Quando la cultura si piega al potere: il tradimento di un valore supremo
di Pompeo Maritati
La cultura è molto più di un insieme di conoscenze acquisite o di tradizioni tramandate: è l’anima di una società, la forza vitale che ne guida lo sviluppo, plasma le coscienze e ne orienta le scelte. È il fondamento su cui si costruiscono le basi etiche, sociali ed economiche di un Paese, un faro che illumina il cammino verso il progresso condiviso. Non può essere relegata al ruolo di ornamento o appannaggio di pochi privilegiati, né tanto meno piegata alle logiche di potere. La cultura, quando autentica, è strumento di libertà, catalizzatore di trasformazioni e garanzia di una società capace di riconoscere e tutelare il valore della diversità, dell’equità e della verità. Tuttavia, il panorama degli ultimi decenni racconta una storia diversa e preoccupante: quella di una cultura snaturata, spesso ridotta a servire interessi particolari anziché il bene comune.
In una società che si definisce civile, la cultura dovrebbe rappresentare il volano intellettuale e comportamentale per ogni progresso. Conoscenza, approfondimento e ricerca non sono semplici esercizi accademici, ma strumenti attraverso i quali si coltivano pensiero critico e responsabilità collettiva. Una cultura autentica non si limita a preservare il passato, ma stimola il presente e costruisce il futuro, ispirando un dialogo continuo tra le generazioni. Tuttavia, ciò che si osserva è un processo di progressiva strumentalizzazione, in cui la cultura è stata addobbata con i colori di chi detiene il potere. Intellettuali e accademici, che un tempo erano visti come fari di libertà, si sono spesso trasformati in interpreti compiacenti di un sistema di potere che usa il sapere come strumento di controllo, piuttosto che di emancipazione.
Questo fenomeno ha generato un vizio di fondo che mina le fondamenta stesse della cultura: anziché operare nell’interesse del valore supremo della conoscenza e della verità, una parte significativa della classe intellettuale ha preferito adagiarsi al fianco del potere politico, ansimando per ottenere favori e coperture. Questo atteggiamento non solo snatura il vero scopo dello studio e della ricerca, ma alimenta un clima di sospetto e sfiducia tra i cittadini, che non riconoscono più nella cultura un’ancora di salvezza, ma un ulteriore strumento di manipolazione. La sensazione diffusa è che persino pagine di storia e teorie filosofiche siano state reinterpretate o addirittura violentate per piegarle a narrazioni utili a consolidare determinati equilibri. Alcune verità scomode sono state volutamente occultate, mentre altre, più funzionali, sono state elevate a dogmi, spezzando quel rapporto di fiducia essenziale tra la cultura e il suo pubblico.
Questa deriva ha effetti devastanti sia su chi lavora con passione e onestà nel campo della cultura sia sulla società nel suo complesso. Da un lato, chi ama davvero fare cultura si sente emarginato, frustrato da un sistema che premia la compiacenza anziché il merito e la sincerità. Dall’altro, i cittadini, disorientati, non sanno più a chi rivolgersi per cercare la verità. La cultura, che dovrebbe essere un faro nella nebbia dell’incertezza, si trasforma in un’altra fonte di ambiguità, alimentando un senso di alienazione che erode i legami sociali. Quando la cultura diventa strumento del potere anziché critica del potere, si perde uno degli elementi più preziosi di una società civile: la capacità di mettere in discussione, di aprire nuove strade e di offrire una visione alternativa.
Il disorientamento che ne deriva si manifesta in diversi modi: dall’indifferenza verso il patrimonio culturale alla crescente sfiducia nelle istituzioni educative, dalla polarizzazione del dibattito pubblico all’incapacità di affrontare con serenità temi complessi. La mancanza di una cultura autentica e indipendente priva la società della sua bussola etica, rendendo difficile orientarsi in un mondo sempre più caotico e frammentato. Questo vuoto viene spesso colmato da narrazioni superficiali o manipolatorie, che non fanno altro che alimentare divisioni e conflitti.
Per chi ama davvero fare cultura, questo scenario è profondamente scoraggiante. L’impegno nello studio, nella ricerca e nella divulgazione non trova il riconoscimento che merita, mentre il sistema premia chi si allinea e si conforma. Eppure, proprio in questo contesto, la cultura autentica diventa più che mai necessaria. È il momento di rivendicare il ruolo della cultura come spazio di libertà e confronto, come terreno su cui costruire un dialogo aperto e onesto, capace di superare le logiche di potere e di rispondere ai bisogni profondi della società.
La rinascita della cultura richiede coraggio e determinazione, ma soprattutto una visione chiara del suo ruolo nella società. Non può esserci sviluppo etico, sociale ed economico senza una cultura libera, che metta al centro la verità e la dignità dell’essere umano. Questo significa ripensare il rapporto tra cultura e potere, restituendo alla conoscenza la sua funzione primaria: quella di illuminare, di interrogare, di mettere in discussione. Significa anche creare le condizioni per una partecipazione più ampia e inclusiva, in cui ogni cittadino possa sentirsi parte attiva di un processo di crescita collettiva.
La cultura non è un privilegio di pochi, ma un diritto di tutti. È un patrimonio comune che va tutelato e valorizzato, non piegato a logiche di convenienza o interesse. Tornare a credere nella cultura significa tornare a credere nella possibilità di un futuro migliore, in cui la conoscenza non sia un lusso, ma una risorsa condivisa, capace di alimentare speranza e progresso. Solo così potremo superare il disorientamento e la sfiducia che caratterizzano il nostro tempo, ritrovando nella cultura la forza e l’ispirazione per costruire una società più giusta, più equa e più umana.