IL PENSIERO MEDITERRANEO

Incontri di Culture sulle sponde del mediterraneo – Rivista Culturale online

Quando a Venezia fu inventato il “bacalà”

pietro-querini-ritratto

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di Gustavo Vitali

Pietro Guerini

È stato un terribile naufragio a introdurre sulle tavole veneziane il baccalà, che in lingua locale si scrive rigorosamente con una sola “c”: bacalà, il piatto re della cucina veneta.

Incerta l’origine della parola che pare derivare dal portoghese “bacalhau” e dallo spagnolo “bacalao”, termini che trovano la loro etimologia nel latino “baculus”, cioè bastone.

Pietro Querini e la “caracca”

Pietro Querini era un raffinato nobile di antica famiglia veneziana, senatore della Serenissima e signore dei feudi di Catel Temini e Dafnes nell’isola di Candia, l’odierna Creta allora possedimento veneziano. In detti feudi si produceva la Malvasia, un vino molto apprezzato originario di un paese del Peloponneso, Monemvasia o Monemvaxia, che significa “porto con una sola entrata”, annesso alla Repubblica di Venezia nel 1419.

Il 25 aprile 1431 Querini salpa da Candia a bordo della sua Gemma Querina, una “caracca”, cioè un grande veliero di 700 tonnellate di stazza adatto alle lunghe navigazioni oceaniche. Suoi subalterni sono Nicolò de Michele, patrizio veneto, e Cristofalo Fioravante nelle funzioni di “comito”, dal latino “comes, comitis”, cioè compagno di viaggio, oggi diremmo nostromo, primo dei sottufficiali di bordo e secondo solo al “sopracomito”, detto anche “patrono”, che era il comandante, in questo caso lo stesso Querini.

Trasporta 80 barili della sua Malvasia che di norma vende nei Paesi Bassi. Completano il carico legni aromatici, spezie, cotone, cera, allume di rocca e altre mercanzie di valore per un peso totale di circa 500 tonnellate. L’intento è ancora una volta quello di raggiungere le Fiandre per vendere la preziosa mercanzia.

La navigazione

Si è trattato di un viaggio zeppo di imprevisti fin da cinque giorni prima della partenza quando era morto all’improvviso un figliolo del Querini che comunque non aveva rinunciato all’impresa.

La caracca attraversa una parte del Mediterraneo e naviga poi lungo un tratto della costa Berbera, all’incirca tra Algeria e Marocco fino a superare lo stretto di Gibilterra. Il 2 giugno, manovrando in bassi fondali nei pressi di San Pietro sulla costa atlantica della Spagna, toccano uno scoglio riportando danni alla chiglia e al timone. Tuttavia il 5 giugno raggiungono Cadice dove la caracca viene messa in carenaggio e in venticinque giorni i danni sono riparati.

Nel frattempo scoppia una nuova guerra tra Venezia e Milano, una delle cosiddette “guerre di Lombardia”, che però coinvolge anche Genova da alcuni decenni sotto il dominio milanese dei Visconti. Sebbene nella battaglia al largo di San Fruttuoso, detta anche battaglia di Rapallo, la Superba sarà sconfitta dai veneziani nell’agosto del 1431, per prudenza Querini decide di arruolare nuovi armati, formando così un equipaggio di 68 uomini di varie nazionalità.

Il 14 luglio la Gemma Querina salpa nuovamente navigando lontano dalle coste per evitare incontri indesiderati con vascelli nemici. Invece venti contrari da nord est spingono il vascello attorno alle isole Canarie dalle quali dopo quindici giorni, cambiato finalmente il vento, riescono faticosamente a risalire attraccando a Lisbona ad agosto inoltrato.

Qui sono obbligati a nuove riparazioni, oltre che ai necessari rifornimenti e ad attendere venti favorevoli fino al 14 settembre quando possono riprendere il mare. Costeggiando il Portogallo, giungono a Muros nei pressi de La Coruña nel nord della Spagna quando è oramai ottobre. A poco servirà la visita di Pietro Querini, uomo molto devoto, al locale santuario di San Giacomo per scongiurare l’imminente tragedia che sta per abbattersi su di lui e sul suo equipaggio.

Il naufragio

Lasciata Muros e doppiato il vicino capo Finisterre, la caracca attraversa quasi tutto il golfo di Biscaglia percorrendo oltre 200 miglia con l’intento di dirigersi verso le Fiandre. Invece, mentre stanno per imboccare La Mancia, il 9 novembre vengono investiti da una tempesta che li spinge a nord ovest verso le isole Scilly e l’Irlanda.

Il giorno dopo, per la furia del mare, si rompono i sostegni del timone, lasciando il vascello senza governo. Poi, con il trascorrere dei giorni, le condizioni del veliero sono sempre più disperate: la furia degli elementi strappa le vele e sfonda le mura, l’acqua penetra nello scafo riducendolo a un relitto che si mantiene a stento a galla e va alla deriva per settimane. L’albero è tagliato dallo stesso equipaggio nel tentativo di alleggerirlo, invece la situazione peggiora ulteriormente. Gli uomini a bordo non si perdono d’animo e tentano di salvare il disastrato natante, ma la tempesta non si placa e vanifica i loro sforzi, fintanto che il Querini decide di abbandonarlo.

