“Poemetto di Sicilia.L’isola perduta della memoria” l’ultimo libro di Vincenzo Fiaschitello è stato presentato a Napoli
Sabato 29 e 30 giugno 2024 presso la sala Gabriele D’Annunzio del Centro Italiano Studi Arte Terapia CISAT, in occasione del XXI Seminario Internazionale Interdisciplinare di Psicologia, Psicoterapia e Letteratura , sotto la direzione del prof. Roberto Pasanisi, è stato presentato il libro di Vincenzo Fiaschitello, Poemetto di Sicilia.L’isola perduta della memoria, Napoli, Edizioni dell’Istituto di Cultura di Napoli, 2024, pp136
L’autore ha svolto la seguente relazione:
Nel presentare le liriche che compongono questo Poemetto, credo che sia op-
portuno premettere alcune mie riflessioni personali sulla poesia che ho avuto
modo di esprimere in vari articoli su riviste e premesse a precedenti sillogi, allo
scopo di mettere al corrente il lettore riguardo al carattere della mia ricerca,
nonché alla intenzione di tenermi lontano da scuole, da mode e orientamenti
sperimentali che possono riconoscersi in movimenti come avanguardia, neoa-
vanguardia e simili.
Questa mia ricerca, come tutte le altre che l’hanno preceduta, si è avvalsa non
solo ovviamente di quel che appartiene come “vita interiore” a ciascuno di noi,
ma anche a una vasta conoscenza della poesia dei più noti poeti italiani e stranieri.
Ritengo, infatti, che tale conoscenza sia indispensabile, a differenza di tanti
giovani poeti emergenti, i quali credono che la poesia nasca da una sorta di ispi-
razione improvvisa, spontanea e personale, per cui è, a loro giudizio, inutile leg-
gere libri di poesie: è importante scriverle! Si trascura il fatto che tanta poesia
nasce non solo dalle proprie emozioni, ma anche dalla suggestione dei sentimenti
e delle emozioni degli altri.
La poesia del nostro tempo è quasi sempre caratterizzata da un linguaggio più
vicino alla prosa. Io non credo che ciò possa essere considerato un modo piut-
tosto semplicistico di depotenziamento del linguaggio poetico o una sorta di chiu-
sura alla poesia, ma al contrario un servizio utile alla poesia, che così ha la
possibilità di arricchirsi di stili e linguaggi diversi.
Ci si serve della poesia per affacciarsi al passato, al mistero della vita di ogni
giorno, per aprirci uno spiraglio e fare entrare un raggio di sole, capace di dar
senso a quel che ci circonda, a tutte le precarietà e alle inevitabili oscillazioni tra
la vita e la morte; per comprendere i limiti invalicabili del nostro agire e pensare,
per accettare quella notte arcaica che ci vive dentro, quella notte dalla quale tutti
abbiamo origine. I sogni, i ricordi, le emozioni, tracciano i sentieri più belli nel
paradiso della parola.
I poeti sviluppano percorsi lirici che testimoniano della bellezza del mondo,
ma che nel contempo non mancano di una visione malinconica proprio perché
avvertono la non stabilità del tutto, l’inarrestabile fluire delle cose, la mutevolezza
di ogni nostro rapporto con noi stessi e con gli altri.
Quando sentiamo di diventare estranei ai luoghi che abbiamo sempre amato,
lontani da coloro che non ci sono più, ecco che passare da un clima lirico a quello
malinconico il passo è breve. Immagini e sentimenti lirici finiscono, come diceva
il poeta greco Dionysios Solomos, con il concedere al poeta al massimo un otti-
mismo azzoppato.
La malinconia che aleggia spesso attorno ai versi dei poeti dipende, dunque,
dal fatto che essendo sempre presente il pensiero del tempo e del suo trascorrere
rapido nel passato, che solo la memoria può far rivivere, i poeti si ritrovano in
maniera naturale a frugare nel destino di fragilità della vita tra ombre scure che
vanno a ricoprire la bellezza e quindi nella constatazione di una misura di soffe-
renza, di una presenza di morte che incombe su tutti i viventi. Ma navigare a vista
lungo il corso dello Stige non dà esclusivamente vertigine e dolore, ma può essere
anche il modo per recuperare quel silenzio interiore e quel senso di appartenenza
alla vita, di riscoperta di cose semplici, di una luce celeste che squarcia l’oscurità
del cielo, che dona la speranza e spinge ad accettare tutto ciò che comunque ci
dondola attorno, quale segno di una parola divina creatrice.
