Rafael Alberti Poeta della pace e della bellezza
Maurizio Nocera
Al cognome di Rafael Alberti (El Puerto di Santa María, 16 dicembre 1902 – Cadice, 28 ottobre 1999) la certificazione spagnola ne aggiunge un altro, ed è quello di Merello, appartenuto alla madre. Consuetudine spagnola. Rafael Alberti Merello, un grande nome di un grande poeta.
Era il 1983, quando a Praga si tenne la Conferenza per la Pace e la Vita. Dall’Italia, tra le altre, parteciparono la delegazione del Comitato «Lotta per la Pace» guidata dal giornalista Manlio Dinucci e quella del Sindacato Nazionale Scrittori guidata dal suo presidente, lo scrittore magliese-napoletano-romano Aldo De Jaco. Io facevo parte di entrambe perché ero ad entrambe associato. Per ovvie ragioni, partecipai ai lavori della Commissione cultura, presieduta, tra gli altri, da Gábriel García Marquez e, successivamente, da Rafael Alberti. Col poeta spagnolo, mi ero già visto lungo il viaggio di andata allo scalo intermedio di Sofia dove c’era da spettare un paio di ore. Nell’hall di quella aerostazione, vidi seduto ad un paio di poltrone da me Rafael, già anziano e con i suoi fluenti capelli bianchi. Anni prima l’avevo visto a Lecce, presso la libreria Adriatica di Daniela e Mino Carbone, in occasione di un suo ricordo di Vittorio Bodini; poi l’avevo visto anche nel cinema di Casarano, dove fu accolto come uno dei massimi poeti spagnoli e dove si realizzò un suo indimenticabile recital.
Avendo questi precedenti di memoria, mi accostai al poeta e gli chiese se anche lui si recava a Praga. Mi rispose di sì in italiano, lingua che conosceva benissimo grazie ai suoi lunghi anni di permanenza a Roma, perché qui “confinato” dal fascismo-franchismo spagnolo. Conversammo un po’, poi ci demmo appuntamento nella capitale cecoslovacca. In essa, effettivamente ci rincontrammo, e da quell’incontro si rafforzò il mio amore verso la sua poesia, che si coronò con un dei più bei doni che abbia mai ricevuto da un poeta-pittore, la colomba su sfondo giallo. Rafael fu così gentile, forse in memoria del suo amico Vittorio Bodini, nel regalarmi questo disegno di colomba che tuttora conservo come reliquia poetica. Nella vita, poi, ho avuto la fortuna di incontrare molti amici di Rafael Alberti, a cominciare da Mario Lunetta a Roma per arrivare poi ad Ignazio Delogu uno dei suoi traduttori italiani, col quale, negli ultimi della sua vita, abbiamo avuto modo di organizzare più di qualche iniziativa poetico-letteraria a Lecce.
Ma di Rafael intendo dire della sua vita e della intramontabile opera poetica e pittorica.
Davanti a me ho una copia di «Il Contemporaneo» (anno IV, n. 38-39, luglio-agosto 1961), la prestigiosa rivista degli intellettuali e degli artisti italiani degli anni ’60, il cui comitato direttivo era formato da Mario Alicata (1918-1966 – scrittore), Gianfranco Corsini (1921-2010 – critico letterario), Renato Guttuso (1911-1987 – pittore), Carlo Melograni (1924 – architetto), Velso Mucci (1911-1964 – scrittore), Enzo Muzii (1926 – critico cinematografico), Carlo Salinari (1919-1977 – critico letterario), Albe Steiner (1913-1974 – designer), Ernesto Treccani (1920-2009 – pittore), Antonello Trombadori (1917-1993 – parlamentare e critico d’arte). Il numero della rivista in questione è quello
«dedicato alla cultura spagnola contemporanea in occasione del venticinquesimo anniversario dell’eroica lotta del popolo spagnolo contro l’aggressione fascista della Repubblica».
Emblematicamente la copertina della rivista raffigura a tutta pagina il dipinto di Renato Guttuso, Fucilazione in campagna – In memoria di Federico García Lorca (1937).
