Pian dei Giullari Ieri e oggi
di Tiziana Leopizzi
Un modo di vita sostanzialmente immutato per millenni è radicalmente cambiato sotto i nostri occhi in modo tale da spiazzare intere generazioni che non sono nate “tecnologiche”. L’equivoco è clamoroso, perché in quest’unico calderone vengono gettati saperi inestimabili che potrebbero per la prima volta nella storia declinare insieme etica e tecnologia.
Il mondo non è mai cambiato così repentinamente come dagli anni cinquanta in poi e in modo farraginoso ora , giorno dopo giorno.
Ė un grande piacere per questo conversare con GIovanni Cipriani, testimonial d’eccezione di tale metamorfosi che ha coinvolto professioni, scientifiche o meno, mestieri, socialità, mobilità, famiglia, convinzioni, convenzioni, per non parlare dell’intelligenza, quella artificiale, che affascina e terrorizza anche gli scienziati.
Per questo è molto importante essere consapevoli che mediamente oggi, mi riferisco all’occidente, rispetto a solo cinquant’anni fa si vive molto meglio, ma i benefici di cui hanno goduto le generazioni dal ’45 in poi, dovrebbero essere trasmessi ed eventualmente aumentati per le nuove generazioni. Occorre un cambio di paradigma per esaltare l’altro, non solo l’ego.
Giovanni Cipriani, uomo di grande cultura, docente all’università di Firenze e professore dell’ Accademia delle Arti del Disegno, ci offre un affresco emblematico di Pian dei Giullari, suo paese natio, ai bordi di Firenze, che ben esprime questo en-passe.
“Eccome – afferma con la sua bella voce pescando nella sua memoria di ferro – Lungo la strada gran parte delle case erano popolate dai giardinieri comunali che si occupavano proprio della manutenzione del Viale dei Colli e del Bobolino. Alcuni aristocratici poi vivevano nelle belle ville del luogo: il Conte Zileri dal Verme, il Marchese Platamone, i Conti Bouturlin, la Baronessa de Lamberterie ed i nobili Lensi Orlandi Cardini e Morrocchi. Fra le famiglie più in vista emergevano gli Spadolini, i Marangoni ed i Nidiaci.”
In paese a quanto pare ferveva l’attività continua: “erano presenti botteghe e attività di ogni genere che permettevano di vivere con comodità, senza spostarsi.
Sotto gli occhi si materializza una bella panoramica. “All’ingresso del paese accanto alla bella villa del celebre fotografo Nunes Vais, il carbonaio Tribolini. Fatti pochi passi ecco il calzolaio. Riceveva in casa. Era stato bastonato e costretto a bere olio di ricino dai fascisti del luogo ed aveva giurato odio eterno al paese. Non vi metteva piede e si recava a fare la spesa a Porta Romana. Accanto al calzolaio si trovava l’idraulico Garuglieri, sempre sorridente. Poche porte dopo abitava la sarta Irma, pronta ad ogni lavoro di cucito, e vicino a lei, si apriva lo spazioso laboratorio del falegname Frulli.
Avvicinandosi al cuore del piccolo paese si incontrava l’impresa edile Cellerini e la bottega di alimentari dei fratelli Omero e Armeno Attucci, fornita di sali e tabacchi e del prezioso telefono a gettoni. Omero aveva avuto un’idea geniale ed aveva aperto una trattoria, valorizzando le virtù culinarie della moglie Berta. I pochi piatti erano gustosi: penne strascicate, bistecche, polli alla diavola e frittura mista. Un vano coperto, sul retro, verso Firenze, ospitava i clienti ed in inverno una bella stufa di lamiera, carica di segatura, fornita dalla vicina falegnameria, riscaldava l’ambiente bruciando lentamente”.
È qui che soggiornò Galileo Galilei vero?
“ Si.Terminò qui i suoi giorni. Ma noi bambini eravamo affascinati dal barbiere Affortunati perché quest’uomo divertente aveva escogitato un modo efficacissimo per far star fermi i bambini, che periodicamente affrontavamo il taglio delle sue forbici. Dalla sua finestra indicava una miriade di gatti pronti golosi delle orecchie dei bambini cattivi. Gatti di ogni colore, e quando cominciava a tagliare, non mancava mai di dire sussurrando: Vedete quei gatti, io li campo con le orecchie dei ragazzi che non stanno fermi. Quell’immagine ci rendeva immobili, ma se qualcuno si muoveva ancora, ribadiva: “Guarda, il gatto è già pronto” ed il risultato era raggiunto.
