QUANDO GIACINTO URSO MI DISSE: «IO NON SONO POETA» ED IO GLIRISPOSI: «PER ME TU SEI IL POETA SALENTINO MIGLIORE DI TUTTI»
di Maurizio Nocera
La sua ultima lettera è di qualche settimana fa: i suoi auguri delle feste di fine anno a margine
della copertina del libro di Lino De Matteis, Storia del Grande Salento (Lecce, Edizioni Grifo,
2024). «Auguri di ogni bene, cari Maurizio e Consorte./ Soprattutto, salute e serenità siano
vostre amiche.// Giacinto Urso,/ con i suoi 99 anni di età».
Sul retro della busta di questa lettera non trovo la mia solita R di risposta, ed ora mi sento
profondamente addolorato all’idea che forse non ho fatto in tempo a rispondergli. E forse
non mi ha letto un’ultima volta. Questo oggi mi provoca un immenso tormento. Ma, quando
si è trattato di essere in corrispondenza con Giacinto, io sono stato sempre pronto a
rispondergli. E se non lo facevo egli, con una garbatezza che non ho mai riscontrato in
nessun altro, me lo faceva ricordare.
Da quanto tempo ci conoscevamo. Da molto. Sicuramente dagli anni ’70. Ogni anno
c’erano, oltre agli occasionali, quattro momenti di incontri ufficiali, ed erano quelli collegati a
quattro date: le due canoniche, Natale e Pasqua, poi il 25 Aprile (festa della Liberazione
nazionale dal nazifascismo) e il 2 giugno (festa della Repubblica). Alle feste canoniche si
trattava sempre dello scambio di auguri mentre, per quanto riguardava il 25 Aprile, avveniva
l’incontro a cui egli teneva di più.
L’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia (ANPI) di Lecce componeva una delegazione di
partigiani, patrioti, collaboratori antinazifascisti, parenti dei Caduti Salentini per la patria, la
libertà e la democrazia, più un amico dell’ANPI che ero io. La delegazione era sempre
guidata dal partigiano Enzo Sozzo, il leggendario presidente dell’associazione leccese; al suo
fianco, il vice presidente Salvatore Sicuro quindi il segretario provinciale Salvatore Fabrizio.
Sozzo chiedeva anche la mia presenza, perché, bontà sua, io rappresentavo la generazione
successiva a quella dei partigiani. Giacinto Urso, all’epoca presidente della provincia, ci
accoglieva nel salone di rappresentanza. Al suo fianco amava avere Enzo Sozzo e Salvatore
Sicuro. Era sempre lui che iniziava a parlare dicendo: «So perché siete qui. Dovete sapere che
ho già provveduto a fare la delibera». Poi passava a chiedere a tuti i presenti come stavano in
salute. Infine faceva gli auguri di un buon 25 Aprile e ci salutava dando la mano a tutti. La
dava anche a me, che mi guardava chiedendosi “ma questo giovane chi è, perché è qui con i
partigiani?”. Allora Enzo Sozzo, che per me è stato come un secondo padre, gli spiegava i
motivi della mia presenza. Quando era finita la riunione e prendevamo la via del ritorno alla
nostra sede di via Coniger, Enzo ci diceva: «quest’anno faremo un buon 25 Aprile.
Il presidente è stato veramente generoso». Ed era effettivamente così: tra tutti i presidenti che
si sono avvicendati alla presidenza della Provincia, Giacinto Urso rimane quello che più di
ogni altro ha dimostrato di essere molto legato ai valori della Resistenza antinazifascista.
Nel 1993, Enzo Sozzo morì e toccò a me cercare di dare sostegno alle attività dell’ANPI. Gli
altri partigiani avevano un’età avanzata ed erano dispersi per l’intera provincia. Nel
raccontare questa storia, ho omesso finora di scrivere che io ero, o meglio mi additavano
come una sorta di “capa in-gloriosa”, nel senso che passavo per essere un irascibile
rivoluzionario extra-parlamentare. Enzo Sozzo, però, mio secondo padre, non si faceva
scrupolo di questa voce diffusasi per la provincia, per cui mi diede sempre credito. Scrivo
questo perché, quando mi trovai davanti al lungo elenco (circa 800, per ognuno dei quali
occorreva confezionare una busta con dentro la tessera e una lettera di benvenuto) di
tesserati all’associazione, cominciai a leggere i nomi degli iscritti e mi accorsi che non pochi
erano democristiani o “liberi battenti”. Enzo Sozzo aveva fatto un ottino lavoro di
coinvolgimento.
