Quella matinée al “Santalucia”
di Rocco Boccadamo
Zio Donato, oltre ad aver sposato una sorella di mia madre, era anche mio padrino di battesimo, per tale ragione gli ero affezionato, diciamo così, in modo particolare e pure lui aveva un occhio di riguardo per me.
Contadino dalle fasce, sin da piccolo si era speso totalmente nel lavoro, sia al paesello, sia e specialmente in prolungate campagne di attività a Brindisi, presso una famiglia di proprietari terrieri, in seno alla quale, gradualmente, era divenuto collaboratore di fiducia per svariate funzioni: assistenza ai vigneti, raccolta e trasformazione dell’uva, conservazione del vino, cura degli uliveti e molitura dei frutti.
Insomma, zio Donato, pur essendosi formata una famiglia e arrivato ad avere un discreto numero di figli, passava la maggior parte dell’anno nel capoluogo messapico.
A parte la sede del suo mestiere di contadino, agricoltore, frantoiano, va rilevata la grandissima mole di operosità cui egli si assoggettava, senza orari, di là da ogni logica misura; d’altro canto, in quei tempi, non esistevano i mezzi moderni che alleviano molto le fatiche nei campi: in sintesi, il buon uomo, si “ammazzava” di lavoro.
E non è che, in caso di qualche acciacco, di cui, purtroppo, iniziò a essere toccato già da giovane, si recasse dal medico o in farmacia, i malanni, così come venivano, dovevano passare, da soli, ma, conseguentemente, col procedere, il suo fisico prese a risentirne.
Cosicché, saltuariamente, cadeva, addirittura, in pesanti debilitazioni, che lo costringevano a sottoporsi a serie terapie e cure.
Sotto questo regime di vita e di attività lavorativa, in pratica già prima dei cinquant’anni, le sue forze finirono col ridursi e, di conseguenza, zio Donato arrivò a scontare l’eccessiva operosità tenuta da ragazzo e da giovane, sotto forma di riposo impostogli.
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Poco più che quindicenne, io presi a fare il filarino a una ragazza quasi mia coetanea, bella figliola di buona famiglia abitante in un paese vicino, Rita, e, pur di incontrarmi con lei, nel pomeriggio, svolti i miei compiti scolastici, non esitavo a inforcare la bicicletta e mi recavo a casa sua, col pretesto di aiutarla nello studio.
Diventò una sorta di soccorso alla famiglia, il mio, giacché la madre di Rita, avendo capito che l’aspirante alla figlia era svelto e bravo, non esitava a chiedermi di dare una mano, per far capire le declinazioni del latino e le espressioni aritmetiche, anche alla sua secondogenita, frequentante le prime classi della media.
Ricordo, fra l’altro, che, in un’occasione, la premurosa genitrice giunse a dirmi: “Guarda, se fai entrare nella testa di Maria Rosaria il meccanismo di queste robe, io ti regalerò una penna stilografica, vedi è un’Aurora 88, non nuovissima, tuttavia perfettamente funzionante”.
Fu la prima volta, per me, di essere protagonista di una sorta di baratto, uno scambio in natura didattico culturale, ad ogni modo quell’Aurora 88, che mai e poi mai avrei potuto procurarmi diversamente, divenne mia.
Ma io pensavo a Rita, ben più che a insegnare matematica e latino alla sorellina e, man mano che andava avanti la frequentazione, crescevano pure le idee e l’iniziativa.
Nel 1958, proposi a Rita di trascorrere mezza giornata insieme, da soli, clandestinamente, a Lecce, località dove lei si recava quotidianamente per seguire i corsi della scuola superiore, mentre io studiavo a Maglie.
Di ritagliarci una mattinata lì, ovviamente marinando le lezioni, da parte mia, anziché scendere a Maglie dalla solita corriera che prendevano entrambi, avrei proseguito sino a Lecce, oltretutto il controllore delle Sud Est, con gli anni divenuto amico, non mi avrebbe neppure fatto pagare la differenza di biglietto.
Beninteso che, poi, all’orario di sempre, ce ne saremmo tornati alle rispettive case.
Concordammo, come data per l’avventura, il 2 di maggio, ossia a dire il giorno successivo alla festa nazionale del lavoro e anche l’indomani della festa del Santo Patrono nel paese di Rita, ricorrenza, quest’ultima, che, secondo copione, presupponeva di andare a letto tardissimo, dopo aver per di più dedicato poco tempo allo studio.
Così avvenne.
Arrivati nella città salentina verso le 7.45, si poneva il problema di trascorrere l’intervallo sino all’orario d’ingresso a scuola, in un posto nascosto, riservato, in modo da non essere visti, da compagni o professori di Rita, sicché pensammo di infilarci per qualche tempo nel cortile di un vicino palazzo.
Via, quindi, verso un cinematografo, il “Santalucia”, non molto distante, dove si eseguivano programmazioni anche di mattino, precisamente le matinée.
E’ ancora vivo il ricordo, quel giorno si dava un famoso film americano del 1956 “L’uomo che sapeva troppo”, con due famosi attori, James Stewart e Doris Day, la pellicola comprendeva una pregevole colonna sonora, nel cui ambito si aveva agio di ascoltare una stupenda canzone “Whatever will be, will be”, in italiano “Che serà, serà”, eseguita dalla personale voce dell’affascinante Doris Day.