L’ortolano, l’lettricista, l barista, lo spazzino, il macellaio, il fabbro, lo spazzino Merlini, il Bandinelli con il suo carretto di frutta e verdura,
lo Stefani che non impensieriva lo stanziale Bandinelli. Servizi settimanali li offrivano i il pescivendolo, un anziano pescatore con la stadera ed una grande zucca piena di pesciolini d’Arno vivi, ottimi da friggere, il lavandaio dalle Cascine del Riccio, a piedi, con un carretto, a prendere federe, lenzuola e asciugamani. Tutto veniva lavato nell’Ema e posto ad asciugare sull’erba, lungo la riva del fiume. Di martedi veniva il tintore Checcucci dal Galluzzo a prendere giacche, pantaloni o abiti interi, che riportava, lavati e stirati, sempre di sabato, in modo da poterli indossare la domenica. Proprio di domenica, nella bella stagione, raggiungeva il Pian dei Giullari, con un triciclo a pedali, il gelataio Chiostri. I gusti disponibili erano due, crema e cioccolata, che poneva con cura fra due cialde.
La piazza del Pian dei Giullari
Il piccolo paese aveva una festa che coinvolgeva tutti gli abitanti. L’ultimo giorno di Carnevale si “bruciava” il Carnevale. Grandi e piccoli portavano nella piazza fascine e legna da ardere, e dopo cena, alla grande pira veniva dato fuoco. Attorno si facevano scherzi e balli, poi la brace veniva distesa ed i più coraggiosi saltavano, superando quella massa infuocata. Le donne più anziane erano pronte, con paletta e scaldino, a raccogliere il fuoco che, si diceva, avrebbe dato calore e fortuna alla casa per tutto l’anno. Per i bambini il Carnevale riservava una lieta sorpresa. Il priore di Monteripaldi, Foresto Niccolai, allestiva, una volta l’anno, in una stanza della parrocchia, la proiezione di un film comico, immancabilmente interpretato da Charlie Chaplin o da Stan Laurel e Oliver Hardy.
L’ortolano Stefani con il suo carretto.
Seguiva poi la pentolaccia che, spaccata con un bastone da un bambino bendato, rivelava il suo parco contenuto di castagne secche e rare caramelle. “ Un nostro compagno povero, se riusciva a conquistare una caramella, la succhiava con il foglio per prolungare al massimo il piacere all’interno della bocca! Noi bambini ci recavamo a quell’ eccezionale appuntamento con un corredo di polvere per starnutire, di polvere per grattarsi e di bombe puzzolenti, oltre agli immancabili coriandoli, che finivano subito nella bocca di chi rideva alle scene più comiche. Le bambine, generalmente vestite da fata, con abiti di carta colorata, per la grande miseria, erano molto più contenute.”
In braccio a mio padre nella campagna sotto casa.
Ascolto incantata che la modesta scuola elementare Galileo Galilei era il cuore educativo del Pian dei Giullari. Si poteva frequentare dall’asilo alla quinta, ma non tutti terminavano il ciclo completo. I bambini più poveri lasciavano la scuola appena terminata la terza.
“L’insegnante dell’asilo, la maestra Farri, era una santa donna e faceva di tutto per interessarci, insegnandoci a tenere il lapis e la penna in mano. Il mio primo giorno di asilo fu comico. Nella mia famiglia, secondo i migliori canoni borghesi, il contegno era fondato sulla buona educazione e sulla assenza di espressioni volgari. Ben diverso era il mondo operaio e contadino che ci circondava e proprio all’asilo, quel giorno, sentii una parola che non avevo mai sentito prima, ma il cui suono mi piacque per la sua rotondità. Al mio ritorno trovai i miei genitori e mio nonno ad attendermi in sala da pranzo. Tutti erano curiosi di sapere le mie impressioni ed io li salutai gridando: “Bucaioli”. Il gelo piombò nella stanza, ma mio nonno, da vecchio fiorentino, risolse la situazione esclamando: “Certo, per essere il primo giorno s’incomincia bene” e tutti risero di gusto.
Frequentai i cinque anni con impegno. Avevamo, appesa in classe, una carta d’Italia anteriore alla I Guerra Mondiale, con Trento e Trieste austriache e vecchi banchi di legno con calamai di porcellana bianca. Quando l’inchiostro stava per finire chiamavamo il custode Lepri, che accorreva subito con un fiasco.