Data la mia “capa in-gloriosa” di allora, decisi di non confezionare le buste
da inviare a quei democristiani che risultavano essere ai vertici della DC leccese, tra cui l’On.
Giacinto Urso (per antonomasia egli è stato sempre considerato un onorevole deputato della
Camera). Apriti cielo! Non l’avessi mai fatto. Le lettere con le tessere (un lavoraccio che non
vi dico) io le inviavo tra novembre e dicembre. Passò gennaio e arrivò pure febbraio.
Cominciarono ad arrivarmi letteracce del tipo: «Ma perché non mi hai inviato la tessera di
quest’anno?». «Ma chi sei tu che ti sei permesso di fare questo?», Ecc. ecc. Mi arrivò anche la
lettera dell’On. Giacinto Urso, il quale non si era dimenticato di quel giovane componente la
delegazione dell’ANPI dei 25 Aprile. A differenza delle altre letteracce, la lettera
dell’onorevole fu alquanto garbata. Scriveva che era amico del presidente nazionale
dell’ANPI, senatore Arrigo Boldrin (Bulow) e che, personalmente, era anche amico di Enzo
Sozzo, il quale lo aveva tesserato (ad honorem) alcuni decenni prima. In quella lettera
raccomandata, Giacinto aveva messo una banconota di 100mila lire, una somma che neanche
il comm. Fiocco aveva mai versato. E poi un’altra particolarità, l’onorevole mi inviava la sua
lettera apostrofandomi con «Caro Nocera». Allora era ancora deputato.
Mi precipitai a portargli personalmente la tessera ad honorem vergognandomi per quel che avevo fatto. Chiesi
scusa, ma il suo volto sereno e le sue parole gonfie di bontà mi fecero capire che mi trovavo
davanti ad una persona molto diversa dai soliti democristiani. Gli chiesi se gli potevo inviare
tramite posta delle notizie dell’ANPI. Egli però, mi passò il suo bigliettino da visita
dicendomi «Puoi venire a trovarmi anche a casa, io abito qui a Lecce».
Fu così che nacque per me una bella amicizia. Io scribacchiavo dei versi, che non ho mai
capito se poetici o altro. Comunque, pubblicandoli, di tanto in tanto, glieli recapitavo o per
via postale o brevi manu. La nostra corrispondenza, al di fuori dell’ANPI, si è andò così
arricchendo sempre più. Sempre sul piano della poesia. Cominciai a chiedergli qualche suo
testo per la rivista «Anxa News», diretta da un suo vecchio amico democristiano come lui,
Luigi Giungato di Gallipoli. Infine, quando cominciai ad avere un po’ più di coraggio, gli
chiesi delle poesie. Mi ero accorto che scriveva versi, ma non li pubblicava. Alla mia richiesta
di darmi dei versi, mi rispose «Ma io non sono poeta». Insistetti. Su questo versante la sua
timidezza era oceanica. Insistetti ancora. Andai a trovarlo più volte, anche col comune amico
Luigi Giungato.
Giacinto aveva forse timore di essere scoperto dai suoi “altri amici” come versificatore. Per
questo dovevo essere io a dargli quella fiducia che a un vero poeta si deve dare per aprirsi
all’aria aperta. La mia esperienza di vicinanza con poeti del calibro di Salvatore Toma,
Antonio L. Verri, Claudia Ruggeri, Arrigo Colombo, Giovanni Bernardini, Aldo De Jaco,
molti altri ancora, mi spinse ad essere anche un po’ più sopra le righe. Così Giacinto
cominciò ad avere fiducia in me. Da una decina d’anni le sue poesie mi sono giunte quando
per via postale, quando, ultimamente, anche per via mail. Non aveva il computer, ma
affidava le sue missive ad alcune agenzie. Nella primavera scorsa ero andato a trovarlo e gli
avevo chiesto una lirica su questo terribile momento che l’umanità sta vivendo. Più di 50
guerre guerreggiate sul pianeta, col pericolo di una guerra mondiale nucleare. Ciò che però lo
angosciava di più erano le due guerre più vicine a noi, quella in Ucraina e quella
mediorientale. Era tormentato dall’uccisione di tanti bambini nella Striscia di Gaza.
