Pulcinella Oggi
I ragazzi di via Rovello. Con questo titolo fu pubblicato a Milano l’«Almanacco del Bibliofilo. Rassegna annuale di Bibliofilia» 2010, a cura di Mario Scognamiglio, direttore dell’Aldus Club/ Associazione Internazionale di Bibliofilia. Il colophon dell’«Almanacco» così recita: «Del ventesimo numero/ dell’Almanacco del Bibliofilo/ composto impaginato e stampato/ da l’Officina Olivieri/ su carta appositamente fabbricata/ sono state impresse cinquecento copie/ trecento numerate destinate/ ai soci dell’Aldus Club/ e duecento non numerate/ alle Edizioni Rovello». Questo l’indice: La bella e la bestia, di Umberto Eco; Josef Sveik, il buon soldato, di Paolo Albani; Eyre vs Bronte, di Annalisa Bruni; Chi ha paura del 2011? Intervista a un ottuagenario, di Salvatore Carrubba; Gianni Schicchi e i falsadori di ogni tempo, di Gianni Cervetti; L’autunno del patriarca (parodia), di Matteo Collura; Comitibus unitis (Elogio del conte Attilio), di Gianandrea de Antonellis; Il cavaliere Auguste Dupin (e dintorni), di Oliviero Diliberto; Ritratto di Io, di Gianfranco Dioguardi; Lettera a una Signora, di Curzia Ferrari; Uno storico ingiustamente dimenticato, di Mauro Giancaspro; I would prefer not do, di Giuseppe Marcenaro; Prometeo e il destino dell’uomo, di Antonio Mereu; Don Polecenella Cerulo, di Maurizio Nocera; Ha da passa’ ‘a nuttata, di Elio Palombi; Trimalcione e i suoi liberti, di Mario Scognamiglio; Pinocchio, di Pietro Spirito; La morte e la fanciulla, di Armando Torno.
Questo che segue è il saggio di Maurizio Nocera
«IO, DON POLECENELLA CERULO, NATO A LA CERRA ‘NTRA LI CIUCCE, E CRESCIUTO E PASCIUTE A NAPOLI ‘NTRA LI SARTIMBANCHE, SEMPE MALATO DE MENTE E SEMPE SANE DE CUORPO, FACCIO TESTAMENTO»
«Per tutti sono un principe/ per tutti un gran signore,/ solo per il mio pubblico/ fedele servitore»
Pulcinella
È in questa quartina che si trova lo spirito profondo e veritiero della Maschera più famosa d’Italia e per tanti versi anche d’Europa.
È già estate inoltrata. Mario Scognamiglio è intento ad osservare un gigantesco olivo del Salento quando mi dice che l’«Almanacco del Bibliofilo» 2009 sarà dedicato a «dei “ritratti” di personaggi letterari, storici e immaginari, antichi e moderni che, per le loro singolari peculiarità, hanno contribuito notevolmente a tramandare la fama di poemi e di celebri romanzi, fiabe e di testi teatrali, imponendosi spesso come simboli, anche al di fuori dell’opera cui appartengono».
Il direttore dell’«Almanacco» parla e si dispiace un po’ perché, forse, questa volta, tra i collaboratori dell’Aldus, potrebbe non esserci chi avrebbe voglia di interessarsi di Pulcinella, la straordinaria Maschera che ha segnato in profondità l’anima della Napoli popolare, e non solo quella di Napoli.
Chiedo al direttore dell’«Almanacco» di farmi fare un tentativo, pur sapendo che Pulcinella, tra tutte le maschere italiane (Arlecchino, Balanzone, Brighella, Burlamacco, Farinella, Gianduia, Pantalone de’ Bisognosi, Scappino, Stenterello, il Mago, il Capitano, il Re, il Dottore, il Soldato, il Cieco, Orazio, Franceschina, Coviello, Zampicone, Tartaglia, ed altre maschere con una connotazione più regionale, come, ad esempio, quella del “Titoru” gallipolino, morto perché gran mangiatore – come Pulcinella – di “maccaruni” e “purpette”, una delle quali alla fine lo strozzò) è quella che presenta maggiori difficoltà interpretative. Quello che c’era da dire (e scrivere) su di essa è stato detto (e scritto) e da cultori della massima competenza fra cui, primo fra tutti, Benedetto Croce (Pescasseroli, 1866 –
Napoli, 1952) con i suoi saggi sulla Maschera napoletana e, in seconda battuta, anche Anton Giulio Bragaglia (Frosinone, 1890 – Roma, 1960) col libro Pulcinella (Sansoni, Firenze 1953). Certo, i tempi sono ridotti e poi, senza neanche farlo apposta, tra le mani ho fresco di stampa l’ultimo numero (117-120, marzo-dicembre 2009) de «L’Esopo», sul quale, alla p. 51 del saggio di Sergio Toresella, I ciarlatani, è riportata un’antica stampa che l’autore dice d’essere della fine del 1500 inizi 1600, data questa che – se esatta – anticiperebbe la nascita della famosa Maschera napoletana.
Sulla nave che mi porta in Albania leggo e rileggo il «Foglietto volante, cm 9 x 14 in cornicetta tipografica», pubblicato appunto sull’ultimo numero de «L’Esopo», che testualmente (rispettati i refusi originali e le divisioni di parola) dice:
«LE MERAVIGLIOSE VIRTU’/ Delle Balle per cavar macchie d’ogni sorte// Dispensate da me Nicola Panuzzi // detto Policinella.// Dette Balle servono in qualsivoglia sorte di vesti-/ menti, come di panno, seta, saia, e scoto, & in/ ogn’altra sorte di drappi, benche fossero macchiati/ d’oglio di qualsivoglia sorte, e grassi, sevo, inchiostro,/ e pece, & ogn’altra sorte di macchie, eccettuato che/ orina, & aceto, perche questi abbruggiano il suo colo/ re; dunque per voler adoperare la su detta Balla, si piglia un poco d’acqua tepida, e si bagna il luogo dove è/ la macchia, e poi se gli stroffina sopra la sudetta Balla,/ e poi si stroffina il panno, ò seta, doppo si schizza fuora/ la detta savonata fatta dalla detta Balla, e si continua/ per trè volte l’una appresso l’altra, avvertendo in ultimo à lavarla con l’acqua, fresca, fino che l’acqua ven/ ghi fuori chiara, che sarà cavata la macchia.// Eccettuato che non siano drappi, che patiscono l’acqua, overo de colori vaghi.// Avvertendo di non pigliare le sudette Balle da altre/ persone sotto mio nome, altrimenti restaranno gabbati.// Sotto finta apparenza di mellate parole,/ Il ver non negaran con le lor folle,/ Che io li farò veder à prova, e à patti,/ Se altri fà le parole, & io fò fatti// Mil(a)no, & in Parma, per gli Heredi del Vigna. Con licenza de’ Superiori».
