Quando per mangiare a Gallipoli si andava da Zi Che’
di Alessandra De Matteis
Siamo alla fine degli anni ‘60 del Novecento. Gli anni del boom economico, della beat generation, della rivoluzione culturale e della musica pop.
Peppino e Carmelina, al secolo Giuseppe De Vito e Carmela Scali, sono una giovane coppia: lui gallipolino, lei di origini calabresi.
Sono gli anni della minigonna e dei viaggi on the road, per dirla alla Kerouac, ma Carmelina preferisce il grembiule e stare in cucina.
La sua musica è quella dell’olio che sfrigola, del sugo che “pippia”.
Peppino ha lavorato per molti anni nella zona Acqua Acetosa della capitale come cameriere, prima di decidere di tornare a casa. Inizialmente apre un ristorante su Corso Roma, “Da Peppino il peschereccio”, che nel 1969 ospita il ricevimento di nozze sue e di Carmelina, poi va a lavorare in un altro ristorante della città, tutt’oggi rinomatissimo.
Verso la metà degli anni ’70 arriva l’occasione di rilevare un’attività nell’area del mercato del pesce: Zi Ché, versione dialettale e familiare di “Zio Michele”, dal nome dell’allora proprietario Michele Cavalera.
Dopo una trattativa lunga e laboriosa lo acquista Antonio, fratello di Carmelina, che con lei e Peppino costituisce una società. Viene mantenuto il nome originario del ristorante e avviata un’attività che porterà una vera rivoluzione nella storia della gastronomia e nel modo di fare ristorazione locali.
I tre si dividono i ruoli: gli uomini addetti alla sala e alle pubbliche relazioni, lei ai fornelli.
Il successo è immediato ed esplosivo: a un certo punto si rende necessario transennare l’ingresso per contingentare gli avventori. A coloro che restano fuori in attesa del loro turno Antonio e Peppino offrono vino, frutti di mare e pittule con il pesce, così l’ospite non si sente mai trascurato e anzi, l’improvvisato aperitivo e l’attesa diventano parte integrante del menù.
La cucina semplice di Carmelina, con qualche contaminazione dovuta alle sue origini e all’influenza degli anni trascorsi a Roma dal marito, conquista gli esigenti palati dei locali e non solo. I membri del Circolo Culturale, ragazzi del luogo uniti dall’amore per le tradizioni, il teatro e la città, diventano clienti abituali, ritrovandosi spesso qui dopo le lunghe riunioni e le prove per l’ennesima rappresentazione teatrale che in quegli anni portano in scena. Turisti e ospiti di eccezione della città, semplici frequentatori e personaggi di spicco dello spettacolo e della cultura giunti in occasione del Festival di Casa Nostra, poi della Terra del Sole e ancor più tardi Premio Barocco, fanno tappa in questo ristorante.
Negli anni di Radio Azzurra Gallipoli, dove Antonio insieme all’amico Vincenzo Liaci tiene un programma di musica country, nel locale viene organizzata una cena alla quale partecipano grandi nomi della musica italiana del tempo. Tra questi, Franco Califano, il quale si distingue nell’occasione per eccentricità, ingannando la fame nell’attesa dei ritardatari -racconta Antonio- mangiando due garofani posti a decorazione della tavolata.
È cliente fisso del ristorante Pierangelo Bertoli, che ogni volta che un suo spettacolo si tiene a Gallipoli o nei dintorni si ferma a cena da Zi Ché, diventando così “uno di casa”, e a fine serata ripropone l’esibizione da poco conclusasi sul palco e regala inediti in anteprima.
Tra gli avventori c’è anche Vasco Rossi e ci sono anche i Pooh, che una notte di luglio di fine anni ‘70, alle due e mezza, mangiano un piatto di pasta e fagioli alla gallipolina, condita con i frizzuli, che vale alla cuoca i migliori complimenti della band.
Gli orari di lavoro sono pesanti, ma la soddisfazione è tanta: Zi Ché diventa uno dei ristoranti più popolari di tutta la provincia e della regione, ci sono delle famiglie che, nei fine settimana d’inverno, partono da Bari per venire a mangiare in questo ristorante.
