IL PENSIERO MEDITERRANEO

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Quando a Venezia fu inventato il “bacalà”

baccala-mantecato-alla-veneziana

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È stato un terribile naufragio a introdurre sulle tavole veneziane il baccalà, che in lingua locale si scrive rigorosamente con una sola “c”: bacalà, il piatto re della cucina veneta.

Incerta l’origine della parola che pare derivare dal portoghese “bacalhau” e dallo spagnolo “bacalao”, termini che trovano la loro etimologia nel latino “baculus”, cioè bastone.

Quando a Venezia fu inventato il “bacalà”… mantecato alla veneziana!

Pietro Querini e la “caracca”

Pietro Querini era un raffinato nobile di antica famiglia veneziana, senatore della Serenissima e signore dei feudi di Catel Temini e Dafnes nell’isola di Candia, l’odierna Creta allora possedimento veneziano. In detti feudi si produceva la Malvasia, un vino molto apprezzato originario di un paese del Peloponneso, Monemvasia o Monemvaxia, che significa “porto con una sola entrata”, annesso alla Repubblica di Venezia nel 1419.

Il 25 aprile 1431 Querini salpa da Candia a bordo della sua Gemma Querina, una “caracca”, cioè un grande veliero di 700 tonnellate di stazza adatto alle lunghe navigazioni oceaniche. Suoi subalterni sono Nicolò de Michele, patrizio veneto, e Cristofalo Fioravante nelle funzioni di “comito”, dal latino “comes, comitis”, cioè compagno di viaggio, oggi diremmo nostromo, primo dei sottufficiali di bordo e secondo solo al “sopracomito”, detto anche “patrono”, che era il comandante, in questo caso lo stesso Querini.

Ritratto di Pietro Querini

Trasporta 80 barili della sua Malvasia che di norma vende nei Paesi Bassi. Completano il carico legni aromatici, spezie, cotone, cera, allume di rocca e altre mercanzie di valore per un peso totale di circa 500 tonnellate. L’intento è ancora una volta quello di raggiungere le Fiandre per vendere la preziosa mercanzia.

La navigazione

Si è trattato di un viaggio zeppo di imprevisti fin da cinque giorni prima della partenza quando era morto all’improvviso un figliolo del Querini che comunque non aveva rinunciato all’impresa.

La caracca attraversa una parte del Mediterraneo e naviga poi lungo un tratto della costa Berbera, all’incirca tra Algeria e Marocco fino a superare lo stretto di Gibilterra. Il 2 giugno, manovrando in bassi fondali nei pressi di San Pietro sulla costa atlantica della Spagna, toccano uno scoglio riportando danni alla chiglia e al timone. Tuttavia il 5 giugno raggiungono Cadice dove la caracca viene messa in carenaggio e in venticinque giorni i danni sono riparati.

Nel frattempo scoppia una nuova guerra tra Venezia e Milano, una delle cosiddette “guerre di Lombardia”, che però coinvolge anche Genova da alcuni decenni sotto il dominio milanese dei Visconti. Sebbene nella battaglia al largo di San Fruttuoso, detta anche battaglia di Rapallo, la Superba sarà sconfitta dai veneziani nell’agosto del 1431, per prudenza Querini decide di arruolare nuovi armati, formando così un equipaggio di 68 uomini di varie nazionalità.

Il 14 luglio la Gemma Querina salpa nuovamente navigando lontano dalle coste per evitare incontri indesiderati con vascelli nemici. Invece venti contrari da nord est spingono il vascello attorno alle isole Canarie dalle quali dopo quindici giorni, cambiato finalmente il vento, riescono faticosamente a risalire attraccando a Lisbona ad agosto inoltrato.

Qui sono obbligati a nuove riparazioni, oltre che ai necessari rifornimenti e ad attendere venti favorevoli fino al 14 settembre quando possono riprendere il mare. Costeggiando il Portogallo, giungono a Muros nei pressi de La Coruña nel nord della Spagna quando è oramai ottobre. A poco servirà la visita di Pietro Querini, uomo molto devoto, al locale santuario di San Giacomo per scongiurare l’imminente tragedia che sta per abbattersi su di lui e sul suo equipaggio.

Il naufragio

Lasciata Muros e doppiato il vicino capo Finisterre, la caracca attraversa quasi tutto il golfo di Biscaglia percorrendo oltre 200 miglia con l’intento di dirigersi verso le Fiandre. Invece, mentre stanno per imboccare La Mancia, il 9 novembre vengono investiti da una tempesta che li spinge a nord ovest verso le isole Scilly e l’Irlanda.

Il giorno dopo, per la furia del mare, si rompono i sostegni del timone, lasciando il vascello senza governo. Poi, con il trascorrere dei giorni, le condizioni del veliero sono sempre più disperate: la furia degli elementi strappa le vele e sfonda le mura, l’acqua penetra nello scafo riducendolo a un relitto che si mantiene a stento a galla e va alla deriva per settimane. L’albero è tagliato dallo stesso equipaggio nel tentativo di alleggerirlo, invece la situazione peggiora ulteriormente. Gli uomini a bordo non si perdono d’animo e tentano di salvare il disastrato natante, ma la tempesta non si placa e vanifica i loro sforzi, fintanto che il Querini decide di abbandonarlo.

Il ”fortunato” naufragio del veliero di Pietro Querini che portò il “bacalà” a Venezia

È il 17 dicembre del 1431 e l’equipaggio viene diviso in due gruppi per sorteggio: 44 marinai e i tre ufficiali si imbarcano su una grossa lancia, mentre i restanti 21 su una più piccola scialuppa, detta “schifo”. L’intento è quello di raggiungere l’Irlanda. Le due barche vengono calate in mare costruendo un paranco di fortuna e abbattendo una parte delle mura. Dello “schifo” si perderà presto ogni traccia.

La lancia, invece, una volta placatosi le intemperie, va a lungo alla deriva con morti continue tra l’equipaggio. Dei 47 uomini solo 16 riusciranno a sopravvivere alle dure condizioni climatiche e al razionamento dei viveri dopo che gran parte delle vettovaglie erano state buttate a mare per alleggerire la barca. A tormentare i naufraghi è soprattutto la sete, tanto da essere costretti a bere l’acqua salmastra della sentina o le proprie urine.

Il 6 gennaio 1432 i superstiti riescono fortunosamente a toccare terra più di 100 miglia oltre il Circolo Polare Artico, nell’isola di Sandøy nell’arcipelago norvegese delle Lofoten, isola completamente coperta di neve e del tutto disabitata. Cinque marinai si buttano in acqua per raggiungere la riva e finalmente dissetarsi mangiando la neve. La notte trascorre tentando di salvare quello che resta della lancia, che, invece, sbatte contro gli scogli e affonda definitivamente.

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