Avvertire la fragilità della vita è molto semplice, magari cedendo alla dispera-
zione, ma fuggirla è impossibile: non resta allora che renderla meno acuminata
perché possa ferirci il più lievemente possibile. Questo può farlo la Bellezza, può
farlo la Poesia. È la poesia, miele della vita, che risana i nostri sentimenti quando
crollano come pilastri di templi antichi, che accende le nostre emozioni tra le ce-
neri degli eventi che costellano la nostra esistenza. È la poesia che dà conforto e
sollievo all’anima quando è stanca, quando vaga lamentosa e smarrita tra l’indif-
ferenza della gente.
Vero è che la poesia è letteratura, ma è capace di scavarci dentro e scavandoci
l’anima ci crea quel vuoto, quello spazio che ci allontana dal reale, diventa come
l’occhio miope che non ci fa scorgere i contorni, che ci avvolge in una sorta di
nebbia l’oggetto mirato. E tuttavia sappiamo che la realtà è là e che essa non solo
sta lì in attesa di un nostro passo, è essa stessa che ci guarda, che ci viene incontro
ora con dolcezza ora con violenza, col midollo e con la rugosa scorza. Se la
poesia ha dunque un compito, questo è proprio quello di farci avvertire una di-
stanza, una assenza, una illeggibilità di una certa esistenza nella quale siamo tutti
radicati e al tempo stesso smarriti per l’incomprensione di significati che ci sfug-
gono dolorosamente.
Certe poesie potrebbero sembrare cariche di angoscia per una fine che si in-
tuisce imminente: non mancano invece di mostrare come il breve o lungo viaggio
della vita alla ricerca del tutto tende a concludersi in modo positivo perché anche
il niente, tanto temuto, va a identificarsi in quel tutto che perciò diventa vita della
fine, così com’è per tutti gli esseri della natura.
Oscillazione tra il tutto e il niente, altro non è che la cancellazione del tempo,
il naufragio, la vertigine, la vittoria dell’oblio, del silenzio. Ma se il poeta è con-
tornato dal silenzio, gli resta come possesso inalienabile, una voce, quella della
poesia che gli dona il privilegio di confrontarsi con l’altro silenzio, naturale e uni-
versale, in cui l’uomo è immerso. Spezzando questo silenzio e non solo quello
della sfera personale, il poeta riesce ad esaltare la frammentarietà di una realtà,
che non ha una collocazione precisa di spazio, ma che si estende in tutto l’uni-
verso, consapevole e umile nella accettazione che l’uomo può cogliere qualche
briciola, che non è tutto, ma nemmeno niente. È qualcosa! È il destino dell’uomo
che certo rende inquieto il cuore e non lo appaga e, tuttavia, lo spinge ad essere
libero ed esente da vani rimpianti, da ripiegamenti gravidi di tristezza che ne ab-
battono le forze del vivere.
Circa la padronanza dei mezzi tecnici, credo che sia fondamentale concentrare
l’attenzione attorno al problema della lingua che in larga parte è ciò che fa la dif-
ferenza. Giovanni Pascoli soleva dire che il poeta è colui che esprime la parola
che tutti avevano sulle labbra, ma che nessuno sa dire. Ciò non significa che il
poeta debba essere volutamente oscuro e difficile, ma che è sempre alla ricerca
di parole più acute e più forti, di parole rivisitate, lucidate e riscoperte nel mistero
che spesso racchiudono. Non si può tuttavia non riconoscere che nonostante il
massimo impegno di essere chiaro, ogni poeta porta sempre con sé una quota di
“silenzio”, che a volte lascia perplessi. Aggiungerei senza esitazione che questo
favorisce il lettore più che danneggiarlo, nel senso che gli si concede spazio non
solo per accostarsi ai sentimenti espressi dal poeta, ma anche per richiamarne
altri dei suoi, simili a quelli.
Ecco perché è sempre problematico spiegare una poesia.
Il poeta greco Ghiannis Ritsos scriveva: “Ci sono versi – a volte intere poesie –
/ che neanch’io so cosa vogliono dire. Quello che non so/ mi trattiene ancora. E
tu hai ragione a chiedere. Ma non/ chiedermelo/. Ti ho detto che non so:” Più
recentemente il filosofo Jacques Derrida esprime lo stesso pensiero quando scrive
che la poesia deve correre il rischio di mancare di senso, perché senza questo ri-
schio non è poesia.
È importante ricercare la parola “giusta” per esprimere quel che sentiamo den-
tro, affinché il bello cui aspiriamo sia sempre più bello.