Non so dire da quanto tempo possiedo questo numero della rivista. Sono certo però di averlo avuto sempre davanti a me sulla scrivania sulla quale mi appoggio per scrivere. La rivista è aperta all’inserto fotografico fuori testo tra le pagine 80 e 81, con in evidenza la foto di un gruppo di artisti, poeti e intellettuali spagnoli e latinoamericani in posa dietro un tavolo di un ristorante di Madrid nel 1935. Sono raffigurati: José Caballero (1915/1991 – pittore); Eduardo Ugarte (1901/1955 – scrittore); (uno sconosciuto); Adolfo Salazar (1890/1958 – musicologo e scrittore); Alfonso Buñuel (1915/1961 – architetto); Federico García Lorca (1898/1936 – poeta); Juan Vicent (1902/1999 – poeta); Luis Buñuel (1900/1983 – regista); la moglie di [Honorio] García Condoy; Acario Cotapos (1889/1969 – musicista); Rafael Alberti (1902/1999 / poeta e pittore); Guillermo De Torre (1900/1971 – poeta e critico letterario); Miguel Hernández (1910/1942 – poeta); Pablo Neruda (1904/1973 – poeta cileno); Rafael Sanchez Ventura (1987/1980 – scrittore portoghese); Maria Antonieta Hagenaar, detta Maruca, prima moglie di Neruda; (due altri sconosciuti); Domingo Pruna (moglie del pittore Pedro Pruna); Alberto (scultore); Delia Del Carril (1884/1989 – pittrice argentina, divenuta poi seconda moglie di Neruda); Pilar Bayona (1897/1979 – pianista); Hernando Viñes (1904/1993 – pittore); moglie di [Ricardo] Viñes; María Teresa León (1903/1988 – scrittrice, prima moglie che Rafael Alberti sposò nel 1930. Dopo la morte di María, Rafael sposò in seconde nozze, nel 1990, la scrittrice María Asunción Mateo, ispanista conosciuta nel 1982); Gustavo Durán (1906/1969 – musicista); Angeles Dorronsoro; Hortelano (pittore); Pepin Bello (1904/2008 – ingegnere e scrittore); Santiago Ontañon (1903/1989 – pittore).
Sullo stesso numero della rivista è pubblicato un articolo che riguarda direttamente il poeta andaluso, intitolato Alberti e Hernández, scritto da Dario Puccini (1921-1997), che introduce la traduzione di alcune sue poesie tratte da Obras completas (1961). Puccini scrive che Rafael Alberti
«è stato e rimane il poeta più consapevole e più illustre della Generazione del ’27» (p. 47).
Coloro che hanno vissuto la prima o la seconda parte del Novecento sanno cosa sia stata la Generazione del ’27, cioè il nutrito gruppo di autori di lingua spagnola quasi tutti nati alla fine dell’800 o all’inizio del ‘900. Di loro, oltre una ventina tra poeti, registi, architetti, ingegneri, scrittori, pittori, musicisti, drammaturghi, solo una decina sono quelli maggiormente citati dalla critica storico-letteraria. Tra questi si distinguono, in primo luogo il poeta di cui sto trattando, cioè Rafael Alberti, poi ci sono Jorge Guillén (1893-1984), Pedro Salinas (1891-1951), Federico García Lorca, Dámaso Alonso (1898-1990), Gerardo Diego (1896-1987), Luis Cernuda (1902-1963), Vicente Aleixandre (1898-1984), Manuel Altolaguirre (1905-1959) e Emilio Prados (1899-1962). A questi vanno aggiunti altri che si aggregarono successivamente, fra cui Salvador Dalí (1904/1989 – pittore), Óscar Domíngue (1906/1957 – pittore), il già citato Luis Buñuel, Felipe Alfau (1902-1999) e Miguel de Unamuno (1864-1936), più alcuni scrittori e artisti stranieri come i poeti cileni Pablo Neruda e Vicente Huidobro (1893-1948), l’argentino Jorge Luis Borges (1899-1986) e il francese Francis Picabia (1879/1953 – pittore e scrittore).
Fondamentalmente, la visione del mondo e dell’arte che gli autori della Generazione del ’27 avevano era di tipo romantico-surrealista, fantastica e fantasiosa, di autentico fervore per i classici (per Góngora in particolare), di purezza estetica e autenticità umana, di pura poesia, di arte per l’arte, di armonia del colto col popolare, come è stato nel caso di Lorca e Diego, e ancor più di tutti Rafael Alberti che, col suo libro La arboleda perdida [L’albereto perduto] (Buenos Aires 1959; Roma, Editori Riuniti 1976 con traduzione e cura sempre di Dario Puccini) darà la giusta dimensione dell’esperienza dell’intero Gruppo. Anche il cileno Pablo Neruda contribuì alla classificazione storico-letteraria della Generazione quando, nel 1935, si recò a Madrid e ricompattò il gruppo surrealista con alcuni dei suoi contributi, in particolare con l’edizione dei suoi due volumi di Residencia en la tierra [Residenza in terra] e dei suoi due libri di memorie, Confieso que he vivido [Confesso che ho vissuto] e Para hacer he nacido [Per fare sono nato], dando testimonianza e notizie sulla loro attività. Come si sa la Generazione del ’27 è stata longeva, se si tiene conto che l’ultimo autore del gruppo, l’ingegnere e scrittore Pepin Bello, nato nel 1904, è sopravvissuto fino al 2008, scomparendo in quella data all’età di 104 anni.
