificio della propria vita, anche se verrà deriso e tacciato di follia» (p. 21).
La scelta esistenziale definitiva matura un giorno, allorché – guardando il Crocifisso posto sulla porta della sua stanza nella casa di Aquino, una frazione di Monreale – sente in sé una voce che gli dice chiaramente: «Una società che lascia indietro i più poveri, gli emarginati, gli ammalati, i disabili, gli anziani, gli immigrati non può essere giusta» (p. 21).
Da qui la decisione definitiva: l’abbandono della sua casa e della sua famiglia (il 5 maggio 1990, all’età di 26 anni), l’inizio di una vita errabonda, a contatto con la natura: «Nessuna meta, nessuna bussola, nessun bagaglio, solo un’immersione nella natura, sulle montagne dell’interno della Sicilia, cercando di liberare la mente, fermandosi a osservare ogni filo d’erba e ogni insetto, volgendo gli occhi verso la luna e le stelle. Un’esperienza estrema di sopravvivenza» (p. 23).
Dopo alcuni mesi trascorsi a fare il pastore nelle campagne di Raddusa, nel cuore della Sicilia, Biagio nel 1991 risale a piedi l’Italia, diretto ad Assisi; nel frattempo la sua famiglia, priva di notizie, si rivolge alla trasmissione televisiva “Chi l’ha visto?”, riuscendo infine a ritrovare il figlio e a riabbracciarlo al santuario di San Francesco di Paola.
Dopo la visita di Assisi, il progetto di Biagio è ormai chiarissimo: «abbandonerò tutto […] e vivrò per gli emarginati con il loro dolore e la loro sofferenza» (p. 39).
Il capitolo 2, “L’Africa è a Palermo”, descrive la decisione di Biagio di restare nella sua città natale, dedicandosi però totalmente ai suoi “fratelli ultimi”; come raccontava egli stesso, «Gesù ha voluto che la Missione nascesse proprio nelle strade di Palermo, partendo dalla Stazione centrale tra i vagoni e le sale d’aspetto, angoli di strada, marciapiedi, panchine dove tanti fratelli dormivano e passavano intere giornate tra l’indifferenza più assoluta. La società li chiama barboni, vagabondi, giovani sbandati, alcolisti, ex detenuti, separati, prostitute, profughi, immigrati, ma dal momento che ho sentito il coraggio di incontrarli e abbracciarli, li ho chiamati fratelli e sorelle, senza farli sentire inferiori o diversi da noi tutti» (p. 42).
Ed ecco Biagio che a questi sventurati porta thermos con latte e thè caldo, panini e coperte; ecco l’incontro con don Pino Vitrano, un salesiano destinato a diventare suo fedele collaboratore; ecco l’individuazione di una prima struttura in cui ospitare i disagiati, prima in alcuni locali vicino alla stazione: «le Ferrovie offrono alcuni locali accanto alla biglietteria, pochi metri quadrati in via Rosario Gregorio, con alcuni letti a castello, un bagno e una doccia» (p. 45).
Intanto, nel 1993, Biagio si reca sul Monte Grifone, ove sorge l’Oasi della Speranza, una piccola chiesa che domina la città; in questo “rifugio privilegiato” indossa il saio, i sandali e il crocifisso. Nasce qui l’immagine quasi “iconica” con cui conosciamo Fratel Biagio: con un saio verde, gli occhi azzurri luminosi, la barba sempre più bianca e ieratica.
Nel cap. 3 si narra la nascita della prima sede della Missione di Biagio Conte in via Archirafi, presso il vecchio disinfettatoio comunale, abbandonato da oltre vent’anni. Attraverso un difficile iter burocratico, con pressanti richieste alle autorità locali, tra rimpalli di competenze e responsabilità, con alcuni digiuni di protesta per sollecitare risposte, Biagio Conte il 29 maggio 1993 ottiene infine l’autorizzazione a creare in via Archirafi la sua struttura assistenziale. In breve tempo «quel luogo abbandonato da decenni diventa improvvisamente un cantiere della Provvidenza: carriole, cemento, ponteggi, mattoni cominciano a trasformare un rudere in quello che diventerà un “hotel a quattro stelle” per uomini fino a quel momento condannati alla disperazione» (p. 54).