Nello Zibaldone di Giacomo leopardi abbiamo la prova di come quel genio
poetico fornito di smisurata cultura, con umiltà andava a ricercare e a riflettere
su singole parole e a capire come potessero essere poeticissime o meno. In quella
specie di enorme serbatoio di appunti scriveva per esempio: “le parole notte,
notturno, oscurità, profondo… lontano… antico… la parole arcaiche come
ermo, ostello, verone, donzelletta… sono poeticissime”. Il motivo principale era
che queste parole che nascono dal vago, dalla indeterminatezza, suscitano imma-
gini e ricordi poetici.
La poesia racchiude l’enigma della parola. L’arte va a toccare la profondità della
parola, la sua oscurità, il suo abisso, che solo il poeta può conoscere. La parola, magari svuotata di valore per il continuo uso nel parlare quotidiano, riprende luce e nuovo significato nel verso in cui è collocata dal poeta. Essa tolta dal circuito di utilizzazione originale e inserita in spazi erroneamente ritenuti impropri e inappropriati acquista sorprendentemente una memoria semantica. Così che in quella particolare posizione la sentiamo vibrare, senza tuttavia far venire meno l’attenzione agli effetti del senso e alla capacità di impostare nuovi possibili rapporti conoscitivi.
È evidente che la ricerca non è tutto; la poesia si sostanzia con le passioni e
con le idee della vita: gioie, mancanze, dolori, conquiste, amore, morte, sono tutti
temi che appartengono al grande gioco della vita.
Il poeta è colui che sa trarre dall’umano ciò che appartiene alla perfezione e
dall’effimero solo quel poco che richiama l’eterno. Ecco perché la poesia non può
estinguersi, continua finché l’uomo viaggerà sulla terra. Compito e ruolo della
poesia è ricordare l’umanità dell’uomo. Essa non può dunque prescindere da un
pensiero, per cui può essere avvicinata alla filosofia, senza però creare confusione.
Il pensiero filosofico si serve del linguaggio per argomentare, per riflettere. Il
suo dovere è di giungere a una conclusione, ha la coscienza della potenza del-
l’episteme, della scienza e ovviamente riflette anche sulla poesia, evidenziando il
proprio limite rispetto a quella.
Il pensiero poetico ha un suo procedere e un suo linguaggio che si sprofonda
nell’abisso di ogni parola, in quella oscurità misteriosa che risveglia in noi emo-
zioni e sentimenti, non destinati affatto a conclusioni razionali, come avviene per
il discorso logico. Il linguaggio poetico che, come scrive Andrea Zanzotto, è qual-
cosa di sacrale, cerca di “indicare”, non arriva a definire e concludere, mostra
come nessuna parola può essere la cosa: la rosa è la rosa, ma è anche qualcosa
d’altro. E il poeta è colui che sperimenta e entra nella oscillazione dei significati.
Non ha nulla di preciso da mostrare, nulla da sistemare in un ordine. Discute con
l’imprevedibile, da cui invece rifugge la ragione filosofica. Volgendosi verso il
reale, il poeta scopre mille sfumature, è l’umile raccoglitore di briciole della realtà
che si affollano attorno alla sua fantasia, innumerevoli segni segreti dell’universo,
che emergono dalla ancestrale notte da cui proveniamo. Sono questi segni che
sollecitano a comporre parole che ci avvicinano a ciò che ci oltrepassa.
La vaghezza, l’indeterminatezza, la logica non logica della parola poetica gio-
cano un ruolo fondamentale nel far sì che il dolore, l’angoscia, la paura, la gioia,
il sorriso, presenti negli eventi del passato, liberino dalla ruggine ciò che è stato,
per disporlo sull’altare della sacralità poetica, che trascende ogni manchevolezza,
al di là dell’aspetto nostalgico e consolatorio.
La chiarezza della poesia non può non essere che una chiarezza onirica, dal
momento che essa scaturisce da un materiale fatto di parole che evocano senti-
menti, stati d’animo, suoni e ritmi oscillanti, pronte a respingersi e ad attrarsi mi-
steriosamente. Ciò spiega perché la poesia si presta a una lettura multipla: è
lontana da ogni astrattezza e genericità. È antiideologica, antididascalica.