Federico García Lorca fu il primo animatore della Generazione del ’27 e, dopo il suo assassinio (19 agosto 1936) per mano dei fascisti di Franco, toccò a Rafael Alberti fare il portabandiera del Gruppo, esprimendosi sia come pittore sia come poeta. Il suo primo libro, Marinaio a terra (1925) è intriso di una forte vena neo-popolare; il suo secondo, L’alba della violaciocca. Canzoni (1926) e, in particolare, il terzo libro, Sugli angeli (1929), chiariscono ampiamente gli orientamenti ideologici-letterari di buona parte dei poeti e degli artisti facenti parte di quella generazione.
Quale rappresentante autentico della Generazione del ’27 se n’era accorto anche José Saramago (1922-2010) che nel 1998, proprio l’anno in cui egli ricevette il Premio Nobel per la Letteratura, in occasione del 95° compleanno di Rafael Alberti, tenne il discorso ufficiale, Caro Rafael, amo le tue parole senza maschera. Scrive:
«Caro Rafael, prima che tu nel tuo bellissimo Marinaio a terra riunissi in un amplesso poetico insolitamente moderno alcune delle vecchie oggettività della terra e i nuovi e rilucenti miti del mare, avevi già creato quattro versi che potrebbero essere posti sulla soglia di ogni opera letteraria, come una specie di epigrafe universale. Sono questi: “Ho tolto la maschera a una parola/ E muti/ l’uno di fronte all’altro/ Siamo rimasti”.// Tutti noi che scriviamo conosciamo quell’istante di mutismo perplesso, quasi angoscioso. La parola ci appare improvvisamente nuda, disarmata, sorpresa dalla luce, dunque è necessario catturarla rapidamente, non lasciarla scappare, non darle il tempo di nascondersi un’altra volta. […] La poesia, molto più dell’espressione teatrale o romanzesca, è la rivelazione della parola che stava nascosta. […] Quando, appena venticinquenne, pubblicasti Degli angeli, già le maschere delle parole erano cadute tutte davanti a te, già il tuo sguardo aveva raccolto definitivamente le folgoranti chiarità di suono e di senso che si celano dietro all’opacità che è conseguenza fatale del non vedere quel che si guarda e della routine indifferente del parlare» (traduzione di Guiomar Parada).
Alla fine degli anni ’50, non appena conosciuto il poeta andaluso, Dario Puccini tradusse e pubblicò le sue prime poesie, i suoi primi libri, fra cui Ritratti di contemporanei (Il Saggiatore, Milano, gennaio 1961), nella cui Nota editoriale scrive che
«l’odissea di Rafael Alberti non è provocata soltanto dall’estro, ben altri motivi hanno spinto l’uomo e il poeta a intraprenderla: in primo luogo l’esperienza dolorosa ed esaltante della guerra civile, poi gli anni di esilio. Del suo umano itinerario, tutto ravvivato e reso di volta in volta drammatico o lirico o pittoresco da un’inesauribile fantasia e intelligenza vitale, l’Alberti ha segnato le tappe in tre libri di ricordi: i due libri di Arboleda perdita (l’uno del 1942, l’altro del 1959) e Imagen primera de… [Prima immagine di…] (1945). In quest’ultimo, Alberti traccia i profili degli amici artisti e scrittori incontrati tra il 1930 e il 1940, tra cui García Lorca, Jiménez, Unamuno, del Valle-Inclán, Hernández, Picasso, Gide, Gorkij, de Falla» (pp. 8-9).
Interessante il profilo artistico-letterario di Picasso (1881-1973), del quale eccone un interessante passo:
«Conobbi Pablo Picasso a Parigi, la notte più impensata, tra le poltrone di platea del Teatro “Atelier” di Charles Dullin. […] Da molto tempo desideravo conoscere quello straordinario malaghegno, […] E quella sera di magiche selve shakesperariane, ferito ancora nelle orecchie da tutti quei risentiti e torbidi apprezzamenti sul pittore, […] corsi giù in platea, non senza un certo timore di ricevere un’accoglienza gelida o, peggio ancora, di veder crollare la mia ansia di andarlo a trovare nel suo studio./ […] Il giorno dopo, alle tre in punto del pomeriggio, Picasso in persona m’apriva la porta del suo appartamento. […] Poi mi fece entrare nel suo atelier. Chiunque penserebbe che lo studio di un pittore del prestigio, del genio e della fortuna di Picasso, dovrebbe essere qualcosa, se non ricco, per lo meno di dimensioni notevoli, pieno di tutti quei vecchi arnesi e pezzi di oggetti che solo i pittori sono capaci di conservare. Lo studio di Picasso, un semplice lucernario stivato di cose, con un gran tavolo inondato di libri, di lettere aperte e altre ancora non aperte, di disegni, di matite, ecc., misurava poco più di tre metri per quattro, e al pittore non restava neppure lo spazio sufficiente per lavorare con una certa comodità. Al centro, distesa, grande, come una finestra spalancata sopra un precipizio, c’era l’opera a cui il pittore stava lavorando: uno di quei mostri che infilandosi lungo un manico del pennello gli passano vivi e poeticamente assurdi sulla tela» (pp. 59-64).