Questo documento, inerente la “balla” pulcinellesca, sconosciuto a Benedetto Croce e ai più, è importante per due motivi; il primo, già accennato, riguarda la datazione; il secondo riguarda invece il luogo di stampa, Milano e Parma, in quanto, ancora prima del 1609, farebbe pensare che Pulcinella fosse già conosciuto anche al Nord di quella che noi oggi chiamiamo Italia e che all’epoca invece era soltanto un insieme di staterelli governati da differenti casate.
L’agosto 2009 è abbastanza arroventato anche in Albania, per cui non vedo l’ora di ritornare in Italia per accingermi all’impresa del “ritratto”. Però anche a Tirana accadono cose strane. Ad esempio, senza che nessuno abbia l’intenzione di sfogliare una qualsiasi pagina di un qualsiasi improbabile libro, ecco rispuntare il nome di Pulcinella. Sono a pranzo in casa di amici che abitano a La Praka, un rione periferico sulla strada per Durazzo. Si discute di come vanno le cose nei due paesi, di come si vengono a sapere certe notizie e di come di altre si finge la non esistenza, quando la più anziana della compagnia, Nexhmije, dice che le cose di oggi equivalgono ai cosiddetti «segreti di Pulcinella» che poi tanto segreti non erano.
Questa riflessione mi fa venire in mente il libro Il segreto di Pulcinella con allegati i due dischi che registrano le voci del popolo napoletano. L’avevo letto anni fa col risultato di un mistero irrisolto: quello dell’autore, tale Andrea Mascara, il quale si definiva:
«esoterista che eccezionalmente ha voluto offrire la chiave di un mistero italiano: il segreto di Pulcinella. La sua filosofia gli vieta di dare il minimo dettaglio sulla sua vita: non potrebbe che comunicare il contenuto… simbolico. Mascara non ha mai pubblicato alcuna sua opera, e questo libro è il primo che egli abbia consentito ad affidare alle stampe»1.
La tesi dell’autore è quella di fare derivare la Maschera napoletana da un ambito biblico-ebraico.
All’anziana donna albanese chiesi se Pulcinella avesse avuto mai un qualche ruolo (letterario o teatrale) nella storia del paese delle aquile, che i napoletani del tempo della loro più famosa Maschera conoscevano molto bene per via delle imprese dell’eroe Giorgio Castriota Skanderbeg, accorso spesso in aiuto al regno degli Aragonesi contro i tentativi espansionistici degli Ottomani. La donna, che ha vissuto quasi l’intero Novecento e che ha visto il dispiegarsi della storia del suo Paese attraverso tutte le vicende significative (indipendenza nazionale dall’impero ottomano nel 1912 col presidente Fan Noli, il cosiddetto regno d’Albania con l’auto-proclamazione di re Zogu e la sua sudditanza al fascismo italiano e al nazismo tedesco, il regime socialista di Enver Hoxha, il suo rovesciamento e l’instaurazione della cosiddetta nuova democrazia di tipo occidentale), mi rispose che no, che, a sua memoria, nel suo paese non c’era stato mai riferimento alcuno a Pulcinella o a quella parte della Commedia dell’arte italiana che lo riguardava. Mi disse che potevo fare una verifica andando a cercare documenti e libri nella “Biblioteka Kombetar” di Tirana (dove effettivamente mi recai non trovando nulla, né un libro né altro) come pure feci una verifica presso direttori e attori del teatro albanese i quali, tutti, mi risposero che sì, conoscevano la famosa Maschera napoletana, ma nei loro teatri, a loro memoria, mai era stata rappresentata.
L’anziana donna albanese aggiunse pure che lei, amando la lingua italiana e avendola studiata con assiduità, ebbe modo di interessarsi di Pulcinella, affermando che in fondo si trattava di un volto che non era un volto, e che molto probabilmente doveva trattarsi di un intermediario fra l’uomo reale, sia pure mezzo mascherato, e l’idea che si poteva avere di un uomo irreale, extra-ordinario. Per lei Pulcinella è un personaggio teatrale non facile da rappresentare, in quanto ci vogliono doti straordinarie per riuscire nell’impresa. E questa impossibilità rappresentativa è un buon motivo che ci porta a pensare che con la morte della famosa Maschera sia morta anche la Commedia dell’arte. Per lei Pulcinella non aveva interesse a nascondere un qualcuno o un qualcosa perché, per questo sarebbe stato sufficiente un velo, una stoffa, o un qualcosa di simile. Per l’anziana donna albanese, Pulcinella era in fondo un buontempone ribelle, una sorta di anima segreta del popolo partenopeo che, attraverso il dire e il fare, aveva saputo mettere a nudo la problematicità del vivere quotidiano del suo tempo in una Napoli dal respiro di una tra le grandi capitali europee. Non per niente il secolo dell’anonimo inventore di Pulcinella è quello dei grandi geni del teatro europeo, di Lope Felix de Vega Carpio (1562-1635) e Miguel de Cervantes Saavedra (1547-1616) in Spagna, di Jean-Baptiste Poquelin (detto Molière) (1622-1673) e Jean Racine (1639-1699) in Francia, di William Shakespeare (1564-1616) in Inghilterra e, nella stessa penisola italica, in particolare nel regno di Napoli, è il secolo di Giordano Bruno (1548-1600) e Tommaso Campanella (1568-1639), entrambi domenicani in San Domenico Maggiore; ancora, è il secolo di quel temerario Tommaso Aniello (detto Masaniello) (1620-1647), un semplice pescivendolo nel porto di Napoli che, nel 1647, guidò l’epica insurrezione popolare contro gli occupanti spagnoli. È a Napoli che in tale contesto di fermento rinascimentale che nasce la Commedia dell’arte, altrimenti detta Commedia dell’improvviso, perché gli attori erano svincolati da qualsiasi copione.
A dire della donna albanese, in fondo Pulcinella era un “ammonitore” e, allo stesso tempo, un “protettore” del suo popolo, colui che osava dire:
«stai attento a quel che fai»
e «comunque non ti preoccupare perché poi le cose si aggiustano ed io sono qui per aggiustarle».
L’anziana donna parlava ed io l’ascoltavo col pensiero rivolto al marmo di Pasquino su una cantonata di palazzo Braschi a Roma, alle famose satire politiche antipapali del tempo, cosiddette pasquinate che, guarda caso, sono anch’esse della stessa epoca della nascita di Pulcinella.
