Reinventiamo i beni culturali iniziando a rivedere gli incarichi affidati ai non italiani per riconsiderare le identità e la storia
di Pierfranco Bruni
I beni culturali non sono soltanto possibilità di turismo e di espressione economico e di sviluppo. Più volte mi sono soffermato su ciò. Bisogna partire soprattutto da una idea di cultura e di identità culturale nazionale per poter dare un senso ad una progettualità che sia garante di quelle eredità che sono vive nei tessuti territoriali. Aspetti che in questi ultimi decenni sono stati completamente eliminati dalla storia della ragione dei beni culturali stessi. Il fatto che siano stati affidati a studiosi non italiani strutture e aree archeologiche non è assolutamente una bella immagine che si è data alle culture italiane.
È come aver sottolineato che l’Italia non ha esperti validi. Una cattiva e sradicante immagine che deve essere necessariamente risolta. La cultura in Italia è cultura dei saperi nazionali soprattutto. Su questo punto ci ritornerò.
Comunque oltre ciò occorrerebbe inventarsi una nuova Magna Grecia. Certamente partendo da ciò che la storia ha restituito al mito. Non può essere storia e conoscenza senza la tradizione del mito e dei simboli. Magari attraversando la civiltà di Leonida e di Archita sino a toccare le sponde di Ibico e di Pitagora. In questo viaggio si ascolta la Magna Grecia e parla con i territori, con i popoli, con le identità attraverso le eredità che non smettono di trasmettere silenzi ed urla.
Oggi ciò che chiamiamo Magna Grecia è geografia di un tempo perduto e mai ritrovato. Ma resta una «aritmetica» della memoria con i suoi echi, i suoi segni, la sua archeologia immensa e molte volte dimenticata. Dimenticare è smarrire. Ecco perché abbiamo bisogno dell’antropologia. Di quella antropologia che è umanesimo ma anche culturale, popolare, etnica.
I beni culturali nella identità di una Nazione dovrebbero rappresentare il logos dentro la lettura del nostos. Non possiamo riceverli con la sensazione della nostalgia. Dobbiamo viverli con l’identità eredità dal tempo in un passaggio tra storia e memoria. Resta fondamentale questo chiosare di legame tra eredità, storia, memoria identità. Un presupposto che apre la possibilità-capacità di poter praticare un vero processo di valorizzazione e quindi di fruizione.
Cercare di leggere i ritagli culturali, che sono i simboli del rapporto tra popoli e civiltà, dei territori è penetrare i modelli etno-antropologici che sono parte vitale dei processi di conoscenza in una geografia tra eredità ed identità. Bisogna storicizzare, ma per rendere la storia elemento di apprendimento è necessario realizzare un percorso chiaramente antropologico. L’antropologia è l’espressione materiale e ontologica dei popoli, delle civiltà, delle comunità. Il passato è un depositato nella storia.
Bisogna fare in modo, discutendo dialetticamente di beni culturali e di patrimonio identitario incastonato nella cultura, di leggere quel che chiamano passato, o esteticamente memoria, di non renderlo soltanto nostalgia. Ciò che è stato in un tempo non potrà essere in un altro tempo. L’antico non può essere il nuovo o nel nuovo. Lasciamolo tra le griglie dei simboli, dei miti, degli archetipi ma non scardiniamo quel tempo che non c’è più pensando di renderlo presente, attuale, futuro. Anche quando discutiamo di beni culturali non possiamo più commentare un simile errore. Bisogna avviarsi verso una idea di progetto superando il concetto di programma.
La Magna Grecia è stata. Non sarà più, non sarà mai più. Il Mediterraneo dei miti come lo abbiamo letto tra classicità, umanesimo e grecità egiziana – araba non sarà più. Si vive un altro Mediterraneo. Bisogna ben comprendere che ci sono diversi mediterranei che si portano dentro diversi destini e una storia articolata non assimilabile tra epoche.
Il Mediterraneo dei beni culturali ha anche ora una eterogeneità di letture. Marrakesh non è Madrid. Algeri non è Nizza. Il Cairo non è Roma. Insomma testimonianze che hanno una valenza importante ma non assimilabile. Questo significa che ci sono diversi Mediterranei sul piano culturale che restano espressioni eterogenee nella cultura del bene geo-territoriale.