Ma di Picasso, divenuto poi suo amico, Rafael Alberti pubblicò altri libri in Italia e in prima edizione, fra cui il primo appena qualche mese dopo la morte del grande pittore, libro bibliofilicamente interessante, intitolato Picasso il raggio ininterrotto (Editori Riuniti, Roma 1974, in-4° elefante, 35 pagine di testo, magistralmente tradotto dall’ispanista e poeta Ignazio Delogu, con 201 splendide immagini di catalogo). L’introduzione di Rafael Alberti è di una prosa poetica ammaliante. Eccone alcuni passi:
«In questi ultimi anni della sua vita Picasso non abbandonò la compagnia dei suoi mostri. Accanto ad alcune figure più amabili – bambini, nudi femminili e scene familiari – ci sono sempre loro [i tori] e si è portati a credere e a convincersi che se ne sia andato lasciandoci la perpetua, quotidiana visione di tortura, di supplizio, di terrore, di pena, di beffa, di pianto, di sventura, d’irrisione. L’immagine spaventosa di questo secolo [XX] che ha visto due terribili guerre universali, crimini, genocidi, violenze, invasioni e ladrocini coloniali, e tante e tante agonie in virtù delle quali l’uomo, qui sulla terra, riflette in qualche modo nel suo volto la sua immensa sofferenza. […] Dal profondo della terra, Pablo Picasso continua a realizzare il suo destino. Continuerà a lavorare per quelli che verranno, perché la sua opera è azione viva e mai apparterrà al passato. Perciò, ha potuto affermare, dimostrandolo nel corso di tutta la sua vita: “Il mio destino è lavorare senza respiro. Io sono azione e l’atto creativo ha lo slancio di una furia”. Azione e furia. Azione, furioso assalto. Quale verità la tua, così spagnola, così taurina, Pablo? Tutto questo secolo si muove per te. […] Basterebbe Guernica, sintesi suprema delle tue aspirazioni, dei tuoi desideri di pace, di libertà, bandiera ossessionante della tua vista, a dare l’allarme ogni giorno, a ogni aurora del mondo, ricordando agli uomini che vigilano di stare ancora più attenti contro coloro che della luce hanno fatto una spada d’ombra, della morte l’unica forza capace di governare la terra. […] Sta per piombarci addosso l’anno 2000, il secolo XXI. […] Nella Cappella Clementina i toreri non sono più 13, sono uno solo; nessun altro toro fuor che uno, nessun’altra persona fuor che una, nessun altro applauso fuor che uno, nessun’altra musica fuor che una, né altri morti fuor che uno./ Ormai non è più quello di Francia né quello di Spagna, è il ruedo
[confine]
del mondo, il cerchio immenso di questo secolo che gira, che si dilata, che si prolunga, senza segni visibili che forze contrarie possano fermare./ Potrebbe essere un dio quello che si leva lì nel suo centro, ma bisogna guardarlo come un uomo, nascita e fine, vivo riassunto di una meravigliosa avventura creatrice, come un fascio di forze raggianti, uno stelo luminoso che traccia senza sosta negli spazi: Io fui, io sono, io sarò, solo e sempre LA PITTURA» (pp. 17, 25-26, 28, 34).
Nel 1970, Rafael Alberti aveva pubblicato un altro libro dedicato al grande pittore spagnolo, intitolato Los ocho nombres de Picasso e, nel 1981, tornato definitivamente in patria dall’esilio, ne pubblicò un altro sul pittore di Guernica, interamente di poesie, ancora inedito in Italia, Lo que canté y dije de Picasso (Bruguera – Libro Amigo, Barcellona) con questa eloquente dedica:
«Dios creó el mundo – dicen -/ y en el séptimo día,/ cuando estaba tranquilo descansando,/ se sobresaltó y dijo:/ He olvidado una cosa:/ los ojos y la mano de Picasso» [Dio creò il mondo – dicono -/ e nel settimo giorno,/ quando stava tranquillo riposando,/ si ridestò e disse:/ Ho dimenticato una cosa:/ gli occhi e la mano di Picasso].