Viene poi raccontato l’incontro fra Biagio e don Pino Puglisi, avvenuto a Palazzo delle Aquile ove entrambi erano andati a chiedere qualcosa al Comune di Palermo: «si conoscono, si abbracciano, si promettono aiuto reciproco. Una pallottola interrompe l’inizio di un rapporto di collaborazione o forse costituisce il testimone di un’ideale staffetta dal percorso imprevedibile e insondabile» (p. 56).
La Missione cresce continuamente: «le camerate di via Archirafi si riempiono di letti e materassi, uomini abituati a tremare sotto ai fogli di giornale negli anfratti dei palazzi trovano un tetto e un pasto caldo. La “ronda della carità”, quel furgone carico di bevande, coperte e sorrisi, ogni notte, dalle 21 all’alba, setaccia le strade, le piazze e i vicoli della città, nella speranza che le persone che hanno fatto della strada la propria “casa” decidano di lasciare le loro carcasse di auto e i loro alloggi di fortuna per lasciarsi accogliere in Missione» (p. 57).
Le persone accolte si danno da fare: diventano muratori, carpentieri, giardinieri, cuochi, vivandieri, calzolai, ebanisti, meccanici, riscoprendo e valorizzando (grazie a Fratel Biagio) attitudini nascoste o dimenticate.
La Missione prende il nome di “Missione di Speranza e Carità”; suo simbolo diventa un piccolo quadro ispirato a un passo del profeta Isaia, che mostra un vecchio albero tagliato da cui nasce un germoglio, che rappresenta la speranza.
Come si narra nel cap. 4, nasce nel 1998 la sede femminile in via Garibaldi, in un edificio abbandonato annesso al convento di Santa Caterina: anche in questo caso occorrono pressioni, insistenze, proteste, appoggi (come quello della Caritas diocesana), ma infine Biagio ottiene la nuova struttura, che dal 1999 accoglie ragazze-madri abbandonate dalla famiglia, giovani donne migranti sbarcate da sole o con bambini piccoli e ragazze costrette a prostituirsi. Qui le donne trovano sorella Mattia, sorella Alessandra e poi sorella Lucia, missionarie pronte a prendersi cura di loro e ad accompagnarle nel loro cammino di rinascita alla vita e alla dignità.
Quando poi, nei primi anni del nuovo secolo, esplode l’emergenza legata all’arrivo crescente di migranti sulle coste della Sicilia, Biagio individua una nuova struttura abbandonata, in via Decollati (presso il fiume Oreto), per gestire meglio il sovraffollamento della Missione (cfr. cap. 5).
Anche in questo caso non mancano pastoie burocratiche, ostacoli, perplessità, polemiche (anzitutto quella sui beni demaniali non utilizzati e colpevolmente abbandonati). In un articolo sul “Giornale di Sicilia” del 13 marzo 2002, il prof. Giuseppe Savagnone (che fu mio insigne collega di corso al Liceo Umberto I di Palermo) riflette lucidamente sulle pastoie burocratiche che ostacolano ogni progresso in questa terra: «una palude dove ogni passo costa fatiche inenarrabili e da cui è raro che si esca avendo ottenuto qualche risultato» (p. 79).
Nella nuova sede di via Decollati convivono ospiti di religioni e culture diverse, cementando fra loro una solidarietà profonda: «scappano spesso da guerre e conflitti nei loro Paesi e cercano di ottenere asilo politico. Trovano un letto, un pasto caldo, vivono per giorni, mesi, anni, fino al recupero di una stabilità di vita, trovano lavoro in Sicilia, oppure partono per il Nord» (p. 80).
Nel 2010, in uno dei locali della Missione, «viene inaugurata una grandissima mensa finanziata da Enel Cuore, su una superficie di 600 metri quadrati, con 250 posti a sedere, capace di fornire 1200 pasti al giorno (400 a colazione, 400 a pranzo e 400 a cena) con self-service» (p. 81).
Il libro nel cap. 6 descrive altre ulteriori sedi destinate alla Missione (un appezzamento di terreno a Tagliavia vicino Corleone, l’ex residenza storica Villa Florio nel quartiere san Lorenzo, un terreno a Scopello); nel cap. 7 si raccontano poi le “vocazioni sacerdotali nate in missione”.
