Prefigurazione e ripercorrimento di un viaggio dell’anima tra poesia e meditazione
di Anna Stomeo
Il modo di rivelare ciò che resta altro malgrado la sua rivelazione
non è il pensiero, ma il linguaggio della poesia.
(E. Lévinas, Blanchot/Lo sguardo del poeta, 1956)
Per chi, come me, ha avuto il piacere di leggere e di recensire la prima raccolta poetica di Marirò Savoia (M. Savoia, D’Autunno le Parole. Poesie, Lecce, Milella 2020)*, avere, oggi, il privilegio di approcciare, in anteprima, questa seconda raccolta ha significato non tanto cercare riscontri,quanto, invece, sperimentare, in una dimensione più evoluta, quei momenti di intensa riflessione che la prima raccolta aveva ampiamente annunciato, sia nel richiamo esistenziale delle tematiche che nell’afflato emozionale delle parole. Una riflessione che si fa meditazione e che si giustifica e si potenzia nel rapporto con l’alterità e con il mondo, nell’ascolto e nell’armonia delle voci .
C’è, nell’ispirazione intima di Marirò Savoia, una propensione al confronto, all’individuazione di comuni punti di riferimento con il lettore, che la sollecita all’argomentazione, al bisogno di chiarire, di spiegare, di condividere il senso autentico della ricerca poetica. In definitiva, un’esigenza ‘colloquiale’ che qui, ancora una volta, non si smentisce.
Evidente appare, però, in questa seconda raccolta, il definirsi di un’urgenza conoscitiva che evolve in riflessione pura, lasciando tuttavia intatte l’autonomia e la ricchezza emotiva delle immagini poetiche. Quasi un approdo a nuovi territori immaginativi, generati e guidati non più soltanto dall’istanza biografico-esistenziale dell’alternarsi di memoria e ricordo, ma da un’istanza teoretico- conoscitiva, che spinge verso l’ignoto, il non praticato, l’in-colto, nel senso proprio di uno spazio dell’anima che è sempre esistito, ma che oggi si sceglie di curare e, appunto, di coltivare. Un
bisogno di conoscenza che emerge in tutta la sua articolata profondità ‘filosofica’, facendosi
istanza universale, discorso rivolto all’Altro/Altra, come monito di condivisione e di ‘complicità’ nella dialettica vita-morte.
Lo conferma la dedica “a Ugo”, l’amico disperso dall’oblio e per sempre consegnato a momenti intensi di lucida visione, di cui rimane oggi il rimpianto e la struggente nostalgia. Un richiamo acuto e profondo, posto all’inizio di un percorso che si preannuncia inquieto e doloroso, ma anche inevitabile, giacché, come annuncia la stessa Autrice, nella nota di apertura, “il cammino umano si attua tra alti e bassi”, è un percorso di mutazioni e trasformazioni intrinseche ed estrinseche, che attraversa l’umanità e la storia, il destino della terra e il destino di ciascuno.
Di tale percorso l’Autrice è pienamente consapevole, tanto da declararne in partenza
l’articolazione in tre specifiche sezioni (Viandanti in cerca dell’Oriente/Anche Chisciotte è
stanco/Mi basterà essere vento), salvo, poi, a lasciarsi, altrettanto consapevolmente, trascinare dall’alternarsi di immagini che trasformano il percorso in un vero e proprio viaggio. Un viaggio-mito che si snoda per metafore e che assume, come telos, la meta nota dell’Oriente, carica disuggestioni culturali, ma mai scontata per un cammino di ricerca e di scoperta come questo che la poeta ci propone. Un andare a Est, quasi come allusione ad un andare all’indietro, alle ‘origini’, verso lontananze sepolte che celano il senso stesso del cammino, “sulla medesima stretta via/da dove ebbe inizio il viaggio” come recitano i primi versi della raccolta.
Lo schema del viaggio e del cammino assegna a tutta la raccolta un ritmo cadenzato e rituale, che le parole sottolineano con richiami e assonanze (“Passo su passo si dipana/la precaria nostra storia”), tanto che la stessa struttura metrica narrativa, sempre affidata al verso libero, assume, di tanto in tanto, quasi inconsapevolmente, ritmi più accesi e cadenze ridondanti, con spontanei richiami all’endecasillabo (“Nella memoria lunga di un inverno”), subito ritratto in una aspirazione più prosastica e ragionata. Giochi spontanei, che svelano un intimo possesso del linguaggio poetico.
Si vedano a questo proposito i primi dodici componimenti della prima sezione, che aprono
all’incanto ritmico del cammino e all’avvio di una musicalità inattesa che accompagnerà il lettore in tutta la prima sezione della raccolta (“Basso lo sguardo per non cadere/lungo sentieri in salita” ;
“Andare con ritmo lento nei piedi/scoprire una dimensione nuova/catturare sorpresa negli
angoli nascosti”; “Fermo il passo e ascolto/intorno i suoni della terra). Tutto si riconnette al cammino-viaggio, che le parole raccontano con una suggestiva ricercatezza di immagini e di suoni, nel gioco semantico dei lessemi che ritornano (restare/lontananza/andare), nell’eleganza dei passaggi (“Se il vento del nord/percuote con la sabbia / il selvatico giglio […] è perché si ricordi/l’infinitesimo granello che noi siamo”)
D’altra parte la dimensione del viaggio non è, per la poeta, solo un artificio letterario, ma una vera e propria struttura concettuale topica, che lega il pensiero e il verso all’apparizione dei luoghi intrisi di natura, di odori di terra e di vita condivisa e da condividere. E proprio la condivisione sembra essere la cifra etica, oltre che poetica, di questa raccolta: il bisogno di affermare la propria appartenenza “all’umana specie” e di sentirsi “dentro la natura, non sopra, non padrona, ma parte infinitesimale di essa”(nota dell’autrice).