Nell’ottobre 1961, Dario Puccini tradusse anche la tragicommedia in tre atti Il trifoglio fiorito (Il Saggiatore), nella cui Nota editoriale scrive che il poeta,
«vissuto dall’infanzia sulle rive dell’Atlantico, è stato sempre magnetizzato dallo sguardo mutevole del mare: allegro, prepotente, angoscioso. Una drammatica coerenza del suo destino ha voluto che il mare ancora, migliaia di leghe di mare lo separassero, esule antifranchista, dalla sua patria. Fatto sta che l’elemento marino è davvero l’acqua madre delle immagini, delle situazioni che con più frequenza costellano la sua poesia e il suo teatro: la nostalgia del marinaio, l’ansia dell’avventura, il mito del ritorno alle profondità marine, il mare vissuto al largo, quello sognato dalla terraferma. […] Presenza naturale e simbolo di sorti, il mare occupa la metà del golfo mistico, donde emana verso la ribalta la favola teatrale del Trifoglio fiorito: il mare che attira, incanta, nutre e inghiotte i pescatori. L’altra metà è occupata dalla terra, con i suoi vigneti e i suoi campi, col mulino che frange il grano» (pp. 8-9).
Alberti fu un poeta militante della Resistenza antifranchista, un poeta della Libertà, della Pace, della Giustizia Sociale. Memorabile resta la sua esperienza nella guerra civile spagnola (1936-39), della quale ha lasciato testimonianze altamente toccanti in poesia, in teatro e in prosa, com’è il caso del libro Miliziani a Ibiza, pubblicato in prima edizione in Italia (Parenti, 1961), nel quale raccoglie due suoi racconti e un dramma di guerra, nonché un brano delle sue memorie, Lo zio garibaldino. Egli soleva spesso dire di essere di origini italiane e che un suo zio fiorentino fu garibaldino al seguito del Generale dei due Mondi. Aveva sposato una sorella di sua nonna, a Granada. Soleva dire pure che i suoi nonni erano genovesi emigrati a Cadice, dove avevano impiantato un’azienda vitivinicola. Esaltante fu il suo contributo alla lotta contro ogni sopruso e violenza. Nei suoi anni di rifugiato politico in Italia, per l’editore Veutro di Roma, assieme alla moglie María Teresa León, diresse la Collana della crudeltà e della violenza, dedicata a Bertrand Russel (1872-1970), libri che avevano tutti questa premessa firmata da entrambi i coniugi:
«Mai come oggi l’umanità ha avvertito il bisogno di riesaminare con occhio critico e privo di indulgenze la storia di cui è stata ed è protagonista. All’ingenua fiducia con la quale aveva creduto nella possibilità del proprio rettilineo progresso, sembra ora determinata a sostituire la ferma decisione di analizzare le cause di tante tragiche esperienze, dalle guerre ai campi di sterminio, al genocidio. L’umanità sembra aver preso atto che una gran parte della sua storia è stata scritta all’insegna della “violenza” e della “crudeltà”. Non vi è niente di fatale in tutto ciò. All’origine di entrambe vi è il cieco egoismo, l’ostinata determinazione di difendere il privilegio, l’abuso del potere contro ogni diritto, che genera reazioni di cui è spesso difficile constatare la tragica necessità. L’ambizione di questa collana è di contribuire a restaurare, attraverso la conoscenza delle cause della crudeltà e della violenza, la fiducia nelle capacità dell’uomo di scrivere la storia della tolleranza e della fraternità fra gli uomini».
Qualche altra parola sulla poesia di Rafael Alberti. Essa era musicale e musicante, come lo la sua stessa voce. Ignazio Delogu (altro suo traduttore e amico fratenro), mi diceva che:
«la sua era una poesia tra le più alte di Spagna».
Ignazio ha tradotto quasi tutti i libri di Alberti pubblicati dall’Editori Riuniti. Lo conosceva bene e di lui ha scritto saggi importanti, grazie ai quali oggi noi possiamo ricostruire molti dei suoi percorsi italiani. Per fare una mappatura degli amici italiani di Alberti, dobbiamo ricorrere appunto agli scritti di Delogu, che scrive:
«Eugenio Luraghi [ingegnere milanese], scrittore, amico cordiale e suo primo traduttore già negli anni cinquanta, quando dirigeva a Buenos Aires una grande impresa industriale italiana, la Breda. Un altro amico era Salvatore Quasimodo, siciliano ma residente a Milano, Premio Nobel per la Letteratura 1959. La loro amicizia risaliva al Primo Congresso Mondiale dei Partigiani della Pace, svoltosi a Parigi, Sala Pleyel, dal 14 al 19 aprile 1949. […] Ai vecchi amici come Corrado Cagli, Emilio Villa, Renato Guttuso, Carlo Quattrucci […], Carlo Levi, e Dario Puccini, si aggiunsero Alberto Moravia, Alfonso Gatto, Vasco Pratolini, Pier Paolo Pasolini, Walter Mauro, Elena Clementelli, Marcella Ciceri, il filologo Mario Eusebi» (v. I. Delogu, Rafael Alberti. Canzoni dell’Alta Valle dell’Aniene, Ellis edizioni, Bitonto-Bari, 2009, pp. 97-99).