Senza essere un appassionato di musica e di canzoni, quelle antichissime strofe, per giunta nel lessico anglosassone semisconosciuto, e la musica del brano mai mi sono uscite dalla mente.
A onore del vero, Rita ed io guardavamo sì le sequenze del film e ci gustavamo la canzone di Doris Day, però, nel buio o quasi della sala cinematografica, attendevamo anche a qualcosa d’altro, secondo le abitudini e nei limiti propri di quei tempi e in linea con il genere degli stimoli affettivi correnti fra ragazzi e giovani d’allora.
Recava il calendario, come anzi ricordato, l’anno 1958 e in estate, filarino con Rita a parte e un poco posto in ferie, avvenne un evento eccezionale, giusto in concomitanza con i campionati mondiali di calcio che segnarono l’esplosione della fama del grande e mitico Pelé.
Un altro mio zio, Alfredo, il quale prestava servizio in Polizia nel Friuli, reduce da un incidente di lavoro con la moto e collocato in convalescenza, pensò di trascorrere il periodo di riposo e di riabilitazione al paesello; nell’occasione, volle portare con sé la fidanzata, i cui genitori, però, non la fecero scendere al sud da sola, bensì in compagnia di una giovane cugina e di uno zio di quest’ultima.
Da parte mia, non persi tempo, trascurando completamente i mondiali di calcio, mi associai subito alla comitiva dei friulani.
Lo zio Alfredo era il fratello piccolo di mia madre, si passava con me appena otto anni gli ero legato, sicché, in sostanza, presi a fare tutto quello che compivano i neo arrivati, fra cui trascorrere parte delle giornate in riva al mare, tenendo compagnia, per non farla “annoiare”, alla biondissima cugina, Teresina, alla Marina di Andrano, nei pressi della caratteristica “Grotta Verde”.
Lì, lo zio Donato menzionato all’inizio, possedeva una casetta di villeggiatura, dove, in quel periodo, in assenza della moglie e dei figli, emigrati temporaneamente in Basilicata per la campagna del tabacco, si era spostato con i suoi acciacchi.
Ebbe a rivelarsi indubbiamente bella, quella vacanza, in tutto diversa dalle precedenti, io non lasciai, nemmeno per un istante, la giovane cugina, anche se la medesima mi aveva confidato di avere un moroso, dalle sue parti.
Con zio Donato, nel ruolo di spettatore silenzioso di parole, contatti e diatribe fra il nipote e la giovane del nord est.
Finito il periodo, la comitiva, ovviamente, se ne partì dal paesello e, quanto a me, ripresi i contatti e i rapporti con Rita.
Iniziò il nuovo anno scolastico, si avvicinò velocemente la primavera; bastò appena uno sguardo d’intesa affinché Rita ed io ci determinassimo a ripetere la giornata, la mattinata d’evasione in quel di Lecce.
Nella seconda edizione, però, niente cinematografo ma semplicemente una passeggiata verso le campagne che, a quell’epoca, si trovavano a portata di mano rispetto all’abitato, alle scuole e al centro cittadino.
Così, trascorremmo una gradevole parentesi di due – tre ore di tranquillità fra prati fioriti, scogli e fazzoletti di terra verdeggianti, dopo di che ci dirigemmo verso la stazione delle autocorriere per il rientro a casa.
Rita salì per prima sul mezzo, dopo di che, mentre, a mia volta, mettevo piede sull’autobus, ci volle poco perché scorgessi, seduto in prima fila immediatamente dietro al conducente, una figura familiare, notissima, si trattava, guarda il caso, di zio Donato, che, pensai subito, si era verosimilmente recato a Lecce per una visita medica o un controllo specialistico.
Non impiegò un istante, neppure zio Donato, a notarmi e gli venne del tutto naturale dire: “Nipote, e tu che fai qui, hai cambiato scuola, non dovresti essere a Maglie?”.
Da parte mia, ovviamente, non gli diedi alcuna risposta, rimasi con il volto impietrito, perplesso e preoccupato di eventuali scoperte dell’altarino della “vacanza” dalle lezioni con Rita.
Anche il bravo uomo capì subito di essere stato, diciamo così, indiscreto, tant’è che, in un baleno, venne ad aggiungere: “Oh, nipote, guarda che io non ho visto nulla, naturalmente non ho notato nulla”.
I tratti del mio viso si allentarono e anche la mia mente tornò leggera.
Lo zio, convintosi di aver rimediato all’iniziale domanda inquisitoria e che, dentro di me, era superata ogni remora di pericolo, girandosi spontaneamente ancora una volta, ebbe a chiedermi: “Nipote, dammi una sigaretta, adesso!”. Fu automatico che io sfilassi dal mezzo pacchetto di nazionali senza filtro un cilindretto bianco riempito di tabacco e glielo porgessi.
Forse, quello descritto, il dono inconsueto di una sigaretta tra nipote e zio, da figlioccio a padrino, ha rappresentato l’ultimo gesto concreto, l’atto conclusivo della vicinanza simultanea fra due generazioni, un binomio d’intensi affetti famigliari, due vite assolutamente diverse con interessi e itinerari dissimili, e tuttavia sempre complementari e vicendevolmente integrate.
Sono, questi, minuscoli particolari che mi fanno serbare dentro, vivi, ricordi lontani nel tempo, tracce che hanno segnato stagioni spensierate e parallelamente di crescita, fonti e presupposti per la maturazione verso l’età adulta, con le correlate peculiari esperienze, novità, voci e cifre.