L’intenzione dichiarata dell’Autrice è quella di un ripercorrimento poetico del procedere doloroso della vita, che, come ‘leopardianamente’ sottolinea nella nota introduttiva, è “sofferenza e pianto” già “al momento della nascita”. Ma, ovviamente, la poesia va ‘oltre’ la constatazione e la citazione e sembra spingere, a tratti, in una direzione apparentemente opposta, più costruttiva e foriera di speranze, quasi una ‘ginestra’, per rimanere ancora nella suggestione ‘leopardiana’ suggeritaci dall’Autrice.
Già nella prima sezione, infatti, la dimensione di una sintonia perfetta con la natura apre a nuove speranze (“Le note di usignolo si intrecciano perfette/alle corde del cuore in armonia insolubile”) e a nuovi scenari di solidarietà umana (Il cuore si sperde nel deserto/ma per incanto scopre fede nuova/di altra luce di altre sinfonie/sparse sulla terra, di altre energie sorelle/che d’amore si attraggono nella dissolvenza), tanto che l’io, intorno a cui si raccoglie il soggetto poetico, sembra ritrarsi e contrarsi, per poi tornare ad interrogarsi con più insistenza quando si aprono altri scenari esistenziali con la consapevolezza che ”ciò che è stato si deve abbandonare”.
La seconda sezione (Anche Chisciotte è stanco), che la metafora letteraria del Chisciotte introduce ad una dimensione esistenziale più nota e vissuta, appare caratterizzata dal disincanto e da una sottile delusione, che annebbia figure e ricordi. Sono i momenti che già hanno attraversato la scrittura poetica di Marirò Savoia, nella prima raccolta, e che ora ritornano con maggiore determinazione conoscitiva.
Lo scopriamo gradualmente, procedendo attraverso immagini forti che la poeta ci propone (“Nella bocca soltanto terra/soffocante fino in gola”) e che raccolgono il senso e l’input dell’intera raccolta: è da quelle immagini che muove la riflessione esistenziale verso l’auspicata meditazione. Ma, ancora una volta, anche in questa seconda sezione, a farci strada è la ricercatezza del linguaggio, la scelta appropriata ed elegante delle parole nel loro incrociarsi (“Nel tempo cheto al riparo/più non insisto nei trascinanti vortici/più non affanno per urgenti termini in
salvo dal compito impellente/ di vivere la vita “) che costituisce la nuova cifra della poesia di Marirò Savoia.
Di qui lo scivolare, piacevole e repentino per il lettore, lungo una china favorevole che, ancora una volta, induce alla ‘complicità’ (“… e ci troviamo qui/in mano il nostro libro/quello dei giorni/che abbiamo traversato”) e finalmente afferra, con la terza e ultima sezione, che dà il titolo all’intera raccolta (“Mi basterà essere vento), la riflessione pura nella sua essenza.
Anche se, qui, le icone della morte sembrano prendersi un inatteso spazio (“Cosa faranno le
mani/quando sarò vento/ […]Avranno forza/di carezzare il fiore/posato sul marmo freddo”), in realtà i giochi meditativi sono già fatti, perché l’Autrice sembra riproporre immagini archetipiche, tanto suggestive quanto attese, solo per circoscrivere un piccolo sistema allegorico e simbolico che faccia da scudo alla crudeltà della riflessione. Non certo per attutire, ma per mantenere quella distanza critica, fatta di dolore e scetticismo, che ha dato, a suo tempo, l’avvio alla scrittura poetica.
Di questi passaggi, che qui tentiamo di intravvedere e in cui, da lettori, siamo trascinati, Marirò Savoia tiene saldamente le redini. Con fierezza teoretica, senza falsa umiltà. Come, da sempre, è nelle sue cifre di donna e di poeta.
Lo dimostrano gli ultimi versi della sezione, che riconfermano non solo lo schema del viaggio (“Dal dove partiamo/nel dove arriviamo è viaggio/subìto nel mentre pellegrino), ma anche la temporalità unidimensionale, primordiale e ancestrale (“In quale punto dell’universo/fu l’esplosione siderale/l’abbraccio da cui scese la scintilla/in questo corpo mio/fatto dal sangue di mia madre”) del ‘racconto’ . Misteri che non possono essere disvelati dal pensiero, ma che Savoia affida con sapienza a quel “linguaggio della poesia” di cui Lévinas, qui, in esergo.
Anna Stomeo
- Anna Stomeo, La poesia colloquiale e persistente di Marirò Savoia, in Cultura Salentina-Rivista di pensiero e cultura meridionale http//www culturasalentina.it, 2 agosto 2022.