In questo elenco non sono citati, ma è noto che Alberti fu amico anche di Giuseppe Ungaretti, di Edoardo Sanguineti e di Elio Pagliarani.
Ignazio Delogu, così ricorda il suo amico poeta:
«Io li [Alberti e la moglie María Teresa León] conobbi nell’autunno del 1963, qualche giorno dopo il loro arrivo a Roma da Milano. […] Di Rafael conoscevo già numerose poesie e alcune prose. Nel 1952, la prima edizione dell’antologia Poesia spagnola del ‘900, curata da Oreste Macrì […] Io però conoscevo Alberti di nome da molti anni, dal dopoguerra, quando avevo avuto l’opportunità di conoscere molti antifascisti che avevano combattuto nelle Brigate Internazionali durante la guerra civile spagnola. Quello di Alberti era un nome noto e popolare, molti lo avevano conosciuto di persona. Fra questi Vittorio Vidali, il leggendario Comandante Carlos del Quinto Reggimento di Milizie Popolari» (p. 99).
Dopo quel primo incontro Ignazio, che a quel tempo era il traduttore di spagnolo per Enrico Berlinguer, cominciò ad interessarsi ancor più alla poesia e al personaggio, tanto da cominciare a pubblicare una serie di libri, oggi essenziali per chi voglia conoscere il poeta. Fra questi, è sufficiente citare Rafael Alberti (Il Castoro La Nuova Italia, Firenze 1972), denso e corposo profilo critico letterario e, altro libro, Alberti. Poesie. Tra il garofano e la spada (Newton Compton editori, Roma 1977) che, oltre alla traduzione dei testi, Delogu scrive una Nota biografica del poeta.
Nel 1977, dopo la caduta della dittatura franchista, Alberti ritornò definitivamente in Spagna stabilendosi nella sua città natale di Puerto de Santa María, in una casa messagli a disposizione dal Comune, e lì morì il 28 ottobre 1999, all’età di 96 anni. Lì, in quel mare che s’appoggia al Puerto, furono sparse le sue ceneri. In Spagna furono in molti a celebrarlo, ugualmente in Italia, paese che il poeta aveva considerato come una sua seconda patria. Il cantautore Sergio Enrico che, di Alberti, aveva inciso (1966) la poesia La colomba, con musica di Luis Bacalov, disse:
«Era la storia di una colomba che commetteva molti errori e diceva così: “Cercava il Nord ma era il Sud, pensava che il grano fosse acqua, che il mare fosse il cielo, che la notte fosse il mattino, ma si sbagliava. Pensava che il tuo cuore fosse la tua casa, ma si sbagliava”. Quella colomba smarrita era il simbolo del cuore innamorato dello stesso Rafael. […] Era una persona straordinaria» (v. «Il Messaggero», 29 ottobre 1999, p. 21).
E Carlo Bo, sulla Terza pagina del «Corriere della Sera», lo ricordò
«seduto al Caffè delle Giubbe Rosse [Firenze], accanto a Montale che sfoglia l’Antologia della poesia spagnola [a cura di Oreste Macrì] e si sofferma davanti a una fotografia di un gruppo di scrittori del 1927 all’Ateneo di Siviglia. Montale elenca i nomi: Alberti, García Lorca, Jorge Guillén, Dámaso Alonso, José Bergamín e Gerardo Diego, e aggiunge con ironia velata da un pizzico di malignità: “Se anche noi avessimo un gruppo di poeti così importanti”. Rivedo, così, uno dei grandi momenti della poesia europea di cui a quel tempo solo Montale con pochi altri in Italia aveva nozione. E sempre ripensando a quella foto costato che Alberti è il poeta di quel gruppo che è vissuto più a lungo e che dopo Lorca e Guillén ha avuto maggiore risonanza nel mondo. […] Dovendo riassumere i tempi e i modi della sua lunga esistenza e del suo lavoro, bisogna dire che Rafael Alberti non ha mai tradito la sua prima ispirazione e che volta per volta ha cercato di adattarla a quelle che a suo giudizio erano le giuste ragioni e richieste del tempo» (v. C. Bo, Rafael Alberti il «romancero» del secolo, in «Corriere della Sera», 20 ottobre 1999, p. 35).
Sebastiano Grasso, sempre sulla stessa Terza pagina del giornale, ricorda i begli anni che il poeta aveva trascorso a Roma, dove era divenuto
«parte integrante del quartiere [Trastevere]; del paesaggio, quasi. Come il giornalaio dell’angolo, come il barista di due porte più avanti alla sua, come il calzolaio che gli risuolava le scarpe marrone. Il poeta si aggira per le strade, in apprensione, temendo di essere investito dalle auto. Soltanto Neruda e Guillén, diceva, avevano più paura di lui del traffico romano. Forse era solo un timore letterario, il suo. Quasi un gioco da istrione. Come quella volta in cui, nel 1974, testimone di nozze di un amico siciliano, a Catania, al momento del suo ingresso nella cattedrale cominciò a guardarsi intorno, con finta paura, chiedendo se fosse proprio indispensabile. Che cosa avrebbero detto i suoi amici comunisti vedendolo entrare in una chiesa?» (v. S. Grasso, Solo Neruda temeva più di me il traffico di Roma, in «Corriere della Sera», 20 ottobre 1999, p. 35).