Quello che mi sorprese nel discorso della anziana donna albanese fu quell’epiteto di buontempone affibbiato a Pulcinella, quando la vulgata lo vuole ciarlatano, ironico, logorroico, irascibile, vendicativo, sciocco, balordo, equivoco, scansafatiche ma anche lavoratore instancabile, traditore e fedele, gobbo, goffo, sfrontato, comico, drammatico, tragico, col naso ad uncino, berretto a cono (tipo cappello arabo di Siria, detto anche coppolone) e veste bianca, pigro, ladruncolo, opportunista, volubile, inaffidabile, che prende la vita con filosofia, vorace, tanto da non dimenticare mai di dire sulla scena
«che la frittata di maccheroni è molto buona ma che lui non la poteva mai mangiare perché la pasta non gli avanzava mai».
Questi sono modi di essere e modi di fare della Maschera napoletana che si giustificano poi con la serie di attributi simbolici che l’accompagnano a seconda della situazione scenica come, ad esempio, l’attributo
dell’«asino» (erroneamente considerato animale stupido ma che Pulcinella, cavalcandolo all’indietro, ne dimostra la sottile intelligenza);
il «gatto» (troppo autonomo, per questo lo tratta con disprezzo, lo minaccia con la spada e lo solleva sempre dalla coda);
il «corno» (porta fortuna per sé e sfortuna per gli altri);
i «maccheroni» (benessere per chi può mangiarli – gli ingordi riccastri – per questo egli se ne abbuffa carpendoli sempre con le mani);
l’«albero» (simbolo della verità e dei piedi – radici – ben piantati per terra);
ancora altri simboli minori, tutti indicanti la contraddittorietà della personalità del personaggio.
Evidente, quindi, è la sua personalità doppia, che l’antropologo napoletano Domenico Scafoglio stigmatizza così:
«La rappresentatività di figure come Pulcinella – cioè, sostanzialmente, degli eroi comici, dei buffoni rituali, dei “buffi” teatrali, dei “bricconi” (tricksters) universalmente presenti nelle mitologie “primitive”, è più ampia di quelle delle figure positive e degli eroi “seri”, perché questi ultimi incarnano le aspirazioni ideali dei popoli, mentre gli eroi comici rappresentano anche la dimensione quotidiana, e il loro lato oscuro, gli impulsi trasgressivi e le tentazioni dell’illecito […] Pulcinella è il familiare e l’estraneo, l’interno e l’esterno, e la dialettica tra questi estremi si articola nelle forme del comico […] la maschera comica presenta un doppio statuto, configurandosi al tempo stesso come la diversità integrabile, e perciò arricchente e gioiosa, e la diversità non del tutto integrata, e perciò repellente e sinistra. Se come acerrano [di Acerra] Pulcinella si colloca al confine tra la città e la campagna, la sua condizione di servo, con la quale si è emblematicamente identificato in tutta la sua storia teatrale, conferma la sua natura di figura liminale, tramite prezioso tra l’interno e l’esterno»2.
Quanto Scafoglio scrive è la conferma che in Pulcinella noi vediamo riaffermarsi, ancor prima del filosofo tedesco Hegel, la cultura della dialettica come sintesi degli opposti complementari, la cui radice è in Eraclito (VI sec. a. C)., filosofo presocratico a cui dobbiamo il concetto di movimento.
Il tratto di mare che separa l’Albania dall’Italia è veramente quanto un tiro alla fune, per cui il ritorno in Salento, tra i secolari olivi, è oggi – un tempo non era così – più rapido che mai. In Italia ci sono i libri, ci sono le tante situazioni nelle quali è possibile verificare il concetto sulla Maschera Pulcinella espresso dall’anziana donna albanese.
Già sul traghetto, come flash, entrava ed usciva dalla mente Eduardo De Filippo (Napoli, 1900-1984), il suo essere Pulcinella a volto scoperto in Palummella zompa e vola, commedia che mise in scena al Teatro San Ferdinando il 22 gennaio 1954; ed è ancora lui che nel 1957 si interessa della Maschera col libro Il figlio di Pulcinella (Einaudi, Torino 1958) e ancora, poco dopo, settembre 1958, inaugurando la stagione al Piccolo Teatro di Milano, mise in scena la commedia Pulcinella in cerca della sua fortuna per Napoli, scritta da Pasquale Altavilla (Napoli, 1806-1875) (altro famoso Pulcinella del Teatro San Carlino di Napoli). A detta dei cronisti dell’epoca il ruolo della Maschera, rappresentata dall’indimenticabile drammaturgo napoletano, fu straordinario anche perché, come consulente artistico, egli aveva chiamato Salvatore De Muto (Napoli, 1876-1970) che, secondo il regista Roberto De Simone era stato l’ultimo interprete di Pulcinella collegato
«direttamente alla tradizione teatrale di Antonio Petito [Napoli, 1822-1876]»3,
il più longevo e prolifico attore di farse pulcinellesche. È noto che Petito trasformò il suo Pulcinella dallo «scemo del villaggio» (quasi sempre prono) al furbo Pulcinella della Commedia dell’arte. C’è sincera commozione nella frase che Salvatore De Muto, quella stessa sera della prima, rivolse a Eduardo, donandogli la sua maschera originale battuta in vero cuoio nero:
«Pe cient’anne Eduà!»
disse, annunciando il suo definitivo ritiro dalle scene.
Nella stessa intervista, Roberto De Simone annota pure che:
«Nella deformante gibbosità della maschera alcuni studiosi hanno arrischiato qualche collegamento alle antiche atelliane [la probabile ma non verificata discendenza di Pulcinella da Maccus, attore del IV sec. d. C., coperto da mezza maschera; oppure, sempre dello stesso periodo, la discendenza dalla maschera gallinacea di Kikirrus], e ciò è anche possibile, ma una tale probabilità che aggiunge o toglie alla fantasia delle opere del Tiepolo? La gobba di Pulcinella in oggetto, più che riferirsi improbabilmente all’antica commedia romana, allude a una misteriosa maternità, alla gravidanza della Maschera. In alcune bambocciate del Seicento Pulcinella partorisce dalla gobba vari pulcinellini»4.
Questa affermazione del regista ed etnomusicologo napoletano mi fa venire in mente l’intervento di un’altra commensale albanese (più giovane della prima) al pranzo di Tirana, la quale, esperta di antichità e letteratura italiana, esordì dicendo:
«Ma perché Pulcinella viene pensato sempre come figlio della chioccia, come pulcino? E poi, perché un gallinaceo e non invece una pulce, una piccola pulce che nel dialetto napoletano si dice e si scrive pòllece? Per cui da qui la non verificata versione del nome della Maschera».
Si pensi, ad esempio, a quanti accostamenti esistono tra la pòllece e il nome Pòllecenella o Pòlcenella, e quindi Pulcinella. Era la stessa maschera, che uscendo in scena, per prima cosa affermava:
«Io, Don Polecenella Cerulo, nato a la Cerra ‘ntra li ciucce, e cresciuto e pasciute a Napoli ‘ntra li sartimbanche, sempe malato de mente e sempe sane de cuorpo, faccio testamento»5.
