Ricordando: quei rintocchi per Nino
di Rocco Boccadamo
In seno alla comunità marittimese, cioè a dire della località in cui sono nato, tutti o quasi i Frassanito (di cognome) erano, un tempo, dediti al mestiere di muratore.
Ciò, per una consuetudine tradizionale e generazionale, perpetuatasi, invero scemando gradualmente, sino agli anni sessanta/settanta dello scorso secolo; salvo che, deroga alla specifica situazione, intorno al terzo o quarto decennio del 1900, due determinati nuclei famigliari portanti tale cognome, con a capo, rispettivamente, Vitale e Mosè, si fossero decisi a mutare settore d’attività lavorativa, abbandonando cazzuola, calcina, conci, scalpello e martello e avviandosi a occuparsi della costruzione di barche di legno.
Fra i numerosi compaesani muratori, in dialetto mesci fabbricaturi, era compreso anche C., specializzato nel lavoro di scalpellino e, quindi, ideatore e realizzatore di cornici, decori, balaustre e usci in pietra leccese.
Era, egli, quasi coetaneo e, specialmente, stretto amico di mio padre; altro dettaglio di affinità, contatto e collegamento, uno dei suoi quattro figli, due ragazze le più grandi e poi due ragazzi, era della classe 1941 come me e, perciò, anche mio compagno di scuola e rientrante nel novero delle mie quotidiane frequentazioni.
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La notte del 5 febbraio 1949 scorreva serenamente ad accompagnare il sonno della mia famiglia, padre, madre e cinque figli (il sesto sarebbe venuto al mondo nel dicembre di quell’anno), riposo, assistito dal tepore di imbottite, coperte e zinzuliere, non essendo all’epoca conosciuti, almeno lì, gli impianti di riscaldamento.
Quando, all’improvviso e inaspettatamente, su quelle mura domestiche di Via Piave, si abbatté un finimondo, annunciato soltanto dall’insistito bussare sulle imposte del balcone della stanza da letto, azione abbinata alla frase ad alta voce: “E’ morto C., è morto C.!”.
Si accesero di colpo le lampadine di casa Boccadamo e, in un baleno, mio padre si rivestì e si diresse di corsa verso la dimora dell’amico appena mancato.
Quella parentesi notturna così travolta e stravolta finì col confondersi con la luce del giorno seguente, pure per noi rimasti in casa.
Il trambusto e la mobilitazione per la prematura dipartita di un compaesano padre di famiglia non ancora quarantenne coinvolsero tutta la popolazione di Marittima e gran parte degli abitanti della vicina Diso, di cui la moglie di C. era originaria.
A distanza di tre quarti di secolo, si pensi allo stesso coinvolgimento di un ragazzino di nemmeno otto anni, sodale del figlio di uno stretto amico di suo padre, allo spirito della sua partecipazione, unitamente alla scolaresca completa in grembiule nero, colletto bianco e fiocco azzurro, alle esequie, fra lo strazio dei parenti e la ressa ammutolita, creata, dentro e fuori dalla chiesa, dalla presenza dell’intera popolazione, davvero di alcune migliaia d’anime.
Proseguì il ciclo delle Elementari nella medesima classe, per me e per l’amico rimasto orfano. Dopo, a lui, toccò di continuare gli studi in un convento di religiosi di una località vicina, con il saio da fraticello, ma, forse, senza soverchia personale convinzione e vocazione.
Perciò, lo rivedevo saltuariamente in occasione dei suoi ritorni a Marittima per le vacanze estive e/o in concomitanza di qualche festività.
Conseguita la licenza media o, non ricordo bene, dopo aver passato il primo anno delle Superiori, egli volle però lasciare il convento e rientrare a casa, iscrivendosi all’Istituto pubblico di Maglie frequentato da me e prendendo a fare il pendolare in sella a un minuscolo scooter usato, pressappoco quaranta chilometri il giorno, su e giù fra casa e scuola.
Ovviamente, riprese in pieno il legame fra noi, con riferimento anche agli svaghi, alle prime sfide a carte nel bar del paese, alle prime sigarette, ai primi sguardi rivolti alle ragazze, alle partite di pallone sullo spiazzo accanto al Santuario della Madonna di Costantinopoli e al camposanto.
Gradualmente, anche attraverso le frequentazioni e le soste nelle rispettive case, divenimmo un autentico tutt’uno.