È il 17 dicembre del 1431 e l’equipaggio viene diviso in due gruppi per sorteggio: 44 marinai e i tre ufficiali si imbarcano su una grossa lancia, mentre i restanti 21 su una più piccola scialuppa, detta “schifo”. L’intento è quello di raggiungere l’Irlanda. Le due barche vengono calate in mare costruendo un paranco di fortuna e abbattendo una parte delle mura.  Dello “schifo” si perderà presto ogni traccia.

La lancia, invece, una volta placatosi le intemperie, va a lungo alla deriva con morti continue tra l’equipaggio. Dei 47 uomini solo 16 riusciranno a sopravvivere alle dure condizioni climatiche e al razionamento dei viveri dopo che gran parte delle vettovaglie erano state buttate a mare per alleggerire la barca. A tormentare i naufraghi è soprattutto la sete, tanto da essere costretti a bere l’acqua salmastra della sentina o le proprie urine.

Il 6 gennaio 1432 i superstiti riescono fortunosamente a toccare terra più di 100 miglia oltre il Circolo Polare Artico, nell’isola di Sandøy nell’arcipelago norvegese delle Lofoten, isola completamente coperta di neve e del tutto disabitata. Cinque marinai si buttano in acqua per raggiungere la riva e finalmente dissetarsi mangiando la neve. La notte trascorre tentando di salvare quello che resta della lancia, che, invece, sbatte contro gli scogli e affonda definitivamente.

“100 giorni in paradiso”

Il Querini e i suoi compagni vivono per undici giorni al bivacco, infestati dai pidocchi, costruendo ripari di fortuna con remi e avanzi delle vele della lancia, bruciando il fasciame per scaldarsi cosa che gli causerà gonfiore agli occhi per il fumo emanato dalla legna bagnata. Bevono neve sciolta, si nutrono di molluschi e di un grosso pesce trovato in una capanna sulla costa fino a essere avvistati dal pescatore di un’isola distante solo otto miglia da quella dove sono naufragati i veneziani. Per gli undici superstiti è la salvezza, perché nel frattempo si sono verificati ulteriori cinque decessi.

Il 3 febbraio partirono della vicina isola di Røst, in veneziano Rustene, i primi soccorsi. Insieme un sacerdote di origini tedesche che, parlando in latino, apprenderà dal Querini le loro disavventure. I soccorritori li accolgono nella loro piccola comunità di Røst, che il navigatore definirà “luogo forian ed estremo è chiamato in suo lenguaggio culo mundi”. Si tratta di una dozzina di case abitate da circa 120 abitanti dediti alla pesca nei mesi di giugno, luglio e agosto quando non tramonta mai il sole. Qui i naufraghi trascorrono un soggiorno che, dopo tante traversie, chiameranno “100 giorni in paradiso”, dove possono curare ferite e denutrizione.

Pietro Querini racconterà al ritorno dei liberi costumi di questa gente del nord che, come non si cura di custodire i propri averi (evidentemente non c’erano ladri!), così le loro donne non si curano di spogliarsi tutte nude per andare a letto nelle stesse camere dove, insieme alla loro famiglia, alloggiavano anche i veneziani. Lo stesso fanno ogni giovedì: si spogliano a casa e poi vanno di corsa nel locale comune del villaggio dove si pratica una specie di antenata della sauna, mescolandosi agli uomini. Scriverà. “«I 120 abitanti dell’isola sono tutti cattolici fedelissimi e devoti, senza alcuna lussuria, tanto è la region fredda e contraria a ogni libidine.»

Lo stoccafisso

Durante questo soggiorno Pietro Querini nota che la principale attività dei suoi salvatori è la pesca di passere di enormi dimensioni, ma soprattutto del merluzzo che viene mangiato fresco oppure essiccato e poi, a suo tempo, battuto con il rovescio della scure prima di essere consumato condito con il burro. Nella sua relazione al Senato, obbligatoria per tutti i comandanti di navi che rientravano dai loro viaggi, il veneziano chiamerà questi pesci essiccati “stocfisi”, stoccafisso, parola pare derivante dagli olandesi “stock”, cioè bastone, ma anche scorta, e visch, pesce, nel senso di pesce essiccato sul bastone come di fatto avveniva, retaggio delle relazioni commerciali tra la Serenissima e i Paesi Bassi.

Incuriosito e affascinato dal metodo di conservazione di questo pesce a lui poco noto, quando ripartirà per Venezia, ne porterà con sé pare una sessantina, scambiandoli lungo il tragitto con vitto, alloggio, cavalli e quant’altro.