Il cap. 8, intitolato “I segni”, sottolinea come la vocazione alla povertà di Biagio sia rimasta sempre assoluta e incrollabile: «Periodicamente, per oltre trent’anni, quest’uomo dagli occhi azzurri, penetranti, e con la barba lunga, si allontana dalla Missione per digiunare, per settimane, nutrendosi solo di preghiera ed eucaristia, dormendo sui cartoni sotto al colonnato delle Poste centrali di Palermo o nel portico della Cattedrale, davanti agli edifici abbandonati in cui lui scorge profeticamente i luoghi dell’accoglienza dei più poveri, su un marciapiede di Brancaccio davanti alla casa del beato don Pino Puglisi o in una grotta nascosta sulle colline che circondano la città. Si priva del cibo per lanciare messaggi forti, fare penitenza per comunicare la necessità di amare di più, di amare tutti, soprattutto i fragili e gli oppressi» (pp. 95-96).
Dopo il 2010 fratel Biagio si muove con difficoltà ed è costretto sulla sedia a rotelle: ma nel 2013, in occasione di un viaggio a Lourdes, dopo un bagno nelle piscine del santuario, guarisce e torna a camminare senza stampelle. Il “miracolo”, che apparve tale anche ai medici che seguivano Biagio, non fu mai da lui “sbandierato” ed ostentato, poiché gli parve solo finalizzato a spronarlo maggiormente nella sua missione; infatti, come raccontò egli stesso, «subito dopo essermi immerso ho avvertito come un fuoco dentro che mi ha permesso di tornare non a camminare, ma a correre verso le tante persone che me lo chiedono» (p. 99).
Non mancano altri momenti difficili nell’esperienza missionaria di Biagio; più volte è sul punto di alzare bandiera bianca, dopo aver lanciato duri atti di accusa contro la sua città “dal cuore indurito”: spesso vengono meno donazioni, viveri e denaro, mentre invece arrivano puntualmente bollette da pagare e minacce di sospendere l’erogazione dei servizi essenziali.
Gli autori descrivono efficacemente questi momenti difficili, ricordando i pellegrinaggi di Biagio in giro per la Sicilia, i frequenti appelli a non dimenticare i poveri, le proposte operative per valorizzare l’immigrazione come risorsa.
Nel 2015, in occasione del Giubileo indetto da papa Francesco, il cardinale Paolo Romeo individua nella Missione “Speranza e Carità” una delle quattro porte sante da aprire nella diocesi di Palermo; la porta viene aperta – nella chiesa in costruzione nella sede di via Decollati – la vigilia di Natale, alla presenza del nuovo cardinale Corrado Lorefice, che intende trascorrere la ricorrenza con i più poveri. La “cattedrale dei poveri” viene poi consacrata alla vigilia dell’Epifania 2017.
Altre difficoltà vengono affrontate in seguito da Biagio Conte: viene raccontata ad esempio la battaglia per la ex fonderia Basile, i cui capannoni nel 2016 diventano inutilizzabili perché assegnati a una ditta di Partinico per fini commerciali. In un momento particolarmente drammatico, Biagio Conte si trova a dover pagare 417.381 euro in dieci giorni; e solo in occasione di un lungo pellegrinaggio alla volta di Roma il frate laico riceve la lieta notizia della cancellazione dei debiti. L’incontro con papa Francesco il 20 luglio 2016 è il coronamento di questa fase così problematica.
Negli ultimi anni Biagio continua a lottare tenacemente contro l’indifferenza e l’ingiustizia (cfr. cap. 9): quando l’ennesima vittima muore per le strade di Palermo il giorno di Capodanno del 2018, a pochi passi dalle strade illuminate a festa, Biagio ancora una volta «prende un paio di coperte, la Bibbia, il breviario, raccoglie per strada un bel cartone robusto e sistema il suo giaciglio di protesta sotto ai portici delle Poste centrali di via Roma» (p. 127); e, quasi per magia, «il colonnato delle Poste centrali si trasforma per giorni in un luogo di pellegrinaggio per condividere il grido di Biagio, per solidarizzare con quell’uomo nel quale adesso tutti, anche i vertici istituzionali, riconoscono una testimonianza profetica» (p. 130).
Solo in seguito a un pressante appello del Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, il 19 gennaio Biagio interrompe il digiuno e torna alla Missione.
Un’ulteriore tappa importante è il pellegrinaggio in Europa nel 2018, che coincide con il varo del “decreto sicurezza” del ministro Salvini; in quell’occasione dalla parrocchia di Montélimar, a sud di Lione, Biagio lancia un appello accorato: «Sento di fare un appello alla Francia, all’Europa e al mondo intero affinché si comprenda che ogni uomo e ogni donna sono da rispettare, aiutare ed accogliere, anche se di nazione diversa, religione diversa, e anche chi non crede» (p. 138).