Esattamente nel dare qualche calcio al pallone in un pomeriggio autunnale, ricevetti da Nino una confidenza dal sapore profondamente fraterno/famigliare: sua sorella più grande, A., ventenne, mentre aiutava la madre a raccogliere le olive era incappata in una caduta da una pianta, senza procurarsi, fortunatamente, veri e propri danni fisici, semplicemente coinvolta negli effetti, sotto forma d’incontrollato mancamento, di una sua speciale condizione fisica, in altre parole lo stato di gravidanza.
E così, a distanza di alcuni mesi, arrivò a Nino, il primo nipote, V.
Trascorsero un paio d’anni e giunse il momento delle nozze anche per la sua seconda sorella, R., a Taranto, e io, amico non solamente di Nino, ma, come già accennato, di tutta la famiglia, fui invitato all’evento. Frequentavo il penultimo anno dell’Istituto Tecnico, però, per il giorno di quel matrimonio, non ci pensai due volte ad auto dispensarmi dalle lezioni e, anzi, al fine di partire insieme con Nino e suo fratello da Marittima per Taranto, a bordo di una vecchia Fiat “Giardinetta” di un compaesano, ottenni dai miei genitori il permesso di andare a dormire, la sera precedente, nell’abitazione di Nino.
Invero, non vi fu sonno, quella notte, lì al primo piano di Via Diaz, bensì un rosario di risate, scherzi, storie, partite a carte e, in special modo, di sigarette, tantissime, una incollata all’altra.
Benemeriti, ai fini di tale ultima performance, furono alcuni compaesani che si recavano in Francia per lavori agricoli stagionali (barbabietole) e si avvalevano delle mie conoscenze del francese per scambi di corrispondenza con gli interlocutori/datori di lavoro transalpini.
Per ricompensarmi dell’aiuto, i bravi emigranti, all’atto del rimpatrio, mi donavano, ciascuno, due/tre pacchetti di sigarette (rammento un marchio, Baltò) e, con ciò, alla vigilia delle nozze di R., fu un gioco spargere nuvolaglie di fumo e ammorbare una stanza da letto.
Ci dirigemmo a Taranto che era ancora buio e, dopo una ventina d’ore, con la stessa vetturetta, fummo di ritorno a Marittima.
Negli anni sessanta, Nino, analogamente a me, iniziò a lavorare e si formò una sua famiglia, cambiando varie residenze, dal Tarantino a una serie di città del Nord e, fermandosi, da ultimo nelle vicinanze di Torino.
Contrariamente a me, non ha, però, mantenuto contatti continui e cospicui col paese di nascita, salvo rare puntate di uno/due, massimo tre giorni, in estate.
In pratica, non si è mai fatto vedere ed io stesso, in oltre mezzo secolo, ho avuto agio di incontrarlo appena un paio di volte, la ultima, a Torino, verso la fine degli anni ottanta, fermandoci a prendere insieme un aperitivo nell’importante ristorante “Il Cambio”, in cui Nino occupava il ruolo di maitre di sala.
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Quattro giorni fa, nella mia, e nostra, Marittima, intorno alla controra, nella quiete della “Pasturizza”, sono giunti i rintocchi di campane particolari, le cui scansioni danno l’annuncio di una fine vita.
Già, sono familiari, nei paeselli, tali suoni, si riconoscono senza esitazione; in quello mio, oltretutto, arrivano, quasi contemporaneamente, da due campanili, della Chiesa matrice e del Convento (ora Santuario).
Io e mia moglie abbiamo commentato gli scampanii in questione e, però, anche insieme, sino al mattino seguente, non siamo riusciti ad avere notizie circa l’identità dello/a scomparso/a.
Tuttavia, verso le dieci, nel recarmi a comprare il giornale, il mio sguardo ha incrociato, su un manifesto listato di nero, un nome e un cognome, il primo, quello di battesimo del mio caro compagno di scuola e amico, il secondo, l’appellativo dei tanti muratori marittimesi di stagioni lontane, fra cui C.
Appena sotto, infine, un’età, i miei stessi anni.
Non descrivo, per precisa scelta, ciò che ho provato dentro, desidero serbarmelo esclusivamente per me.
Ciao, Nino, da lunga pezza ti trovavi a vivere lontano dalla nostra comune Marittima e hai scelto di rimanere lì, nell’estremo Nord Ovest. Del resto, anche in cotale guisa possono talora ramificarsi i sentieri dell’umana esistenza.
Io, ad ogni modo, voglio dirti che, idealmente, nel pensiero e nel ricordo, la tua figura, manterrà un posto ben impresso qui, nel mio animo di vecchio amico.