E si pensi ancora ai tanti detti e mottetti che ancora oggi vengono usati dal popolo partenopeo e che tanto si accostano all’ambito vitale di Pulcinella:
«Pure e’ pulleci tenene ‘a tosse» (anche le pulci hanno la tosse), espressione spesso usata da Pulcinella;
«Nun bulere stare manco pe pòllece int’a cammisa» (di uno che non vuole stare nella camicia di qualcun altro nemmeno come pulce). Anche questa espressione usata abitualmente dalla Maschera.
Andrea Mascara, approfondendo i contesti della Commedia dell’improvviso, individua differenti modi rappresentativi come, ad esempio, un ubriacone, oppure un mendicante napoletano. Scrive che Pulcinella:
«prende tutto il denaro che gli si dà, non ringrazia mai, brontola perché la somma è ridicola, e quando gli si rimprovera il suo malcontento, urla: “Così poco per pagare quello che noi vi abbiamo dato?” E quando l’ingenuo forestiero protesta, dicendo: “E che cosa ha mai potuto darmi?”. Il mendicante risponde: “La civiltà! Soltanto la civiltà, imbecille!»6.
Come si vede siamo davanti ad un Pulcinella saggio e generoso.
Riflettendo sulle sue origini, inevitabilmente occorre rileggere Benedetto Croce, colui cioè che meglio di ogni altro le ha indagate, scrivendo che Pulcinella apparve sulla scena a Napoli grazie all’attore Silvio Fiorillo (Capua, ca. 1560/70-1632),che diede volto e corpo alla Maschera nella commedia La Lucilla costante con le ridicole disfide e prodezze di Policinella , scritta nel 1609 ma stampata postuma a Milano nel 1632.
Secondo questa interpretazione, che Croce si era formato attraverso la frequentazione dei teatri di Napoli e gli studi sulla Commedia dell’arte, all’origine ci sarebbe stato un pulcino, umanizzato e interpretato buffonescamente nel ‘600 da un probabile contadino di Acerra, tale Puccio d’Aniello che, vestendo i panni del gallinaceo, del quale imitava pure la voce, cercò di risolvere il suo problema esistenziale vestendosi da giullare alla Zanni (maschera di origine padana, prima fra tutte Arlecchino, che rappresenta il servo che si sdoppia), e cercando di trovare bonariamente la soluzione ai problemi che assillavano lui e la comunità in cui viveva. Con ciò il “buffone” raggirava pubblicamente i potenti che, essendo degli “ingordoni”, tentavano continuamente di sopraffarlo, sottomettendo anche il popolo. Una delle spavalderie del personaggio stava nello svelare al popolo i “segreti” di tali potenti, che tutti sapevano esistere ma che nessuno aveva il coraggio di spiattellare. E per fare questo la Maschera assumeva la dimensione del doppio, che Domencio Scafoglio stigmatizza così:
«Emblematico di questa situazione è il doppio travestitismo: quello del padrone, che nelle feste carnevalesche e, non infrequentemente, nelle stesse pulcinellate teatrali vestiva i panni di Pulcinella, assumeva la sua figura deforme e oscena e imitava i suoi eccessi sessuali e alimentari; e quello di Pulcinella, che in oltre tre secoli di teatro, si è costantemente travestito da padrone, fingendosi principe, mercante, conte, donna, accademico, avvocato, dottore, poeta, cavaliere e così via. Il travestimento consente a Pulcinella di introdurre comportamenti eccentrici dentro ruoli codificati, portando lo scompiglio in un universo che si credeva ordinato. [… Quello di Pulcinella è] teatro del servo, ma anche, al tempo stesso, teatro del padrone, che nella farsa pulcinellesca contemplava la sua negazione e vagheggiava il superamento en bass della propria limitatezza»7.
Quindi, una figura doppia quella di Pulcinella, cioè di un personaggio che sa essere uomo ordinario ma allo stesso tempo, se la situazione lo richiede, anche extra-ordinario. È quanto emerge anche da un’inedita nota apparsa su una rivista napoletana del sec. XIX, sfuggita anche all’attento occhio di Benedetto Croce. Si tratta de «La Ricreazione per tutti / Raccolta di letture piacevoli», dove, in una nota al poemetto di Jacopo Ferretti – Il burattinaio ambulante per Roma – che ironizza con una «Liberissima imitazione d’un sermone latino del Ch. Professore P. G. B. Rosani delle Scuole Pie», scrive di aver letto «un bell’articolo su L’origine di Pulcinella, stampato nello ‘Zibaldone’ giornale [n. 20, 9 ottobre 1829] […]. L’articolo è del chiarissimo Domenico Abatemmarco napoletano».
Data l’importanza e la chiarezza espositiva lo riporto per intero:
«Si è scritto tanto degli eroi che fan piangere e non doveasi alcun cenno a Pulcinella che fa ridere? Fu quindi rotto l’ingrato silenzio per più valenti (han parlato di Pulcinella, Giacinto Gimma in “Italia Letterata”; Pietro Napoli Signorelli nella sua Storia letteraria, e in Vicende della coltura nelle due Sicilie, e non ha guari, in una Dissertazione, il sig. Bernardo Quaranta Cattedratico di ‘Archeologia in Napoli’); ma quelle dotte carte son lette da pochi, e Pulcinella che diverte tutti ha diritto ad esser da tutti conosciuto, perché d’ora innanzi si abbia in quel conto che merita. Or ecco all’uopo Messer lo ‘Zibaldone’, il quale frugandosi fa modo di ricordarsi talune notizie che già tempo egli lesse in libri che non ha più per le mani. Compatitelo dunque e lasciatelo dire: Zib. // “Avendo sempre ammirato in Pulcinella quell’ingenuo e grazioso carattere, quelle facezie tutte naturali, quella sua lingua, se non gentile, viva ed immaginosa, venni in desiderio di sapere chi fosse costui, e donde avesse origine.
Dalle prime indagini conchiusi ch’egli nacque adulto dal cervello di Talìa, come Minerva da quel di Giove; questa uscì fuori, danzando, e questo facendo lazzi; a Giove fu mestieri che Vulcano gli aprisse il capo, ed a Talìa venne aperto dal commediante Silvio Fiorillo, che, in tempo della dominazione spagnola in Napoli addimandar facevasi il capitan Matamoros, cioè uccisori de’ Mori. Ecco adunque la generazione di Pulcinella simile a quella di Minerva! / Nato così nobilmente da Talìa per opera del Matamoros fu poscia educato dalle Grazie e reso perfetto da Andrea Calcese soprannomato (lo crederesti?) il Ciuccio; parola che, volta nella comune favella d’Italia, risponde a Somaro. Or male addicendosi all’aio d’un Pulcinella un tal soprannome, dessi credere, a parer mio, ch’egli lo assumesse volontariamente per effetto di rara modestia. Fui assai contento di questa scoperta e proseguendo a leggere per trovare l’epoca di tale bizzarro avvenimento, vidi esser quella del secolo XVII. Oh che modernità, esclamai allora. Qual altro lustro avrebbe aggiunto ai meriti pulcinelleschi una più antica origine! E sarebbe mille volte più pregevole, anche se fosse men faceto; ma più antico. Non andò guari, e fui alquanto più pago; poiché ricercando un altro libro, vidi mentovarsi nel cader del secolo quinto decimo, il nome storico di Pulcinella, associato a quello d’un Re conquistatore, qual si fu l’ottavo Carlo di Francia, ch’erede degli Angiovini, scese a scacciar dal trono di Napoli l’Aragonese Dinastia. Erano le armi francesi già presso la capitale di quel reame quando un sarto di Acerra si fa innanzi a salutare i vincitori nel loro passaggio.