Attraversati poi Spagna e Portogallo, Biagio approda in Marocco, sulle orme di San Francesco, sperimentando l’accoglienza e la solidarietà della gente del luogo.
Il 15 settembre 2018 papa Francesco visita la Missione e vi pranza: il menu è «realizzato con prodotti a chilometro zero, coltivati proprio dagli ospiti della Missione nei campi seminati a grano e ortaggi» (p. 146). Il pontefice «ascolta, sorride, riflette», in un clima di forte emozione; alla fine abbraccia i poveri e si fa abbracciare e all’uscita dice al cardinale Lorefice che la Missione «è un segno formidabile» (p. 151).
Altre battaglie attendono però Biagio: digiuna per protestare contro l’espulsione di Paul, ospite ghanese e volontario della Missione da anni ma raggiunto da un decreto di espulsione dall’Italia; rischiando una denunzia per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, Biagio lancia l’ennesimo appello a tutte le istituzioni: «Non lo ammanettate! Non lo arrestate! Non lo rimpatriate! Non è un delinquente. È un disperato. In 10 anni di permanenza nell’Italia non ha mai commesso un reato. È una persona giusta. Non potete condannare un giusto» (p. 154). Dopo alcuni mesi arriva il via libera alla permanenza di Paul in Italia.
Ancora una volta Biagio, provato dall’ingiusto trattamento subìto da Paul, si fa migrante e trascorre l’estate 2019 in cammino fra monti e valli d’Europa, percorrendo 1000 km a piedi in 65 giorni.
La tappa più importante è al Parlamento europeo di Strasburgo, ove il 16 settembre 2019 viene accolto dal Presidente David Sassoli e può consegnare una lettera-appello all’Europa, che mira a ricordarle i valori di accoglienza, ospitalità e solidarietà che dovrebbero essere radicati nelle coscienze.
La pandemia del 2020 si ripercuote drammaticamente sulla vita della Missione: non si può più accogliere nessuno per i rischi del contagio: paradossalmente, «la Missione di Speranza e Carità, nata per spalancare i cancelli a tutti coloro che ne abbiano maggiormente bisogno, è costretta a sbarrare le porte e a negare l’ospitalità di altri senzatetto» (p. 164). Con il Covid, i problemi sociali si sono acuiti: «i missionari hanno constatato la crescita esponenziale dei casi di persone con problemi di salute mentale e di dipendenza dalle droghe e dall’alcol, costrette a vivere in strada» (p. 165).
Nel settembre 2020 il virus dilaga e la Regione istituisce la zona rossa in tutte le sedi della Missione; in quel momento Biagio sta compiendo il suo ultimo pellegrinaggio, in Inghilterra e Scozia: per fortuna però l’emergenza viene superata velocemente e la zona rossa è revocata dopo 22 giorni.
L’esperienza della pandemia spinge Biagio a un’intensa riflessione: «Grazie al virus, si scopre di essere tutti uguali. Sembravamo popoli diversi, ma ci stiamo rendendo conto di avere tutti un cuore, una mente, gli occhi, il naso, la bocca, le orecchie, le mani, i piedi. Può cambiare il colore, la cultura, la religione, il cuore batte lo stesso, il sangue scorre uguale nelle vene, anche l’aria che respiriamo è la stessa; ecco si scopre che siamo tutti uguali» (p. 171, in data 6/7/2020).
Nel cap. 10 si rievoca il doloroso momento della morte di Biagio Conte, avvenuta il 12 gennaio 2023 per una grave malattia.
Il dottor Nicolò Borsellino, oncologo all’ospedale Buccheri La Ferla, racconta così gli ultimi mesi del frate laico: «Nella sua malattia, privatamente, conferma di essere quel miracolo che è noto a tutti. Biagio si dimostra un leone dall’animo gentile. Non ha mai avuto preoccupazioni per sé, ma per i suoi compagni di viaggio, per gli ultimi, per i poveri» (p. 188); e quando Borsellino comunica al frate laico la diagnosi infausta, non coglie in lui né smarrimento né violente reazioni emotive, ma solo il desiderio di pregare e la preoccupazione per i “suoi” poveri, unita però alla fede: «so che Gesù non li abbandonerà mai» (p. 188).
I funerali del 17 gennaio, nella Cattedrale di Palermo stracolma di gente, sono il momento più alto del ringraziamento della città per quest’uomo straordinario che “ha incarnato il Vangelo”. A questo proposito, si può ricordare che il titolo del libro (“Ti posso chiamare fratello?”) ricorda le parole che don Pino Vitrano, compagno di viaggio di Biagio nella vita missionaria, pronunciò al funerale.
