Ricordare per rivivere: bozzetti di storie dalla culla
di Rocco Boccadamo
Doverosa premessa. Come sono solito fare ogni volta che scrivo, ho brevemente pensato, in semplice autonomia da comune osservatore di strada e narrastorie, al titolo da attribuire alle presenti note. Sennonché, immediatamente dopo, mi sono accorto che la prima parte del cappello s’identifica niente poco di meno che con un’espressione del grande maestro della psicanalisi Sigmund Freud, recitante, esattamente, “il ricordare è un rivivere”. Non me ne voglia, l’esimio personaggio, per l’involontaria e inconsapevole invasione di campo.
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Sin dalla tenera età, vado avvertendo d’essere sfiorato da una sorta di speciale buona ventura, cioè a dire di sentirmi, in senso vasto, un tutt’uno con il mio paese di nascita, i suoi luoghi, la sua storia, fatta di piccole e svariate vicende, e, soprattutto, con i volti e le figure della sua gente, che, a onore del vero, ho sempre considerato alla stregua di mia seconda famiglia, allargata, a fianco del nucleo di mera appartenenza per ragioni di sangue, con correlato ovvio primario legame affettivo.
Così che, negli anni – ormai ben oltre un arco di quattro lustri – della mia “seconda esistenza” sotto l’aspetto dell’impegno lavorativo e degli interessi d’elezione, mi è stato, a più riprese, dato d’evocare situazioni e spaccati di ricordi, riconducibili alla minuscola località natia e, in maggior dettaglio, una lunga sequenza di vicende e di determinati compaesani, con le loro caratteristiche, abitudini, doti, virtù e vezzi. In questo odierno caso, lo spunto ispiratore mi è casualmente arrivato dalla necessità di eseguire una riparazione al timone della mia barchetta a vela, incombenza che mi ha condotto a una bottega artigiana posta alla periferia del paese, in direzione di Capo Lupo.
E però, avanti di raggiungere tale destinazione e lasciar espletare il lavoretto prima accennato, ho dovuto attraversare una zona del paese, a cominciare dal Largo Campurra, ora denominato Piazza della Vittoria, e, quindi, proseguendo più avanti verso la meta. In detto percorso, idealmente uscio per uscio, quasi fossero ritagli di una pellicola di celluloide, si sono affastellate numerose, da sembrare interminabili, scene, che, sebbene in maggioranza ormai datate, mi si sono snodate davanti come se ancora intrise di vitalità e attualità. A cominciare dalla menzionata “Campurra” di per sé, nel senso di slargo, il maggiore dell’intero paese, una volta delimitata, a nord, dalla cappella di S. Giuseppe, recante al centro un pozzo animato e arricchito sul fondo da risorse d’acqua sorgiva, declinante a scivolo verso sud est, sì da consentire il naturale deflusso indotto e guidato delle acque piovane in confluenza di un’adiacente voragine, conosciuta, in dialetto, con il sintetico appellativo di “ora”. E mi sono sfilate alla vista le serie di greggi ovine che, sortendo di buon mattino dai rustici rifugi al coperto e dirette al pascolo, proprio sul prato della “Campurra”, avevano agio di prendere confidenza con i primi assaggi di erbe.
Transitavano, tali armenti, senza lasciare tracce o postumi di odori, giacché, forse, a quei tempi, le stesse campagne e, quindi, le distese di pascoli, non conoscendo né tantomeno subendo processi d’inquinamento, emanavano effluvi genuini e gradevoli. Rocco, Saverio, Tommaso, i nomi di alcuni dei pastori di pecore di quelle stagioni lontane. Ancora, il largo “Campurra”, in mancanza, nel paese, di un campo sportivo, era utilizzato dai ragazzi e giovani per partite di calcio alla buona, con, per rendere l’idea, due coppie di pietre a segnare le porte. Vi giocavano parimenti, reminiscenza straordinaria, magari fronteggiandosi con squadre di marittimesi, gruppi dei soldati polacchi che, intorno alla fine del secondo conflitto mondiale, furono di stanza, per un breve periodo, a Marittima. E, affacciato imponente sulla Campurra (c’è ancora adesso, ma vuoto), quasi a voler vigilare bonariamente sulle sottostanti azioni di vita e di attività quotidiane, il palazzo cosiddetto dell’arciprete vecchio, già abitato, precisamente, dal medesimo prelato e da una nobildonna sua nipote.
