Quando a Venezia otto secchi di acqua costavano un soldo. Di Gustavo Vitali
“Venexia è in aqua et non ha aqua”. Con queste parole qualcuno cinque secoli or sono ha sentenziato quanto fosse paradossale per una città come Venezia, circondata dall’acqua, avere invece notevoli difficoltà nell’approvvigionamento di acqua potabile. Addirittura l’acqua dolce bisognava comprarla!
Dobbiamo l’osservazione alla penna di Marin Sanudo il Giovane, personaggio politico e scrittore vissuto tra il 1466 e il 1536, noto per i suoi diari che ci sono pervenuti in 58 volumi manoscritti per complessive 40.000 carte, tutt’oggi insostituibile punto di riferimento per gli studiosi di storia veneziana.
Acqua: una risorsa preziosa per Venezia
Le condizioni geofisiche di Venezia, edificata in mezzo alle acque della laguna su 118 tra isole e isolette, hanno costituito nei secoli e sotto diversi punti di vista un elemento di sicurezza, oltre che una via facilmente disponibile per i traffici commerciali e per l’espansione territoriale che hanno fatto della Serenissima una potenza mondiale fin dal Medio Evo.
Ma stiamo parlando di acqua salata …
Del tutto assente quella dolce, purtroppo, in una città passata, tanto per restare nel secolo del Sanudo, dai 130 mila abitanti nel 1540 ai quasi 170 mila nel 1563, terza città d’Europa dopo Parigi e Napoli che alla fine del secolo ne contavano oltre 200 mila. Poi la peste, tra il 1575 e il 1577, ridurrà drasticamente il numero, tanto che una decina d’anni dopo si censiranno 148.627 abitanti.
Quindi il pozzo aveva rappresentato fin dalle origini di Venezia un impianto di primaria e pubblica utilità per il benessere e per la sopravvivenza della città stessa e per avere acqua potabile si era lavorato sodo di braccia e di cervello.
Non essendo possibile scavare pozzi artesiani per la conformazione idro-geologica della laguna, l’approvvigionamento idrico era stato affidato a un ingegnoso sistema per la raccolta di acqua piovana, l’unica acqua dolce a disposizione, sebbene in modo saltuario e insufficiente alle esigenze della popolazione. Infatti si era dovuto integrare la pioggia con altra acqua trasportata per barca dalla terraferma come vedremo in seguito.
Il pozzo veneziano
Era nato così e si era perfezionato con il tempo il pozzo cosiddetto “veneziano”, impianto complesso e costoso, una vera e propria cisterna sotterranea dove veniva incanalata l’acqua piovana opportunamente filtrata e depurata. L’impegno era stato enorme dovendo innanzitutto disporre di superfici vaste attorno al pozzo per raccogliere quanta più pioggia possibile e tale necessità aveva spinto a sfruttare per intero la superficie di “campi” e “campielli”, cioè piazze grandi e piccole, e delle corti più ampie.
Si scavava tra le sette e le dieci braccia, cioè approssimativamente tra i cinque e sette metri, scendendo sotto il livello della laguna, protetti da paratie provvisorie e stando accorti a non turbare la staticità degli edifici circostanti. Lo scavo veniva rivestito di argilla impermeabile per impedire le infiltrazioni di acqua salmastra. La natura del sottosuolo lagunare, argilloso già di suo, favoriva l’operazione. Lo spazio ottenuto veniva riempito di sabbia di fiume gettata a strati di diversa finezza che svolgeva un’eccellente azione filtrante. Quando la profondità non era sufficiente, si provvedeva a sopraelevare anche l’intero campo pur di ottimizzare l’impianto.
La pioggia veniva raccolta tramite le “pilelle”, tombini disposti in modo simmetrico attorno al pozzo sotto i quali era realizzata una struttura in mattoni a forma di campana aperta sul fondo, cosicché molta acqua veniva convogliata direttamente verso le sabbie di filtraggio. La pavimentazione attorno alle “pilelle”, inclinata verso queste per favorire una veloce raccolta, era costituita da lastre di pietra d’Istria che poggiavano su uno strato di muratura.
La canna del pozzo scendeva nel sottosuolo al centro dell’area interessata. Sul fondo della cisterna poggiava su una base in pietra d’Istria. Per l’elevazione fino alla superficie si utilizzavano mattoni speciali, denominati “pozzali”, che consentivano all’acqua filtrata dalle sabbie di entrare nella canna dove veniva prelevata con i secchi.
Le “vere da pozzo”, opere d’arte
La parte sporgente del pozzo, con accesso tramite un paio di gradini, terminava con il puteale, o ghiera, elemento architettonico chiamato anche “vera da pozzo”, estremo e appariscente lembo di tutta la vasta e laboriosa opera giacente sotto terra.
In origine era stato solo un parapetto protettivo costruito sovente con materiale ricavato dalle rovine di Altino e Julia Concordia, antiche città di terraferma. In seguito si era passati ancora una volta alla pietra d’Istria e alle fusioni in metallo e le “vere da pozzo” erano andate via via acquistando notevoli connotazioni artistiche, a volte parecchio elaborate e di varie forme. Le si decorava con elementi ispirati alla natura, come piante, fiori e frutta, con animali, come pavoni e leoni, oppure con putti e angeli. Quasi tutte tra gli ornamenti recavano lo stemma della famiglia che aveva fatto costruire il pozzo come elemento connotativo e riconoscitivo. Infatti, essendo la costruzione di un pozzo un’opera piuttosto costosa, il governo sollecitava le famiglie più abbienti a costruirne a proprie spese per il pubblico utilizzo.