Oggi la tomba di Biagio Conte è incastonata in un angolo della chiesa di via Decollati.
Il cap. 11 dà la parola ad alcuni testimoni: la famiglia di Biagio, don Pino Vitrano, le “sorelle in Cristo” (sorella Mattia, sorella Alessandra, sorella Lucia, sorella Silvana), il medico Francesco Russo, una coppia di coniugi; ogni testimonianza contribuisce ad approfondire la conoscenza dell’opera illuminata di Biagio Conte e consolida ulteriormente l’ammirazione nei suoi confronti.
L’ultimo capitolo, il 12°, si intitola “La sua eredità ci interpella” e si conclude con una sorta di doveroso elogio funebre di Biagio: «Ha fatto della sua scelta di povertà un dono a chi è povero senza averlo scelto, nello spirito della condivisione e della fraternità. Fratel Biagio ha vissuto nella consapevolezza che solo quando la povertà non è un destino che ci schiaccia essa può essere valorizzata nel suo autentico significato di libertà interiore dalle cose. Una visione che lo rende un autentico rivoluzionario» (p. 231).
Come si sarà compreso da questa disamina del volume, Alessandra Turrisi e Roberto Puglisi, giornalisti affermati e ben noti nell’ambiente culturale palermitano, sono riusciti a presentare la storia di un personaggio straordinario con una scrittura chiara, coinvolgente e spesso emozionante.
In particolare, la ricostruzione biografica, attenta e minuziosa, è sempre collegata alla rappresentazione della sensibilità spirituale e umana di Biagio Conte. Basti un esempio: quando Biagio torna nella missione dopo il viaggio in Marocco, sorride raccontando la sua esperienza; gli autori allora lo descrivono così: «scoppia in una risata contagiosa, di quelle tipiche dei bambini che sanno gioire di piccole cose essenziali, di un campo di fiori colorati, di una coccinella che si poggia su una spalla, di una fonte d’acqua fresca dopo quaranta chilometri di arsura» (p. 142). Qui la narrazione biografica si fa poesia, sfugge a ogni aridità cronachistica e si immedesima potentemente nell’animo del “personaggio” ritratto.
La documentazione è accurata, con la scrupolosa citazione delle fonti, a testimonianza di un faticoso e impegnativo lavoro di ricerca.
Non meno felice appare la scelta di affidare la Prefazione all’arcivescovo di Palermo, mons. Corrado Lorefice, che rievoca efficacemente il suo primo incontro con Biagio Conte: «Venendo a Palermo come vescovo ho subito incontrato lo sguardo di fratel Biagio, o meglio, i nostri sguardi si sono immediatamente intercettati, si sono parlati, e si sono detti: “Ci impegneremo insieme per una Chiesa povera e dei poveri, aiuteremo Papa Francesco a realizzare il volto di una Chiesa sempre più somigliante al suo Maestro e Signore, al suo Sposo, il Cristo, il Messia povero e dei poveri. Saremo missionari di carità, di speranza e di pace; di dialogo e di incontro tra culture e fedi diverse, costruttori di una città accogliente e fraterna”».
In definitiva, un libro da leggere: e dovrebbero leggerlo non solo i palermitani, che in Biagio Conte hanno avuto un altro dei tanti “eroi” che non sempre hanno meritato di avere, ma tutte le persone che – credenti o no – riescono a comprendere la fortuna di essere state contemporanee di quell’uomo straordinario, cui manca solo la nomina ufficiale per essere definito senza ombra di smentita “un santo”.
E, come disse Einstein per Gandhi, «può darsi che le generazioni di un futuro lontano stenteranno a credere che un uomo tale sia veramente esistito e abbia camminato sulla terra».
Mario Pintacuda
Nato a Genova il 2 marzo 1954. Ha frequentato il Liceo classico “Andrea D’Oria” e si è laureato in Lettere classiche con 110/110 e lode all’Università di Genova. Ha insegnato nei Licei dal 1979 al 2019. Ha pubblicato numerosi testi scolastici, adottati in tutto il territorio nazionale; svolge attività critica e saggistica. E’ sposato con Silvana Ponte e ha un figlio, Andrea, nato a Palermo nel 2005.Visualizza tutti gli articoli di Mario Pintacuda.