Attigua, l’abitazione della “Richetta ‘e l’ortu ‘u puzzu” (Enrichetta, proprietaria dell’orto con il pozzo/voragine), maritata con Vitale, quattro figlie femmine. Appena più giù, il vicolo dove aveva casa, fra gli altri, una vecchia parente di mio zio Guglielmo Bianchi, anziana che, nell’anno 1945, rammento con precisione, fu prescelta, come segno di rispetto, per condurre al battesimo in chiesa, tenendoli fra le braccia, due neonati gemelli del mio ricordato zio, piccoli, i quali, purtroppo, in breve volgere di tempo, se ne ritornarono in cielo. Oltre, la casa di Rosaria ‘u tatameu, in cui, in una sera stellata, la figlia Concettina, rimasta gravida antecedentemente al matrimonio, diede alla luce il suo primogenito, con gli inevitabili lamenti da parto e mamma Rosaria, saggiamente, a consolarla, esortandola allo stesso tempo a darsi pace, giacché, le faceva osservare, ciò che stava vivendo l’aveva in fondo voluto tutto da sé. Quindi, la residenza di una famiglia portante il mio cognome, cugini di primo grado di mio nonno Cosimo, e la casa di un altro nucleo, dal soprannome “Pisca”, nel cui ambito, una delle figlie, Peppina, era stata temporaneamente la “zita” del mio zio materno Toto. Adiacente, il piccolo spazio con il monumento ai caduti e, dirimpetto, i palazzotti di donna Uccia Russi e della famiglia Spagnolo, il secondo contraddistinto da un caratteristico aggraziato arco, menante in un portico e in un cortile padronale. A succedersi, i locali terranei, ormai da lungo tempo chiusi, noti come “u trappitu ‘a nutara” (frantoio oleario e palmento per la trasformazione dell’uva) e, fra i restanti diversi fabbricati, i due stabili a piano terra e primo piano occupati dalle famiglie dei cugini Frassanito.
A dividere detti immobili, due vicoletti, il primo dei quali corrispondente alla ex dimora del mio prozio materno Michele, pure lui Frassanito e parente dei già menzionati, adesso di proprietà e svolgente funzione di ritiro, per riposo, relax e bagni marini all’Acquaviva e Porticelli, della nota artista televisiva e teatrale, oltre che scrittrice, Serena Dandini. I Frassanito cugini, in origine, espletavano il mestiere di muratore, al pari di altri parenti col medesimo cognome (Giacomo, Luigi, Cosimo, Calogero, Donato). In un dato momento, ritennero però opportuno di mutare la loro attività, accostandosi, sino a divenire esperti e specializzati, al lavoro di costruzione, soprattutto, ma anche di riparazione, di barche in legno (gozzi piccoli, medi e grandi e lancette) prevalentemente adibite alla pesca, ma utilizzate pure, man mano che prendevano piede il turismo e le attività hobbistiche, per fini di svago e di diporto.
I medesimi Frassanito, specie il nucleo famigliare di Vitale, agli inizi, poi di Salvatore, suo figlio, e di Vitale, Nino e Antonio, a loro volta discendenti di Salvatore, diedero gradualmente luogo a un interessante sviluppo della nuova attività, arrivando, almeno a livello artigianale e di correlata apprezzata qualità dei manufatti, a collocarsi fra i primi del Salento, spaziando, quanto a campo di azione, da Porto Cesareo, a Gallipoli, Leuca, Tricase, Castro (la totalità dei battelli o schifi dei pescatori locali era opera loro), Otranto, S. Cataldo. Purtroppo, con l’avanzare degli anni e il cambiamento di usi e di scelte, ad oggi, è ancora attivo unicamente il più giovane dei varcaluri, Antonio, e, addirittura, avendo il medesimo unicamente figlie femmine, v’è da ritenere che quando egli deciderà di appendere l’ascia al muro, avrà inevitabilmente termine una bella tradizione, anzi una saga, di un mestiere di qualità, dignitoso, che ha accompagnato svariate generazioni di addetti alle attività marittime e pescherecce o, semplicemente, di appassionati di barche, lenze e ami.