Rafael Alberti più di una volta è stato in Puglia, un’occasione fu il 21 marzo 1970, alla libreria “Adriatica” di Bari, in occasione della presentazione del libro del pittore Carlo Quattrucci, España 1936-19… (Macinagrossa editore, Bari 1970), introdotto dalla poesia di Alberti citata da Sergio Endrigo, La colomba. Essendo egli un poeta del Sud della Spagna amava il Sud d’Italia. Il letterato lucano Pasquale Doria, che ebbe modo di conoscerlo e divenirne amico, ricorda che Alberti
«scoprì la Lucania grazie a [José] Ortega e [Carlo] Levi, e [che] se ne innamorò. […] Il [suo] racconto più frequente [era] quello di accostarsi alla scoperta delle antiche e sapienti tecniche di panificazione che nei sopravvissuti forni a legna della città dei Sassi [Matera] diventano arte» (v. P. Doria, Esule, ma felice fra i «suoi» Sassi di Matera, in «La Gazzetta del Mezzogiorno», 29 ottobre 1999, p. 17).
Rafael Alberti più di una volta venne pure a Lecce, perché in questa città era nato il suo amico poeta e traduttore Vittorio Bodini (Lecce, 1914 – Roma, 1970). Nel 1963, per l’Einaudi, Bodini aveva pubblicato l’importante libro I poeti surrealisti spagnoli con un suo saggio introduttivo, all’interno del quale aveva dato ampio spazio alla poesia di Rafael Alberti. Scrive:
«Enfant prodige della generazione, più giovane di quattro anni di Lorca, Alberti era l’unico che potesse contrastare in parte il dominio di Federico nel cuore degli spagnoli. Erano entrambi andalusi, erano amici e rivali, ciò che non rappresenta una contraddizione sul piano della poesia» (p. XC).
Dopo aver scritto della «violentissima crisi umana e politica» che colpirà il poeta e che lo porterà a scrivere e pubblicare «il mirabile libro Sugli angeli», Bodini scrive che
«il tema albertiano degli angeli è tutt’altro che peregrino. L’angelismo è un ingrediente comune nella lirica spagnola, non soltanto moderna, che si avvale oltretutto di tutte le sfumature che corrono tra il significato puro e quello lessicalizzato: Tiene ángel si dice spesso nel linguaggio comune d’una persona che ha un dono naturale di grazie e spirito» (p. XCI).
Appena un anno dopo, nel 1966, Bodini pubblicherà, nella famosa collanina bianca dei poeti einaudiani, il libro Degli angeli di Rafael Alberti con la sua traduzione e il suo saggio introduttivo. Di Rafael indimenticabile resta la sua poesia Vittorio Bodini*, del dicembre 1971, tradotta da Francesco Tentori Montaldo e pubblicata su un libro collettaneo dedicato al poeta salentino e pubblicato dalla Casa editrice Lacaita di Manduria (Taranto, 1972). Nel 1967, Alberti aveva tradotto due poesie di Bodini, che aveva pubblicato in un suo volume spagnolo, Poesia española.
In internet trovo un intervento di Pierfranco Bruni – Vittorio Bodini e il suo legame con Rafael Alberti tra l’Andalusia e il Mediterraneo (2013) – che dà ragione del rapporto Alberti-Bodini. Scrive:
«Rafael Alberti tradusse nel 1967 due poesie del pugliese Vittorio Bodini (Bari 1914 – Roma 1970) che apparvero in Poesia espanola del novembre del 1967. Furono Vittorio Bodini e Oreste Macrì (un ispanista di provata esperienza di critico cimentatosi sul Mediterraneo di Quasimodo) a studiare il viaggio artistico di Alberti. Bodini tradusse dei testi di Alberti, essendo non solo uno studioso della letteratura e della cultura di Spagna ma un conoscitore della poesia del Novecento spagnolo. Oreste Macrì, che alla letteratura della Spagna del Novecento dedicò due testi, pubblicati dalla Garzanti, i quali restano, tuttora, delle pietre miliari sia sul piano storico sia su quello critico, scrisse dei saggi e antologizzò appunto le poesie di Alberti».