Quindi a sollevarli dalle guerresche fatiche, egli fa di sé spettacolo giocondo: la natura avealo creato buffone, l’arte avea compiuto l’opera. Nasuto, deforme della persona, non d’altro coperto che della camicia e mutande, il volto artificiosamente tinto a nero; tal in somma egli era qual sulla scena or ci apparisce. Addimandavasi Paolo Cinella; e i Francesi, via facendo sin’entro Napoli, ov’ei li accompagnò, lo chiamavano a gara in lor lingua Pol (Paul) Chinel; dal che essi ha detto poi Polichenel aggiungendo una ‘i’ forse per dolcezza di suono, ed i Napolitani Pulcinella, variando la ‘o’ in ‘u’; forse perché tale scambio è frequente nella lingua del Sebeto. Che sia di ciò, Pulcinella entrò dunque festoso nella dolce Partenope, sotto i vessilli trionfali di re Carlo. Non è da ammirarsi la di lui condotta nel render benevolo ai suoi concittadini l’esercito ostile? Non vediamo noi, anche ai dì nostri, che molti fan da Pulcinella, plaudendo sempre a chi vince, e parteggiando or per questo or per quello; e non già mossi da vile interesse (che non dèi pensar male di alcuno); sì bene or da fedeltà, or da prudenza! Ma torniamo al proposito. Pulcinella entrò in Napoli, e che avvenne poscia di lui? Nol so, né rammento se la storia vada più lungi: del resto io ho voluto ritrarre la sua origine non la sua biografia.
So bensì, né voglio ometterlo, che i Francesi, forse a mostrarsi grati alla lieta accoglienza, vollero onorare il nome di Pulcinella, introducendo nel loro paese la scherzosa sua maschera. Ma se ti verrà dato di andar colà, vedrai che il loro Polichenel è mutato dal suo modello in quanto alle forme esterne; egli veste con assai minor semplicità ed ha due gobbe che gli gravano il petto e le spalle. Donde ciò? Forse perché i Francesi amano di essere imitatori, e non copisti, e di riformare a modo loro le cose straniere, come a noi piace di riformare a modo straniero le cose nostre; Chacun a son goit./ Or se Paolo Cinella, che visse in fine del secolo XV fu il primo Pulcinella, non può esser vero che il Matamoros lo abbia tratto, nel secolo XVII, dal fecondo capo di Talìa; ma sarà vero ch’egli e quindi il Ciuccio, aggiunsero nuove grazie a quelle che il Pulcinella del tempo loro avea ereditato dal suo primo antecessore./
Fin qui erano giunte le mie ricerche, quando un giorno, fantasticando sul mio Pulcinella, io dissi fra me: e non potrebbe essere che, a motivo di Paolo Cinella si fosse, nel secolo XV, dato nuovo nome a quel che di già era, e forse lungo tempo innanzi lui? Pulcinella è di Acerra, che già chiamassi Atella, città che al pari di Napoli, Cuma, Capua, e altre fu degli Oschi, ovvero Osci popolo antichissimo e licenzioso della Campania (Osci ed Obsci dicevano i Latini, e perciò osce loqui presso loro significata parlar all’antica, parlar licenziosamente. Così rendesi anche chiara l’etimologia delle parole Obscenus, o Obscenitas, che noi traduciamo osceno, oscenità). È noto che quella città si rese celebre per le sue commedie liberamente giocose, che i Romani chiamavano Atellanae fabulae, e la di cui mercè la favella Osca si conservava in Roma, quando la nazione era di già dimessa e confusa co’ popoli vicini. Donde venne che Atellanus in latino, e Osco in volgare vogliono dire anche buffone; perché gli Osci e gli Atellani faceano arte del far ridere. E da qui non potrebbe conchiudersi che Paolo Cinella di Acerra fu discendente legittimo, ed imitatore felice degli antichissimi celebrati buffoni di Atella, e quindi che di origine Osca sia Pulcinella il quale da lui prese il nome?/
Tali cose volgendo in mente, ben può immaginarsi se fui lieto allorché seppi essersi, da qualche tempo, pubblicata in Napoli una erudita Dissertazione, che, a quanto me ne vien detto, muta in certezza il mio dubbio, e rivendica a Pulcinella tutta la sua gloria. Or qual personaggio in Europa può vantar un’origine cognita che rimonti oltre il Medio Evo? E rispetto al tempo degli Oschi anteriore anche a quello degli antichi Romani, tal epoca rimota è modernissima. Conchiudiamo dunque che a petto a Pulcinella sono nomi oscuri que’ di Arlecchino, Brighella, Pantalone, Coviello, Pagliaccio, Cassandrino, Stenterello, ecc.; e che perciò ove sulla scena alcun di essi si avvenga in lui, per serbar le convenienze sociali, dovrai cedergli la dritta, e togliere anche in pace qualche sua impertinenza; stanteché egli come colui ch’è di Osca origine può per dritto di nascita, dir quello che loro non si consente” (“Zibaldone”, n. 20, 9 ottobre 1929)./ E poiché sono entrato nelle Erudizioni Pulcinellesche defraudar non voglio gli amatori di un robusto sonetto scritto dal mio amico Antonio Briccolani valoroso traduttore dei Lusiadi in ottava rima, e diretto al celebre e sfortunato Attore Romiti, che tanto si distinse finché tragicamente morì sostenendo con decenti e graziosi lazzi l’onore della maschera partenopea./ Sonetto: “O del Sebeto figlio, o tu dal volto/ Scurril, dal cappel lungo, e grossi panni,/ Mimo, che gli ozi, e le fosch’ore inganni,/ Tra ‘l riso, e l’acclamar del popolo folto;// Omai per te giace in oblio sepolto/ L’adriaco stuol de’ Pantaloni e Zanni;/ Né più gracchiar invidi Mimo ascolto./ Che il trastullo sol fai de’ più verdi anni;// Ché da i severi studi ancor diviso/ Qualche Caton fra il volgo ignaro e basso/ Stassi, o Romiti, ad ascoltarti assiso.// S’ora non foran chiusi in freddo sasso:/ Spunteria pur la prima volta il riso/ Sul volto d’Anassagora e di Crasso.// E su ciò basta”»8.