La frugalità verbale ha orrore della utilità, non intende liberarsi dalle contrad-
dizioni del mondo, accetta la molteplicità, si piega all’ascolto delle piccole cose
(fiori, erbe, piante, colori), ha angoscia e pietà verso la cupezza della realtà quo-
tidiana. Il linguaggio poetico filtra il reale in tutte le sue sfaccettature, mostra i
dettagli, ma non trattiene che l’essenza, ha la magia di andare al di là della materia,
a rivelare il mistero che in fondo coincide con ciò che riconosciamo come Bel-
lezza. È il suono delle parole, il loro accostamento al posto giusto che ci aiuta a
scoprire quello che di noi stessi non conosciamo, che ci spinge a inoltrarci in quel
che ci oltrepassa. La poesia è una sorta di soffio di immortalità, di eternità, che
ci compenetra, un fuoco che da millenni essa alimenta, pur se dolorosamente
consapevole di non poter cambiare il destino dell’uomo sulla terra.
La poesia continua ad avere ancora oggi un posto privilegiato nel vasto campo
della cultura. È vero che i poeti non hanno mai governato una repubblica, come
ha scritto Maria Zambrano, è altrettanto vero che la poesia non riesce a fermare
i carri armati, i terribili bombardieri, le guerre, i genocidi, ma ha la capacità di
rendere sensibili agli uomini di ogni tempo i pensieri e i sentimenti di chi soffre,
di rendere visibili attraverso gli occhi dell’anima le ingiustizie, il malgoverno, i so-
prusi, la morte della libertà.
Ernst Cassirer ha fatto notare in un suo splendido saggio filosofico ( Saggio
sull’uomo) che siamo abituati a dividere la vita in due sfere: la sfera della attività
pratica e quella della attività teoretica. Questa divisione ci ha fatto dimenticare
che sotto all’una e all’altra vi è uno strato più profondo, un substrato originario,
che solo il poeta riesce a intercettare mediante una visione né puramente pratica,
né puramente teoretica, ma “empatica”, la quale assicura in massimo grado la
condivisione con gli altri.
Tutta la mia produzione lirica ha sempre una centralità: quella del “tempo pas-
sato”. C’è dunque nei miei versi il magma dei sentimenti, dei sogni, delle illusioni
di una intera vita, che ora, giunta al traguardo degli ottantaquattro anni, soprat-
tutto con questo Poemetto, torna prepotentemente a ricollocarsi al punto dove
ha avuto origine, a rifugiarsi nella “terra-madre”, la Sicilia, che accolse “i miei umili
avi venuti da lontano/ decisi a coronarti di vigne e di ulivi,/ di templi e di dei. (Isola, isola bella e sublime).
È questo impulso interiore che mi ha sollecitato a “non appendere la cetra/ della
tua anima alla parete della stanza/…forse ancora hai bisogno di udire l’armonia/ del suo suono che stempera il fuoco/ divoratore delle primavere della tua vita.”
Sullo sfondo del passato naturalmente campeggiano le figure dei genitori: la
madre che “mi nutrì nel tempo della guerra/ e poi della pace inquieta d’ogni giorno…Sei oltre il sogno, oltre l’amore terreno/, di là dove il suono dell’universo/ si diffonde nel silenzio dell’infinito”. (Madre, quel sepolto tuo cuore); il padre: “custode di ladri e di assassini / nel carcere monastero… tornavi dopo notti insonni a custodire col moschetto in spalla/ le mura di cinta…tornavi come un uccello dalle piume/ logorate… tornavi dall’Ade per dare un pane/ alle nostre bocche” (A mio padre).
Non manca il timore per il tradimento sempre possibile della memoria quando
l’età avanza: “E mentre la vita è l’istante che fugge/ in un sol colpo senza pause né sconti/,va scolorendosi il mio tempo passato,/ la gioia della siderea infanzia/ e l’inquietudine dell’acerba adolescenza” (Va scolorendosi il mio tempo passato).
Un rinvio al tempo presente: “Oh, quel ponte sullo stretto/ tante volte sognato,
destinato/ a restare una ferita sanguinante,/ mai cicatrizzata” (Il ponte sullo stretto di
Messina).
E poi un ricordo di guerra: “Nulla fermava le selvagge marocchinate/ e le malevoli
schiere di Patton e Montgomery./ Fanciullo non sapevo ancora/ quale sapore di amaro sale l’anima/ assale di chi lotta per la libertà/ se vede che colui che arreca aiuto/ è un falso amico” (Luglio 1943).
Un richiamo alla guerra del nostro tempo: “Sotto cieli arabi e cristiani/ questa uma-
nità ha eclissato/ pietà e carità e percorre impervi/ sentieri di odio e intolleranza (Guerra in terra Santa).
E ancora:” Quale realtà? Sa di amaro e di dolore,/ di abissale profondità, di vasto specchio/ d’acqua tra la mia terra e Malta, dove/ due millenni fa ebbe uguale sorte/ l’uomo di Tarso, l’inviato di Cristo”(La realtà del presente).