Ricordi: la muta di Andrano e il venditore di fortuna
di Rocco Boccadamo
In determinati momenti, per mera sorte umana non personale ma comune, mi capita di sentirmi fiaccato, nel fisico e nella mente, dai continui gemiti provenienti da ogni dove e a tutte le ore, attinenti alla difficile e triste congiuntura economico-finanziaria.
Resisto, però, nient’affatto domo, nonostante che i calendari alle mie spalle siano ben più voluminosi del divenire che mi resta da percorrere.
Cosicché, di tanto in tanto, passo d’istinto a puntare lo sguardo verso l’orizzonte, palcoscenico naturale che, crisi o non crisi, rimane comunque dischiuso e disponibile, una meta per esercizi e obiettivi, sul piano della positività, i più svariati, che solo a individuarli ed elaborarli si rivelano salutari. Sembrerà incredibile, questo moto in avanti parte dal richiamo del passato, da immagini antiche e compiti lontani.
Al riguardo, so bene che, in giro, v’è chi non è indulgente con il mondo dei ricordi. Io, invece, uso, da sempre, praticare un intenso culto della materia: piccoli o importanti, li rievoco continuamente, intessendo, finanche, dialoghi con loro, per poi, di volta in volta, serbarli preziosamente in una sorta di tabernacolo espressamente riservato.
Con ciò, mi sento, in certo qual modo, titolare di un privilegio e, all’indirizzo degli scettici non praticanti – credo che il pensiero cada proprio a puntino, nel corrente periodo di penuria di risorse – mi limito appena a osservare che i ricordi rappresentano, evidentemente non solo per me, l’unico bene di cui si può venire in possesso e disporre, assolutamente senza alcun costo.
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Restando sul tema dei ricordi, in rapporto alla mia classe anagrafica, è fondamentale, indicativo e caro l’intervallo intorno al 1950.
A tal epoca, sono difatti riconducibili i tasselli più saldi, reggenti, cioè, cornici di fatti, volti, voci, suoni e sensazioni che hanno lasciato tracce profonde e incancellabili.
A portata di mano e intorno, si aveva poco o niente, allora, vigevano condizioni esistenziali generalmente spartane e risicate, fra i bisogni avevano voce e contavano esclusivamente quelli essenziali, in seno alle comunità, specie nei piccoli paesi, si vendeva e si comprava ben poco, se non addirittura nulla.
Un ambulante, proveniente da un paese vicino a cavallo di una sgangherata bicicletta, proponeva alla gente di ritirare “capiddri e pezze”, ossia i ciuffetti di lunghi capelli frutto dell’auto pettinatura delle donne che, con pazienza e costanza, erano custoditi dietro qualche sassolino dei muretti a secco attigui alle abitazioni, oppure stoffette o parti minute e scartate di tessuti o indumenti di lana (prodotti che, attraverso intermediari, erano poi conferiti a fabbricanti di parrucche o ai cenciaioli della zona di Prato), offrendo, in contropartita, qualcosa a scelta fra pettini, pettinini, aghi, spagnolette di cotone, fermacapelli.
Un altro, a cassetta di un calesse, con l’annuncio “Ci tene murga, a canciamu cu lu sapone”, offriva di barattare i fondi inutilizzabili dell’olio di oliva consumato in casa con qualche pezzo di sapone da bucato (vengono a mente due marche, Asborno e Scala, forse nel frattempo cessate).
Nicola, che, di mestiere principale, faceva il venditore di noccioline, anch’egli servendosi di una bicicletta con due grosse gerle appese al manubrio, annunciandosi con la formula “Ove, ci tene l’ove”, acquistava dalle famiglie del paese le uova che avanzavano rispetto al consumo, considerato di lusso, durante i pasti domestici.
Estranea a qualsiasi approccio o atto commerciale, si materializzava, ogni tanto, in Marittima, una figura di donna di mezz’età, vestita alla buona, originaria della vicina località di Andrano, dove occupava una misera stanza, dall’aspetto che, adesso, fa venire in mente S. Teresa di Calcutta.
Lei girava per le vie, sfiorando con discrezione un uscio dopo l’altro, per chiedere l’elemosina, sparute lire o unicamente qualche avanzo di cibi e, per la verità, nessuno – quantunque per suo conto povero – si tirava indietro.
La donna, forestiera, era conosciuta dall’intera cittadinanza non con un nome di battesimo, ma semplicemente come la “muta”, giacché era priva di parola dalla nascita.
Con minore frequenza, ma senza interruzioni, giungeva, infine, al paese, un personaggio, un viandante, speciale e simpatico, per tutti il venditore di fortuna.
La fortuna è aleatoria, va da sé, e, dunque, non si può né comprare né vendere, nemmeno da parte di un papa o imperatore che dir si voglia. Eppure, c’è stato un tempo felice, diciamo la mia prima parentesi marittimese sino al diciannovesimo calendario, in cui la fortuna si vendeva per la strada e ognuno aveva agio di acquistarla.
Costava appena cinque lire, era racchiusa nel cassettino di una gabbietta, con dentro un pappagallino verde ammaestrato, portata a tracolla, sulla pancia, da uno stravagante vagabondo.
A contatto del Signore della fortuna, si formava presto il capannello, gente d’ogni età e condizione; per sole cinque lire, il futuro non aveva più misteri e si rivelava miracolosamente scritto su un bigliettino colorato che il pappagallo, diligentemente, sceglieva col becco fra i tanti in bell’ordine, dal cassettino della gabbia.
Ricordi e fortuna: fanno anch’essi parte della vita.