Non è raro che, per fare bella figura con una donna, mariti fedifraghi la portino a cena qui, salvo essere sorpresi dalla moglie insospettita da certi movimenti e costringendo i membri dello staff a improvvisarsi mediatori e pacificatori.
La forza dell’attività è la familiarità tra collaboratori, a qualunque titolo -che ogni sera a fine turno e a qualunque ora si ritrovano a cenare intorno allo stesso tavolo- e tra questi e gli ospiti. Ma lo sono anche l’innovazione, la capacità di fare marketing e di introdurre con garbo, accanto ai piatti della tradizione, prodotti nuovi e pietanze fuori dai canoni e dagli standard del luogo e dell’epoca.
Mantenendo sempre alto il livello qualitativo delle materie prime, conservate, preparate e servite con estrema cura, si propongono sul mercato gastronomico locale cibi come le alici alla marinara, spinate una per una, fatte riposare in una marinatura di aceto e limone fino a totale sbianchimento, poi scolate e servite condite con olio e limone.
Sempre sulla fine degli anni ’70 viene proposto il lancio del vino “Rosa del Golfo”, in una promozione del tutto originale che prevede non solo che la prima bottiglia consumata sia in omaggio, ma che sia servito in abbinamento alla paella, alla quale pure si accompagna la sangria, prodotti per l’epoca assolutamente innovativi a livello locale.
Carmelina ai fornelli è un vulcano di iniziativa: crea ricette che non scrive, le tiene a mente, ma non ne è gelosa e le rivela -o concede ai suoi collaboratori di rivelarle- a chi le domanda. Solo a chi lo fa con gentilezza, però: particolarmente richiesta è quella del risotto alla pescatora, che Peppino di Capri, trovandosi a Gallipoli per il Festival della Terra del Sole, non riesce ad ottenere.
Carmelina ha fantasia, e così si inventa i conchiglioni alla Zi Ché, unici, impossibili da replicare in maniera improvvisata e da mani diverse dalle sue: solo lei sa dosare per il condimento frutti di mare e ventricina, un salame piccante, in un equilibrio allora impensabile tra due sapori così differenti, e un’assoluta novità per i gusti locali.
Sono, tuttavia, sempre ricette basate su metodi di preparazione della tradizione e classici: per lei la sferificazione è quella perfetta di pittule e polpette che friggono in olio bollente, altro che liquidi alginati bagnati in soluzioni di calcio, azoto liquido e moderne diavolerie gastronomiche!
E poi prepara una pasta alla gricia che ha fatto sognare intere generazioni, anche quella venuta dopo la chiusura del ristorante, ma che ha avuto la fortuna di trovare aperte le porte di casa della coppia, sempre pronta a ospitare gli amici.
Peppino è silenzioso, paziente; lei è minuta, ma è un gigante quanto a carattere e forza. Il riposo è un concetto praticamente sconosciuto: negli anni ‘80 l’unico giorno di chiusura che si concedono è il Venerdì Santo, il giorno della processione dell’Urnia. Una processione alla quale Carmelina, a partire da questi anni, non manca. Mai, e non da semplice spettatrice: finché le è stato concesso, ossia fino agli anni ’90, quando fu proibito all’interno della processione l’inserimento di determinate figure non “liturgiche”, ha vestito tra le file della Confraternita di Santa Maria degli Angeli i panni della “penitente”, con una folta parrucca, ai piedi solo un paio di calzettoni rigorosamente bianchi, e nelle mani, ogni anno diversi, i simboli della Passione.
Peppino la segue: di quella confraternita diventerà sodale e, più tardi, amministratore. È lui che, nella sagrestia dell’oratorio confraternale, ogni anno dirige le operazioni di preparazione delle pagnotte ripiene di tonno, capperi, pepe e abbondante olio che i suoi confratelli mangeranno durante la sosta dell’Urnia.
Zi Ché chiude i battenti all’inizio degli anni ’90, ma le sue ricette, i suoi sapori e profumi, sono rimasti nell’intimità di casa di Carmelina e Peppino, a disposizione dei fortunati amici e parenti che si sono seduti intorno alla loro tavola.
Anche loro non ci sono più, da poco tempo.
Ma il loro ricordo, come quello di Zi Ché, è più che mai vivo nei gallipolini che li hanno conosciuti e che sono stati loro clienti.