Passarono i mesi. Egli aveva deciso di ritirarsi nella sua Nociglia. Me lo diceva da anni. Non
voleva morire a Lecce. Ultimamente, io e Gigi Giungato gli dicevamo «Prepariamoci alla
festa dei 100 anni». Sorrideva dolcemente. Poi piegava il capo da un’altra parte. Un giorno, la
settimana di Pasqua, arrivò quella poesia che gli avevo chiesto mesi prima. Fu per me
un’esplosione di umanità, un cielo che si aprì nell’immensità dell’azzurro infinito. Mi venne
da piangere. E piansi. Giacinto, quando ancora neanche il Papa si era accorto di quel che
stava accadendo in terra di Palestina, e non si era ancora pronunciato, ha scritto un testo –
Genocidio – che resterà fisso nell’orizzonte umanitario di ogni tempo come fissa è la stella
polare.
«Quado la prosa diviene insufficiente, resta soltanto la poesia dei non poeti, quale io sono.//
GENOCIDIO// Da mesi, nelle terre e sulle rive del Medio Oriente,/ giacciono migliaia di
teste mozzate, anche di bimbi./ Ovunque, scorrono rigagnoli di vermiglio sangue/ che si
impasta con le aride sabbie, sferzate da/ un sole rovente, che piange lacrime di pietà
tradita.// Tanta ferocia si chiama guerra.// Genocidio crudele che non avrà né vincitori né
vinti./ Si avranno, soltanto, uccisioni crescenti,/ disumani orrori, vendette antiche e deserti
di tombe./ Domani, forse, sarà peggio, quando, persino,/ il giorno sarà cupa notte e più
aspra sarà/ la lotta tra fratelli./ Risorgi, o Pace, spenta dal fuoco dei malvagi!/ Lo impone la
sequela delle comuni fosse senza nomi./ Ancor di più, lo esige la paura di chi attende/ il suo
turno e, pur vivo, si sente già morto/ se la speranza non avrà alba risorta.// Giacinto Urso/
con i suoi quasi 99 anni di età.// 2024. Che la Pasqua continui, sia di Resurrezione, anche domani, e
la Pace non sia ammutolita./ È necessario che l’io diventi sempre più Noi per arginare il crescente,
minaccioso straripamento dei mali del mondo e per costruire una possente diga di spiritualità eccelsa e di
democrazia plenaria./ In sintesi: chiese da ripopolare e urne elettorali pure. Scusate se mi ripeto anche in
questo aprile».
Con Gigi Giungato pubblicammo immediatamente su «Anxa News» questa eccelsa poesia,
poi gli telefonammo per complimentarci. Gli chiedemmo di avere pazienza. Che la Signora
in nero poteva pure aspettare ancora un po’. I 100 anni sarebbero arrivati quanto prima. Lo
sentimmo lontano, come uomo che serenamente guardava l’orizzonte del tramonto. Ci
salutò come sempre aveva fatto: «Siate sereni e guardate avanti».
Ecco quanto. Quando ieri (14 dicembre 2024) il presidente del Cenacolo poetico “Giuseppe
De Dominicis” di Cavallino, il giornalista Ludovico Malorgio, mi ha telefonato per darmi la
triste notizia, gli ho chiesto se potevamo immediatamente andare a Nociglia. Sì, potevamo
andare. Desideravo ancora una volta salutare il mio vecchio amico Giacinto Urso, poeta tra i
poeti. L’ho visto lì, supino nella bara, col volto tendente al sorriso e con nella mano il testo
che ha amato oltre ogni altro: la Costituzione Italiana. La commozione è stata forte, ma l’ho
nascosta dentro un mio stupido andare avanti e indietro nella stanza della casa di Nociglia
che per la prima volta vedevo. Sono rimasto stupito davanti alla modesta stanza che
raccoglieva le spoglie del mio amico poeta. Stupito e smarrito. Non c’era alcuna insegna
simbolica, nessuna corona o mazzo di fiori. Ho chiesto al nipote spiegazioni: «Ha scritto che
sia fatto così come vedete». Mi è venuto in mente Francesco d’Assisi. Anche Francesco era
stato un poeta.
Quando una vita se ne va, è sempre il cielo che si apre per accogliere la sua anima. Che il
transito verso i luminosi sentieri dell’incomparabile sia lieve e profumato come è stata la sua
vita.