Il ritorno

Arriva la fine di maggio, il tempo quando i pescatori scendono verso meridione con una nave carica di stoccafissi fino al mercato di Bergen dove li barattano con altri prodotti provenienti dal continente e dall’Inghilterra. Caricano anche legna da ardere per tutto l’anno.

Questa volta, invece, arrivati dopo quindici giorni a Trondheim con il vento quasi sempre in poppa, vengono a sapere che la Norvegia è in stato di guerra con la Germania e decidono di non proseguire oltre. Cercano anche informazioni per consentire ai veneziani di raggiungere il continente o l’Inghilterra e viene loro suggerito di andare presso un certo Zuan (Giovanni) Franco, un veneziano fatto cavaliere dal re di Svezia dove era rimasto a vivere.

Dopo oltre cinquanta giorni di cammino i superstiti giungono a Stichimborgo in Svezia e restano al castello del Franco trattati con ogni riguardo, fintanto che vengono a sapere che dal porto di Lodesa (Lödöse) stavano per salpare due navi, una per la Germania e l’altra per l’Inghilterra. Preso congedo dal Franco il 17 agosto e raggiunta Lödöse, sulla prima si imbarcano Nicolò de Michele, Cristofalo Fioravante e Gherardo da Lione, mentre il 14 settembre Querini salpa verso l’Inghilterra con i restanti sette compagni.

La separazione e un… doppio matrimonio

Accolti da sier Vittore Cappello e dalla fiorente comunità di mercanti veneziani di Londra, vengono vestiti di tutto punto e dotati di cavalcature e guide che li conducono ad attraversare la Manica per poi dirigersi verso Venezia. Del gruppo sono rimasti solo in tre: Pietro Querini con il suo fidatissimo servitore, lo schiavo tartaro Nicolò, e Alvise Nascimben di Zara. Il viaggio in terraferma dura 24 giorni attraverso la Germania e Basilea fino a Venezia raggiunta nell’ottobre del 1432. Gli altri avevano scelto altre vie e rientreranno alla spicciolata alle loro case, gli ultimi nel gennaio del 1433.

Singolare la vicenda del nocchiero Bernardo da Caglieri che aveva lasciato a casa una moglie fresca di matrimonio alla quale era stato fatto intendere che il marito fosse oramai morto. La donna si era risposata e alla ricomparsa di Bernardo avrebbe voluto chiudersi in convento per espiare la propria colpa. Perdonata dal marito, vivranno insieme fino alla fine dei loro giorni.

Il baccalà consigliato dal Concilio di Trento

Lo stoccafisso importato dal Querini e lavorato come baccalà assurgerà presto a grande successo come bontà gastronomica. Inoltre per le sue caratteristiche di cibo a lunga conservazione diventerà molto utile nei viaggi di mare e di terra.

Il baccalà sarà uno dei piatti consigliati per affrontare gli oltre 200 giorni di magro, fissati, assieme ai cibi, il 4 dicembre 1563 dal Concilio di Trento. Entrerà così di diritto nella cucina quotidiana e non solo veneziana, consumato il mercoledì e il venerdì, con un ruolo salvifico nelle mense della popolazione meno abbiente vessata dalle intransigenti regole alimentari imposte dalla Riforma. Piatto popolare e conservabile, di larga resa e costo contenuto, il merluzzo viene consacrato a piatto della cucina italiana dal cuoco Bartolomeo Scappi (1500 – 1577) che lo inserisce tra le sue ricette.

La lapide commemorativa e il ritorno culturale

Nel 1932, a commemorazione dei 500 anni dall’evento, gli abitanti di Røst hanno eretto sull’isolotto del naufragio alla presenza di Alberto De Marsanich, allora ambasciatore italiano in Norvegia, una lapide in memoria di Pietro Querini e dei suoi uomini.

Nel 2012 ancora a Røst è stata rappresentata l’opera lirica “Querini”.

Le storie dell’avventuroso viaggio (ce ne sono altre oltre al diario del Querini) hanno aiutato i norvegesi a ricostruire quella che era la vita dei pescatori dell’epoca e su quelle isole. Infatti nel medioevo la cultura locale era tramandata sostanzialmente in modo orale.

Oggi Røst fa parte di un progetto internazionale, la “Via Querinissima”, volto a favorire la collaborazione nel turismo e la tutela dell’ambiente e della cultura. Da circa vent’anni è gemellata con Sandrigo, comune del vicentino famoso per il suo “bacalà”… quello con una sola “C”!

L’input a scrivere questa storia me lo hanno dato le ricerche sulla cucina veneta che mi sono servite per scrivere il libro Il Signore di Notte, un giallo nella Venezia del 1605. Nella trama si aprono brevi finestre su usi, costumi, aneddoti, fatti e fatterelli della vita quotidiana di allora.

Gustavo Vitali

articolo originale con altre foto: https://www.ilsignoredinotte.it/baccala.html

la foto di Piero Querini è tratta da “Il Blog di Caterina

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