Come riferimento agli amici Frassanito in questione, è rimasto un fondo, detto “Schettu” (boschetto), piantumato a querce secolari, già appartenente a un benestante del paese, don Eugenio Russi, un sito dove, anticamente, aveva sede anche un frantoio sotterraneo, poi crollato e finito in abbandono e distruzione. Riguardo al boschetto di che trattasi, conservo il dolce e nostalgico ricordo delle lunghe parentesi di svago e gioco che, ogni domenica mattina, trascorrevo lì con gli amici, dopo aver partecipato, non a caso bensì appositamente per restare poi libero, alla prima Messa presso il santuario della Madonna di Costantinopoli. Ritornando per un attimo ai compaesani Frassanito, prima muratori e poi costruttori di barche, tengo a rimarcare due particolari, in apparenza secondari, ma, a loro modo, indicativi. Della seconda famiglia di cugini (a capo, Mosè), facevano parte due figli maschi, Vitale e Tommaso, e due femmine, Ttetta (Concetta) e Damiana.
Anche Tommaso, in proprio, costruiva gozzi e lancette in legno e, adesso che lui non esiste più, il segreto del mestiere è custodito da suo figlio Vitale, ufficialmente docente di matematica e fisica, ma capace di realizzate barche, come, saltuariamente, in effetti, fa. Delle sorelle Frassanito, invece, mi è rimasta impressa l’attività svolta dalla più grande, Ttetta, fino a quando non andò in sposa nella vicina località di Andrano (non so se ella sia ancora viva). Si occupava, infatti, di un lavoro normalmente insolito per una donna, ovvero faceva la calzolaia. A esercitare tale mestiere, nel paesello c’erano già i mesci Tore, Leriu e Roccu, tuttavia pure Ttetta operava nel settore. A voler essere precisi, non realizzava calzature di pelle e cuoio, bensì, soprattutto, accessori fatti di materiali meno pregiati, cioè gomma, stoffe e tele, per lo più in forma di sandali, ma a volte anche chiusi. Nella casa dei miei genitori, sei figli e un unico stipendio da impiegato comunale, non si navigava nell’oro, sicché, sovente, noi ragazzini indossavamo scarpe realizzate dalla Ttetta.
Leggermente oltre l’abitazione e la bottega dei barcaioli Frassanito più affermati, viveva un contadino del paese, tale Giuseppe, piccolo di statura e mingherlino, alla buona, cui era stato attribuito il nomignolo di Titeppe. Ovviamente povero, l’uomo, del resto come la grande maggioranza dei concittadini, e tuttavia, la domenica, probabilmente credendo di imitare qualcuno degli sparuti signori del paese (catena e orologio nel taschino del panciotto), aveva preso l’abitudine di presentarsi in piazza munito di una catena, da una parte fissata alla cintura e dall’altra infilata in una tasca dei pantaloni. Al che, gli amici, per celiare, si compiacevano con lui chiedendogli di mostrar loro l’orologio che si poteva supporre fosse legato a quella catena, ma, alla curiosità dei compaesani, il buon uomo, onesto e sincero, non poteva far altro che rispondere: “No, guardate che tengo appeso semplicemente un coltello”. Ed erano, ovviamente, risate allegre, senza ombra di malizia, sfottò o derisione.