L’antropologia è una espressione che riesce ad interpretare i processi archeologici, urbanistici, architettonici, storici, linguistici, letterati, etnici. Ecco perché sono sempre più convinto che il Ministero Italiano della Cultura deve imporsi con una progettualità imponente proprio in quella visione di sintesi che è l’antropologia.
Ciò può essere fatto, però con le dovute competenze, con una didattica delle culture, con una conoscenza che nasce dal rapporto tra apprendimento e valorizzazione. Su questo versante credo che ciò che si indica come geografia della Magna Grecia non può essere letta soltanto con gli strumenti e i processi archeologici bensì fortemente antropologici caratterizzati dalla cultura della tradizione/popolare.
L’antropologia della Magna Grecia è una delle discipline che permette di abitare civiltà, popoli e tradizioni. D’altronde la Magna Grecia, oltre l’archeologia, è in questi percorsi. La Magna Grecia va vissuta come modello antropologico oltre che archeologia del vissuto. Perché tutto questo? Perché sostanzialmente l’approccio culturale muta costantemente. In realtà la Magna Grecia è soltanto nostalgia se non si crea un processo valorizzante tra nuove economie e politiche culturali identitarie.
Non c’è più una Magna Grecia. C’è la eredità della Magna Grecia. Di ciò dobbiamo essere consapevoli per cercare di ragionare con il pensiero che va oltre il modello archeologico soltanto. L’antropologia è la «scienza», nell’umanesimo delle discipline, che diventa il collante ma anche il mosaico dentro il quale quei concetti prima citati, ovvero eredità, storia, memoria, identità, tradizione…, costituiscono il legame del patrimonio culturale. Trasformare i simboli in realtà.
Una utopia? Non credo. Cultura, Magna Grecia ed economia: una interpretazione importante che richiama una sistematicità di valori e di contenuti culturali. Ma cosa sono i contenuti culturali? Non si può più pensare al bene culturale come un singolo fatto, una singola struttura, un singolo contenitore. Occorre fare in modo di realizzare delle griglie che siano simboliche e reali, pertinenti e vive nelle articolazioni dei modelli valorizzanti e fruibili. Ovvero la politica dei beni culturali deve essere mosaicizzata ma anche praticata e vissuta come un monolito.
Esempio. L’archeologia è già nella antropologia e viceversa. Entrambe sono dentro la storicità dell’arte la quale è anche ritmo, segno, colore, linguaggio. Linguaggio, appunto, che penetra un vocabolario che è letteratura, musica, folclore. I rimandi sono nelle tradizioni e queste abitano il mito. Il bene culturale è la lettura dei miti che sono stati cronaca, oggetti, storia.
È necessaria la Ragione espressiva delle epoche. La Magna Grecia è la complessità non solo di un tempo ma di un’epoca. Così dal Medioevo al Barocco, dal Rinascimento alle diverse avanguardie. Sono epoche che nascono dentro le civiltà. Considero tale il bene cultura.
Ebbene, non posso capire la Magna Grecia soltanto dal suono di una ceramica o dal ritmo di una statua. Ma la Magna Grecia è uno stato del pensare e del pensiero dentro la complessità di un tempo chiamato proprio civiltà e quindi identità. È qui che la concezione del bene culturale deve trovare la sua rivoluzione e la sua intuizione nel saper confrontarsi con le culture.
Non è assolutamente una sfida. È un approccio forte in una mutata temperie delle società, delle comunità e delle umanità. Credo che i beni culturali sono oggi la Ragione di una civiltà in società in transizioni e in civiltà di epoche comparate. Tali dobbiamo considerarli.
E qui ritorna il discorso in incipit. Non è nella mia logica pensare che essendo nel territorio italiano i beni culturali devono gestirli gli italiani. Non è questo il problema. Ma non si può accettare neppure la logica della politica europea che è come se si imponesse un criterio di condivisione nella gestione delle amministrazioni pubbliche. A questo punto nulla vieterebbe che anche un procuratore della repubblica a capo di una Procura venisse dalla Francia o dalla Germania o da Kiev.
Nel momento in cui vengono affidati a professionisti e specialisti non italiani si testimonia una completa ta sfiducia al mondo culturale nazionale. È stato come sfiduciare la professionalità culturale italiana. Responsabilità politiche di estrema gravità.