Il 15 gennaio 1983, Alberti venne a Casarano (Lecce), per presenziare all’Incontro con la poesia ed il canto di Spagna. Ad accompagnarlo c’era il cantante galiziano Sergio Ortega alla chitarra e Beatriz Amposta come voce recitante. Quella volta, Rafael fu straordinario: recitò numerose poesie a memoria, facendo l’omaggio al grande poeta spagnolo Antonio Machado (1875-1939), all’altro grande poeta e cineasta italiano Pier Paolo Pasolini (1922-1975), infine al nostro Vittorio Bodini. Quella volta, l’amico scrittore e poeta Luigi Scorrano gli fece una rapida intervista. Alla domanda
«Quali sono i temi della poesia che possono essere proposti senza timore che si tratti di temi vecchi?»,
Alberti rispose:
«I sentimenti eterni: l’amore, l’amicizia, il combattere contro la guerra, il lavorare per la pace. Se un poeta volta le spalle a queste cose è un poeta minore. I poeti seduti, che parlano solo dei loro problemi, sono poeti mutilati, incompleti. La poesia deve essere una cosa vivente» (v. Luigi Scorrano, La cosa vivente detta poesia, in «Il Quotidiano di Lecce», 19 gennaio 1983, p. 12).
Da anni mi reco spesso in America Latina, soggiornando nella casa del filosofo Sergio Vuskovic Rojo, col quale conversiamo di poesia spagnola. Inevitabile non parlare di Rafael Alberti, che anche Sergio aveva conosciuto molto bene. Allora Rafael era ancora vivo. Alla fine del mio soggiorno in Cile, Sergio mi diede un libro da portare in Spagna, a Puerto de Santa María, dove Rafael Alberti viveva. Non feci in tempo perché Egli se ne volò via per sempre da questo mondo di gioia e lacrime. Era il 31 dicembre 1999. Quel libro del poeta-pittore, che s’intitola Poesía. (1924-1944), formato in-8°, secuda Edición, Editorial Losada, S. A., Buenos Aires, dedicato a María Teresa e col colophon che dice:
«Este libro se terminò/ de imprimir el día 25/ de julio del año/ mil novecientos cua/ renta y seis, en/ la imprenta López,/ Perú 666, Nuevos Aires,/ República Argentina» [Questo libro si finì/ di stampare il 25 di luglio dell’anno/ mille novecento quaranta sei, nella/ Stamperia López,/ Perú 666, Nuevos Aires,/ República Argentina].
E ancora caro mi è l’altro libro, con testo spagnolo a fronte, “Alla Pittura. Poema del colore e della linea. 1945-1952” (Editori Riuniti, Roma 1971, formato in-4° oblungo, 224 pagine, con disegni e collages dell’autore, traduzione di Ignazio Delogu). In esso Rafael inserì le sue più belle poesie dedicate ai grandi della pittura mondiale (praticamente ci sono tutti o quasi), infine ce n’è poi una dedicata a Luca Pacioli (1445-1517), il frate geometra che nel 1509 pubblicò il “De divina proportione“, trattato di geometria illustrato da Leonardo con disegni di figure piane e solide in cui compare la “sezione aurea”. E “Alla divina proporzione” s’intitola la lirica di Alberti: «A te, meravigliosa disciplina,/ media, estrema ragione della bellezza/ che chiaramente onora la clausura/ viva nella trama della tua legge divina.// A te, carcere felice della retina,/ aurea sezione, celeste quadratura,/ misteriosa sorgente di misura/ che l’Universo armonico origina.// A te, mare dei sogni angolari,/ fiore delle cinque forme regolari,/ dodecaedro azzurro, arco sonoro.// Per ali ostenti un ardente compasso./ Il tuo canto è una sfera trasparente./ A te, divina proporzione d’oro».
* «VITTORIO BODINI// No, non sei morto, odo,/ odo ancora il tuo riso,/ il passo ti si rompe nella strada notturna/ ecco il tuo braccio,/ il tuo affetto che arde,/ poeta che con me, nella mia lingua,/ ripetevi le cose/ dell’animo, mio tragico/ fratello,/ così presto finito, e non dovevi,/ adesso che toccavi,/ che si udiva/ al suo colmo la tua voce tracciare/ trafiggendo l’oscuro/ il durevole segno luminoso…// Per Antonella, Dicembre 1971, Roma/ Rafael Aberti»(Francesco Tentori Montaldo tradusse la poesia di Alberti, alla quale aggiunse: «Mi è caro restituire in italiano il commosso saluto di Alberti all’amico Vittorio, la cui sembianza drammatica e allegra – una allegria che aveva del feroce, un dramma che s scioglieva nel riso: connubio che s’intende bene a Lecce come in Spagna – trascorre in questi versi con la verità della vita. Non dissimile difatti l’uomo che venticinque anni fa incontrai, aureolato di un giocoso delirio, nelle vie notturne di Madrid invernale che la sua fantasmagoria mutò di colpo in Roma da poco lasciata».