Due esempi per tutte: le vere poste ai pozzi nella corte di Palazzo Ducale, forgiate in bronzo nel 1559 da Alfonso Alberghetti, antica famiglia di fonditori e nota come fornitrice di cannoni per la flotta della Serenissima, e Niccolò dei Conti nel 1556. Notevole dal punto di vista artistico anche quella del pozzo della corte interna del Fondaco dei Turchi spartita in otto scomparti, due per lato e abbelliti da formelle, che modificano in quadrata l’originale forma cilindrica del puteale.
Il tocco finale era rappresentato dai “masegni”, tipico blocco di pietra intagliato in modo da formare un elemento della pavimentazione, che raccordavano il pozzo al campo o alla corte scelti per la sua costruzione.
L’espansione dei pozzi in città
Da sempre i governanti erano stati molto attenti al problema dell’approvvigionamento idrico, incombenza diventata sempre più urgente e delicata con l’espandersi della città e l’aumento della popolazione, tanto che era stata ancor più incoraggiata la costruzione di nuovi pozzi per soddisfare le necessità urbane.
Nel 1322 il Maggior Consiglio aveva decretato l’apertura di cinquanta pozzi e un secolo dopo altri trenta, ma non erano bastati. Verso la fine del ‘500 il numero dei pozzi pubblici si attestava attorno a centoquaranta, salito a 157 nel corso del ‘700. Altri pozzi privati erano stati ricavati nei cortili dei palazzi nobiliari, ma anche in quelli di costruzioni non proprio lussuose. Nel 1858 fu stimata la presenza in città di quasi 7.000 pozzi suddivisi in 6.046 privati e 180 pubblici, oltre a 556 interrati. Nello stesso secolo con la costruzione dell’acquedotto l’impiego dei pozzi come fonte di approvvigionamento idrico venne progressivamente abbandonato fino a cessare del tutto.
Regolamentazione dei pozzi
Per assicurare che i pozzi fossero mantenuti nella più assoluta efficienza, soprattutto dal punto di vista sanitario, il governo aveva preso le sue brave misure. Erano stati istituiti i Provveditori alle Acque e alla Sanità con adeguato stuolo di “fanti”, cioè funzionari, pronti a esplicare assidua sorveglianza, ma ne avevano il controllo anche parroci e capi contrada. A questi ultimi erano affidate le chiavi dei pozzi ai quali, secondo alcuni, si poteva accedere solo due volte al giorno. Venivano comunque aperti al mattino e chiusi alla sera al suono della “campana dei pozzi”, una delle tante che regolavano la vita cittadina, come la “marangona” che con i suoi rintocchi contrassegnava inizio e fine del lavoro in Arsenale e aveva preso il nome dagli operai che vi lavoravano, in maggioranza falegnami, cioè in lingua veneziana “marangoni”.
Gli “acquaroli”
Tuttavia era stato calcolato che la pioggia non sarebbe stata sufficiente al fabbisogno di acqua. Pertanto si era provveduto a mettere in funzione un servizio ausiliario di approvvigionamento affidato agli “acquaroli”, detti anche “burchieri d’acqua” dal nome delle barche che utilizzavano, cioè i “burchielli”, o “burchi”, barconi a fondo piatto per la navigazione fluviale, nei canali e nei bassi fondali. Generalmente coperti e di varie dimensioni, erano adibiti al trasporto di merci e passeggeri; molto grandi quelli che collegavano Venezia con Padova e Verona navigando a remi o a vela nel tragitto in laguna, trainati da cavalli lungo la Riviera del Brenta.
Alla confraternita degli “acquaroli”, già costituiti in arte fin dal 1471, ma che affondavano le loro origini a circa un secolo prima, era stato assegnato il delicato incarico di trasportare a Venezia acqua potabile per immetterla nei pozzi pubblici e privati tramite canalette di legno. Era stato concesso loro anche di venderla all’ingrosso alle attività che più necessitavano. Al costo di un soldo per otto secchi poteva comprarla pure chi non aveva voglia di faticare per attingerla al pozzo.
Gli “acquaroli” andavano a prelevare il prezioso liquido alle foci del Brenta, dove apposite opere idrauliche provvedevano a mantenerle l’acqua il più possibile pulita. Infatti, non distante le autorità avevano dislocato il lavaggio e il risciacquo delle lane tinte, una coabitazione pericolosa che avrebbe potuto degenerare in contaminazione. L’acqua, raccolta con secchi e mastelli, veniva trasportata a Venezia in appositi tini da non usarsi per altri scopi per evidenti motivi sanitari. Infatti con gli stessi burchi si provvedeva a sgombrare i rifiuti cittadini, tanto che i barconi erano chiamati anche “scoazzere”, da “scoazza”, cioè immondizia.
Nel trasporto di acqua e rifiuti non erano mancati gli illegali su barche dette “forastiere” per la vendita soltanto al minuto. Erano abusivi, ma il governo aveva chiuso un occhio perché si trattava pur sempre di altro rifornimento per la città. E poi aveva chiuso pure l’altro in cambio di un contributo scucito ai clandestini a favore della corporazione ufficiale.
Di tutto questo accenno nel libro Il Signore di Notte che, pur essendo un giallo ambientato nella Venezia nel 1605, contiene divagazioni su usi e costumi, fatti e fatterelli della Serenissima che addentrano il lettore nell’atmosfera del tempo.
articolo originale – Altri articoli di approfondimento su temi del libro Il Signore di Notte, un giallo nella Venezia del 1605
La foto scattata dall’autore mostra la vera da pozzo di Palazzo Balbi a Venezia