Della Maschera napoletana sono stati sempre in molti a interessarsi. Essa ha avuto (e tutt’oggi ha, almeno sul piano storico-culturale) grandi ammiratori, ma molti sono stati (e sono) anche i suoi detrattori, questi ultimi perché denigratori del Sud Italia e quindi di Napoli che, per non pochi secoli, ne fu capitale. Eppure, nelle sue rappresentazioni, Pulcinella si fece sempre vittima di ogni sorta di prepotenza, alla quale rispose con superiorità, beffardamente e spavaldamente, col sorriso sulle labbra appunto e con tanta filosofia. Chi disprezza Pulcinella lo fa unicamente perché riconosce in lui un antesignano della lotta contro chi del potere se ne fa strumento di oppressione sugli altri. Ecco perché egli sta sempre dalla parte del popolo, anzi egli è il popolo, è la sua voce querula, dovuta all’uso della pivetta o franceschina9; è la sua riscossa, il suo vessillo di libertà. Sentimenti questi che lo scrittore francese Ottavio Feuillet, sia pure in termini puramente fantastico-creativi, mette sulle labbra di Pulcinella con le seguenti parole:
«Poiché presso i grandi della Terra non ho trovato che odio, invidia e malizia, come potrei impiegare meglio il mio ingegno, il mio spirito che a divertire i poveri, i quali non sono in grado di spendere per passare il tempo allegramente, ed i bambini tanto gentili, buoni, modesti? Anch’io sono povero, e posso fare ben poco. La malvagità dei potenti, lo vedo pur troppo, non mi permetterà mai di elevarmi quanto desidererei, per avere i mezzi di recare un sollievo ai poveretti che soffrono. Per ora darò loro la sola moneta che il buon Dio mise a mia disposizione, li farò ridere. Nello stesso tempo farò smascellare dalle risa i bei bambini dalle guance rosee, e questo sarà per me come una benedizione»10.
Una condizione questa che colloca inequivocabilmente Pulcinella tra le classi subordinate in una Napoli che ribolliva di aneliti riformistici. Sono tutte tematiche queste che ben si colgono anche nel libro Pulcinella. Viaggio nell’ultimo Novecento tra favola e destino”, di Claudio Caserta, scritta con la collaborazione di Roberto De Simone (intervista), Emanuele Luzzati (intervento) e Stelio M. Martini (intervento). Si tratta di un libro-catalogo con testi e opere d’arte di Gian Paolo Dulbecco, Fausto Lubelli, Emanuele Luzzatti e Alessandro Mautone. Interessanti le opere grafiche, i dipinti, i disegni pubblicati, che dimostrano la capacità degli artisti di comprendere la vera condizione sociale della Maschera. È difficile rendere così vivo Pulcinella come è stato fatto in questo libro se non lo si conosce bene. Gli artisti in catalogo confermano tale capacità.
Nell’Introduzione, l’autore scrive:
«Un Convitato di pietra, scritto da Onorio di Solofra fu stampato in Napoli nel 1652, presso Francesco Savio, oggi perduto e del quale si ha notizia da Benedetto Croce. Indubbiamente il mondo dei comici napoletani traspare nel testo di Andrea Perrucci del 1690, tornando nelle varie edizioni operate da diversi autori. Ed è soltanto uno dei momenti più alti della letteratura colta in lingua napoletana che vede Pulliciniello/Pollecinella arguto rivoluzionario del quotidiano, irriverente filosofo dall’ancestrale anarchia, servitore autarchico di regole incomprensibili, rimescolatore di linguaggi sonori e dei sentimenti intrappolati»11.
Sempre Roberto De Simone afferma che:
«in Pulcinella convivono un grottesco aspetto apollineo e un ambiguo dionisismo connesso alla follia e al delirio»12.
Il riferimento a Dioniso non è casuale (ne aveva accennato anche Scafoglio), perché effettivamente in Pulcinella è verificabile tutta la doppiezza del dio greco mascherato. Dioniso è il dio della sapienza e della conoscenza, è il dispensatore dell’estasi, è, al tempo stesso, espressione di follia e di “delirio”, ma è anche il dio della felicità dei sensi, dell’estasi, quando questi sconfinano nell’extra-ordinarietà. La doppiezza della nostra Maschera si gioca appunto tra felicità e delirio. Così come avviene nel mito di Dioniso, in Pulcinella troviamo ugualmente i due elementi specularmene contrapposti: da una parte la coscienza ordinaria, cioè lo stato ordinario delle cose, la vita razionale di tutti i giorni degli umani, spesso intriso di ingenuità e finzione; dall’altra uno stato di coscienza extra-ordinario, che fa sentire la Maschera al di sopra degli altri e delle cose contingenti, arricchendolo di una chiave di lettura del mondo che gli permette di prevedere gli accadimenti. Tutto ciò avviene in una Napoli dominata ancora dalla Scolastica, dove non s’erano spenti gli echi dei sermoni filosofici di Tommaso d’Aquino (Roccasecca, 1225 – Abbazia di Fossanova, 7 marzo 1274), formatosi come frate a Napoli in San Domenico Maggiore e dove per alcuni anni ricoprì la carica di Maestro educatore.
Numerosi sono stati gli attori del teatro napoletano che hanno indossato i panni della famosa Maschera. Alessandro Pellino, nel suo libro Pulcinella – una maschera un mito (Edizioni Lan, 1988) ha compilato un elenco di 39 attori che va dal 1609 al 1954. Tra i più grandi attori-Pulcinella vanno sicuramente ricordati Silvio Fiorillo, Virgilio Verrucci, Pier Maria Cecchini detto Frittellino; Giulio Cesare Monti, Francesco Guerrini, Andrea Calcese detto o ’Ciucco, Carlo Sigismondo Capece, Francesco Cerlane, Michelangelo Fracanzani (colui che, col nome di Polichinelle lo introdusse in Francia), Bartolomeo Cavallucci. E poi l’intera famiglia dei Cammarano con Vincenzo detto “Giancola”, Filippo e Giuseppe; e ancora Pasquale Altavilla; e la famiglia dei Petito con Salvatore, Enrico e Antonio, quest’ultimo indubbiamente il più grande tra tutti i Pulcinella che Napoli ricordi, che morì stremato sul palcoscenico nelle vesti della sua maschera e per il quale Antonio De Curtis, in arte Totò (Napoli, 1898 – Roma, 1967) scrisse:
«per capire la grandezza di Petito basta guardare la sua creatura: quella maschera nera sul vestito bianchissimo, le movenze da damerino beffardo, le sentenze lapidarie, miste di ironie, di rancore represso e di rassegnazione. Chi ha inventato Pulcinella meriterebbe un monumento»13.