Lì accanto, in un vicoletto dove dimorava la famiglia di Ferruccio Arseni, quattro figli fra cui due belle ragazze, all’interno di un giardinetto si apriva una modesta grotta sotterranea presentante, su tratti della volta, tracce di stalattiti e noi ragazzi, incuriositi, non esitavamo a cercare di calarci dentro tale cavità, invero servendoci di attrezzatture precarie se non pericolose. Il centro abitato, a quel punto, va esaurendosi, ma destano curiosità e rappresentano tappe di egualmente vividi e intensi ricordi, i vari fondi agricoli che si susseguono, taluni dalle denominazioni strane o stravaganti, altri collegati ai particolari personaggi degli antichi proprietari, così da aver lasciato un segno nella memoria del narrastorie. “Sciancateddri”, “Lamelogne”, “Cantine”, “Vigna ‘e l’api”, “Pizzeddri”, “Aria”, “Munti”, l’infilata di appellativi di questi fazzoletti di terra rossa, sui quali, da ragazzino, mi è capitato di familiarizzare, vuoi per la loro appartenenza a miei parenti, vuoi frequentandoli in compagnia di amici coetanei, figli dei proprietari.
Da notare, specialmente, che il terreno “Vigna ‘e l’api”, già di Vitale e Palma ‘u tunzi, adesso fa capo ed è condotto direttamente da un nipote, omonimo, un altro Vitale, il quale vi ha impiantato un moderno alveare dei preziosi insetti, un apiario utilizzato anche per finalità didattiche, a beneficio di scolaresche e, in genere, di persone interessate che vi convengono dal Salento e non solo. Ritornando sui passi iniziali dell’escursione agricola, in zona “Aria”, è situato uno spazioso locale, già agricolo e in una seconda fase destinato ad attività artigianali. In decenni distanti, vi s’infilavano e, all’esterno, si essiccavano sotto il sole, le foglie di tabacco e io stesso, scolaro e studente delle medie, mi sono più volte trovato lì seduto sul pavimento, per aiutare in tale fatica i miei zii Guglielmo e Nina.
Dopo, vi ebbe sede un’attività di confezionamento di capi e accessori tessili, per conto terzi. Da alcuni anni, infine, è il sito di lavoro di Simone Fersino, un bravo giovane, artigiano o, meglio dire, artista dalle mani duttili e dotato di estro e inventiva, che si è specializzato, attraverso una lunga e seria preparazione, nella lavorazione del ferro battuto e in abbinate produzioni di pregio, attività che gli reca ordini non soltanto da committenti salentini, di Lecce in particolar modo, ma anche di altre località italiane. Simone è, insomma, molto apprezzato per la sua opera; personalmente, in aggiunta a ciò, lo ammiro anche per aver rilevato una piccola vicina tenuta agricola, la “Vija”, con una costruzione padronale originariamente dipinta di un gradevole rosso e col tempo divenuta cadente, e aver fatto rinascere il tutto, con sacrifici e investimenti mirati, davvero a nuova vita.
E’ bello, per me, infine, annotare che Simone ha per nonna paterna la cara Maria, da bambina, ragazza e giovane, oltreché prima cugina, anche stretta amica di mia madre: a lei, che, tutte le volte che ci incontriamo, mi fa grande festa, voglio dedicare un saluto e un fervido augurio inusuale da queste righe, al pensiero, fra l’altro, a breve, compirà il suo centesimo compleanno.
Ecco, è proprio nella bottega di Simone che, come anticipato all’inizio delle presenti note, mi sono recato per la riparazione al timone della mia barchetta a vela. E, uscendomene a lavoro compiuto, non ho potuto fare a meno di volgere lo sguardo, come accade ogni volta che passo da quelle parti, su un lato del piazzale: precisamente, sullo scafo, tinteggiato di blu, di un’altra barca a vela, lì posto e conservato gelosamente da Simone, in memoria del fratello Andrea che, amante come pochi del mare e delle barche, appena ventenne, se ne andò per un’accidentale disgrazia mentre cercare di tutelare quel natante dagli effetti di una violenta burrasca.