Altri Pulcinella famosi sono stati Giuseppe De Martino, Giacomo Marulli, Michele Zezza, Edoardo Scarpetta, Raffaele Viviani, Gianni Crosio, Tommaso Bianco, Salvatore De Muto; Ettore Petrolini, che lo interpretò nella commedia Pulcinella guardiano di donne e in Il Cantastorie; e ancora Achille Millo. E poi, indimenticabile, l’interpretazione del grande Eduardo De Filippo, che portò Pulcinella sugli schermi cinematografici col film Ferdinando I, re di Napoli (1959). Da non dimenticare infine le geniali interpretazioni fatte ai giorni nostri da Massimo Ranieri, e da uno dei più teneri poeti del cinema, Massimo Troisi (Napoli, 1953 – Roma, 1994).
Esiste pure un Pulcinella cartone animato, personaggio del film di Totò Sapore e la magica storia della pizza che, a differenza del Pulcinella originale, è basso, cammina a piedi nudi e canta Tutta Napule è comm’a ‘mme. Totò riuscì pure nell’impresa di riprendere Pulcinella in una nuova versione, nata alla fine dell’800 su un’idea di Eduardo Scarpetta: quella di Felice Sciosciamocca, cioè di «colui che sta a bocca aperta», interpretandola nei film Un turco napoletano (1953), e in Miseria e nobiltà (1954). Anche se Totò non indossò mai pubblicamente i panni della famosa Maschera, di essa ne era un attento cultore. Ha scritto:
«Ho fatto il teatro dell’arte in piccole compagnie […] e cominciai assieme a Pulcinella, ma non facevo Pulcinella, io facevo il mametto, con poche battute. Ci radunavamo in camerino, e il capocomico, che era Pulcinella, era seduto, gli attori principali erano seduti, noi ragazzi in piedi./ Allora Pulcinella spiegava la commedia, faceva un canovaccio e diceva: “In questo momento io faccio così, esci tu [Totò] e parli, dici una cosa come ‘La signora non è venuta’ e qui inventi sul perché non è venuta. Dopo questa battuta esci tu [Totò] che sei Sciosciamocca e parli sull’argomento”»14.
Andrea Mascara ha scritto che:
«la figura di Pulcinella appartiene formalmente al regno delle immagini, e come tale è un’espressione culturale»15.
Quanta verità c’è in questa affermazione perché, nei secoli, la produzione delle immagini di Pulcinella è stata rilevante, a partire dai più antichi disegni eseguiti da Jacques Callot nel 1622 nel libro Balli di Sfessiana (Pulciniello e la signora Lucrezia); e poi il dipinto Pulcinelli acrobati, di Giandomenico Tiepolo; e quello di Pier Leone Grezzi che, per la prima volta, lo dipinse con la maschera nera; e ancora quello di Romolo Balsimelli che, nella Cappella Carafa in S. Domenico Maggiore a Napoli, dipinse l’immagine di tale Paoluccio della Cerra (per molti il vero ritratto della Maschera) tra il 1512 ed il 1516; e a seguire quello di Ludovico Carracci, che vi aggiunse la dicitura: «vera effige di Paoluccio della Cerra»; e Giovanni Antonio Nigrone che, nel 1590, nel progetto di una fontana, disegnò due ballerini con coppoloni, calzamaglia rossa e cintura bianca in vita (abito molto simile a quello di Pulcinella). Infine, ma questa è storia dei giorni che stiamo vivendo: ero nella Stamperia d’Alpignano, dove parlavo di Pulcinella, quando Enrico Tallone mi mostra l’incisione di quattro Pulcinella vestiti da portantini ussari riconoscibili dai loro caratteristici coppolloni, dall’albero-palma, da un caduceo, da una madonna con rosa, da un’aquila-gallina. Questa immagine senza alcuna didascalia è inserita nella rivista «Matrix» (inverno 2007) (una rarità bibliofilica), composta tipograficamente e stampata da The Whittington Press con torchi antichi a Risbury, nell’Herefordshire (Gran Bretagna).
Ma ora è tempo di accennare a un libro straordinario, bibliofilicamente il più bello che abbia visto finora sulla Maschera napoletana. Si tratta di Pulcinella e il personaggio del napoletano in commedia. Ricerche ed ossevazioni, che raccoglie gli scritti di Benedetto Croce sul personaggio. Il libro, introdotto da Benedetto Nicolini, è stato editato dalla Libreria antiquaria “Grimaldi & Cicerano” nel 1983 (formato ½ folio) col seguente colophon:
«Di questo volume/ sono stati impressi/ 300 esemplari numerati/ di cui 30 non venali con numerazione romana/ su carta delle Cartiere Amatruda di Amalfi/ nelle Officine dell’Arte Tipografica/ alla via S. Biagio dei Librai/ Napoli, dicembre 1983».
Che dire? È un libro la cui composizione e stampa tipografiche si sposano felicemente con la carta di Amatruda d’Amalfi; carta che, già al tatto, ti fa sentire come se avessi a che fare con qualcosa di vivo tra le mani. È una carta che, nella sua struttura essenziale, sembra possedere un’anima.
Sui contenuti del libro va fatta un’osservazione utile, che si coniuga con le riflessioni enunciate in questo testo.
«Il nostro Pulcinella – scrive nell’Introduzione Benedetto Nicolini – sopravvisse agli Arlecchino, ai Brighella e a tutte le altre maschere e, lungo il Settecento, divenne simbolo del proletariato napoletano»16.
Espressione questa che Benedetto Croce condivise solo in parte, perché per lui:
«Pulcinella […] può essere tolto a tipo del proletariato, e particolarmente di quello che si chiama cencioso (Lumpenproletariat), e più particolarmente dei paesi in cui il popolo ha ingegno sveglio, gaia natura e piccoli bisogni facilmente contentabili, e, infine, a causa del linguaggio che adopera e del costume e della psicologia che manifesta, più propriamente della plebe napoletana»17.
Croce rispose pure alla domanda di molti che, al suo tempo, si chiedevano se effettivamente Pulcinella era veramente morto. A tal proposito il filosofo scrive:
«Pulcinella […] è decaduto. Quali le cause della decadenza? Esso non rispondeva più ai gusti delle classi colte, che l’avevano già accolto, festeggiato e carezzato a lungo. Se la maschera ripeteva vecchi motivi, infastidiva; se tentava cose nuove, dava luogo, è vero, in qualche caso, a belli effetti di contrasto, ma, in complesso, non sembrava più né necessaria né opportuna. Si sentiva il bisogno di figure comiche diverse, o almeno rinnovate; donde la guerra al Pulcinella. Si vedano le arie da piccolo Goldoni che assume l’attore Scarpetta nel raccontare come egli bandisse il Pulcinella dalle scene del [teatro] San Carlino./ A ciò si aggiunga che per quella parte in cui il Pulcinella ritraeva o sembrava ritrarre caratteri e costumi popolari si è fatto vivo nelle classi colte un sentimento misto di pudore, di rimorso, e, se si vuole, di un po’ di ipocrisia. Ridere, dimenticando che oggetto del riso sono esseri umani (poveri, ignoranti, corrotti, ma esseri umani), sembra cosa poco degna della moderna civiltà, “bassa voglia”»18.
Sì, è verità quella che scriveva Croce. Pulcinella, la più famosa Maschera di Napoli ma allo stesso tempo Maschera universale, non è più rappresentato su nessuna scena del mondo, e quindi, così come ce la riporta la storia non esiste più. Sopravvive (di stenti) forse su qualche palchetto di burattinaio di provincia, ma ciò che di Pulcinella rimane vivo è il suo mito. Questo sì. È di questi tempi la pubblicazione del Dvd Pulcinella. Balletto su musica di Igor Stravinsky (Edizioni Maestro, 2009), musicato dall’Orchestra del Teatro comunale di Bologna diretta da David Agler con la straordinaria regia con ambientazione modernissima di Lucio Dalla, che ci fa vedere, nelle vesti di un agilissimo ballerino (Alessandro Ripa), un Pulcinella serio, pulito, bello, convincente, espressione nobilissima di quella classe che don Benedetto aveva definito “cenciosa”.
È settembre e sono a Napoli, ai quartieri spagnoli. Cerco Pulcinella o quanto meno il suo fantasma, che mi dicono si aggiri da quelle parti. Ormai è crepuscolo pieno quando, sotto il muraglione di Santa Chiara, una signora19, dall’aspetto bello e gradevole, con indosso un abitino pulcinellesco, mi si para davanti e mi chiede:
«Ma
‘mo tu cche ‘vuo’? Chist è: O Paese
‘e Pulecenella// Tu me dice/ ca
Pulecenella/ è nato ‘a na prova ‘e nu’ mellone […]/ Sarrà ‘o vero?/ E io ce
crede./ E quanno nascette/ sentendo/ o sole/ ‘ncoppa ‘a pelle/ vedenno ‘o mare/
a luna/ ‘e e stelle/ fui allere […] Pulecenella/ … Pecché nun sapeva […]/
Se pensavo/ ca ‘o munno/ era buono e doce/ comme chella fella/ ‘e mellone./ Ma
po’ quanno vedette/ tutto chello che succedeva/ se mettette ‘a maschera/
p’annasconnere/ ‘a gente/ ca chiagneva»20.
1 Andrea Mascara, Il segreto di Pulcinella, Luciano Landi Editore, Roma 1961, p. 107.
2 Domenico Scafoglio, Pulcinella, Newton Compton editori, Roma 1996, p. 7.
3 Roberto De Simone, “Pulcinella realtà di un mito / dalle origini ebraiche e dionisiache al teatro di tradizione dalla scena da Emanuele Luzzati alla rilettura di Fausto Lubelli”, Intervista di Claudio Caserta (18 marzo 2004), in Claudio Caserta, Pulcinella: viaggio nell’ultimo Novecento tra favola e destino, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli-Roma, 2006, p. 38.
4 Ibidem, Op. cit., p. 43.
5 Cfr. Barone Zezza, in «Nferta» rivista, Napoli 1839.
6 A. Mascara, Op. cit., p. 21.
7 D. Scafoglio, Op. cit., p. 9 e sgg.
8 Cfr. «La Ricreazione per tutti. Raccolta di letture piacevoli», pubblicata dal professore Domenico Chinassi. Seconda edizione con molte aggiunte, Napoli a Spese degli Editori. Si vendeva presso Giuseppe Margheri, Strada Nardones, n. 75, 1° piano, C. Boutteaux e M. Aubry, via Toledo, n. 70, 1° piano./ Achille Morelli, Salita Magnocavallo, n. 66, 1° piano./ Perres e Usigli, Strada Nuova S. Maria Ognibene, n. 35, 2° piano a diritta./ Stabilimento Tipografico Perrotti, Strada de’ Mannesi, n. 31, 1° piano, Fascicolo 17, pp. 380-381.
9 Riporto qui la definizione data da Jacopo Ferretti nella rivista «La Ricreazione di tutti»: «La “franceschina” è un istromento composto da due pezzolini di latta fra i quali passa un cordone. Il Burattinaio gittandosela in gola fa passarvi la parola, che acquista un suono gracidato e ridicolo, e con egual facilità tornandola in bocca, ed allogandola lateralmente lascia alla parola il suono naturale. Con quel suono bizzarro si fa parlare il Pulcinella quando non gli si dà il linguaggio napoletano», p. 380. Anche nel libro del Caserta, in nota, c’è un’altra spiegazione della pivetta: «piccolissimo strumento che, inserito in una trombettina di legno, produce i suoni ad ancia coi quali si può articolare il motivo della tarantella nella gamma di una quarta. […] Composta da due linguette di ottone o di latta – l’una concava e l’altra convessa – tra le quali si colloca una fettuccina particolare, la pivetta si applica sotto il palato, all’altezza dell’ugola. Il burattinaio fa passare il fiato attraverso la pivetta e, muovendo le labbra e la lingua, produce una recitazione alterata che sembra riferirsi allo starnazzare di un’oca, al pigolare di un pulcino, o alla voce di un bambino lattante. La pivetta è detta anche linguetta, sgherro, franceschina», p. 53.
10 Vd. Ottavio Feuillet, Vita e avventure di Pulcinella, Palermo, Editrice Reprint 1993, p. 139.
11 Claudio Caserta, Op. cit, p. 11.
12 Ibidem, p. 42.
13 Antonio De Curtis, Totò si nasce e io, modestamente, lo nacqui, Mondadori, Milano 2000, p. 106.
14 Ibidem, Op. cit., p. 70.
15 Cfr. A. Mascara, Op. cit., p. 89.
16 Benedetto Nicolini, “Introduzione”, in Benedetto Croce, “Pulcinella e il personaggio del napoletano in commedia”, Grimaldi & Cicerano, Napoli 1983, p. 16
17 Benedetto Croce, Op. cit., pp. 62-63.
18 B. Croce, Op. cit., p. 65.
19 Napoletana verace.
20 Il Paese di Pulcinella// Tu mi dici/ che Pulcinella/ è nato da una prova d’un mellone […]/ Sarà vero?/ E io ci credo./ E quando nacque/ sentendo/ il sole/ sulla pelle/ vedendo il mare/ la luna/ e le stelle/ fu allegro […] Pulcinella/ […] Perché non sapeva […]/ Pensava/ che il mondo/ era buono e dolce/ come quella fetta/ di mellone./ Ma poi quando vide/ tutto quello che succedeva/ si mise la maschera/ per nascondere/ alla gente/ che piangeva».