I pennini erano oggetto di grande attenzione, i più ambiti erano quelli a torre o ad indice puntato, mentre quelli a foglia suscitavano poco entusiasmo. In inverno era freddo. Avevano una bella stufa di terracotta, a piani, della ditta Felici di Prato ed a turno mettevamo un pezzo di legno. La maestra Lapi teneva uno scaldino sulle ginocchia, prendendo il fuoco dalla stufa con una paletta, ma non mancavano i geloni. Spesso facevo degli scherzi alle bambine più paurose. Nella strada che conduceva a scuola, allora sterrata, si trovavano spesso dei rospi, appena piovuto. Me li mettevo nelle tasche del grembiule e li ponevo poi, delicatamente, sui banchi, suscitando le reazioni più varie. Alla fine di ogni anno scolastico veniva allestito un piccolo rinfresco. Alla pasticceria Gualtieri, di Porta Romana, venivano ordinati bignè, millefoglie e brioches.
Un garzone, con un triciclo a pedali, affrontava la lunga salita ed il prezioso carico subiva scosse di ogni genere, con conseguenze facilmente immaginabili.
Nel 1960 affrontai la prova più impegnativa: l’esame di ammissione alla scuola media, presso la Machiavelli in Piazza Pitti, subito dopo aver superato l’esame di quinta elementare. Su venti alunni solo in cinque affrontammo e superammo la prova, gli altri o iniziarono subito a operare come apprendisti, o si iscrissero all’avviamento al lavoro. I figli dei contadini più laboriosi, Fallani e Bandinelli, miei compagni, si diplomarono in ragioneria e, con gioia infinita dei genitori, divennero impiegati di banca. Io solo mi sono laureato. Le due bambine che erano con noi divennero segretarie di azienda.
Ogni spostamento avveniva a piedi.
Per raggiungere il centro di Firenze occorreva arrivare al bar Fontana, dove si trovava e si trova ancora, la fermata dell’autobus del Viale dei Colli, allora caratterizzato dalla lettera M. Una corsa costava venticinque lire. Generalmente mi recavo in città con mia mamma e l’evento mi divertiva a non finire. La strada dalla nostra bella casa, la vecchia Villa Roster, al bar era lunga e sterrata e mia mamma, che voleva fare bella figura a Firenze, partiva con scarpe adatte al tratto sassoso e con calzature più eleganti in una borsa. A Fontana ci si fermava. La proprietaria, la Signorina Tina, era nostra amica. Mia mamma prendeva un caffè, io un biscotto e lì avveniva il cambio delle scarpe. La borsa con le calzature pesanti rimaneva in un angolo, in attesa del nostro ritorno.
Io in compagnia di un cane nei prati del Pian dei Giullari.
La Signorina Fontana era una donna singolare. I suoi prezzi variavano in relazione alla clientela. Se vedeva una donna giovane con un signore anziano che chiedeva, per di più, un tavolino appartato, le consumazioni raggiungevano costi vertiginosi; se invece la differenza di età non era evidente tutto rientrava nella norma. Talvolta qualche impertinente chiedeva alla Signorina perché non si fosse sposata. La sua risposta era sempre pronta: “Sposarmi? Io sono stata amante di un ammiraglio che mi ha fatto navigare per tutti i mari” e nessuno osava più aprir bocca.
Proprio a Fontana avveniva l’incontro per me più divertente.
Il pittore Ottone Rosai era un abituale frequentatore del locale, avendo casa e studio nella vicina via S. Leonardo. Eravamo amici e facevamo sempre brillanti conversazioni. A me aveva dato un incarico importante. Rosai non amava usare il gabinetto del bar, prediligeva l’aria aperta e quando io, mia mamma e Rosai attraversavamo il viale per prendere l’autobus, Rosai entrava immancabilmente nella siepe di lato alla scuderia di Villa Piatti, proprio di fronte alla fermata. Se il suo impegno era modesto, rimaneva a mezzo busto, se più rilevante, spariva nella siepe. Io avevo il compito di vedere se l’autobus si avvicinava e di chiamare ripetutamente Rosai. Appena l’M faceva capolino gridavo: “Ottone, Ottone c’è l’autobus, vieni”. Rosai mi rispondeva con la sua voce possente: “Fermalo”. L’autobus si fermava e dicevo al fattorino: “C’è Rosai nella siepe”. Tutti conoscevano le sue abitudini ed il fattorino mi rispondeva: “E s’aspetta”. Dopo poco Rosai saliva trafelato, spesso abbottonandosi i pantaloni. Si recava a Piazza San Marco, all’Accademia, dove insegnava.
Andai con i miei genitori ad una mostra che Rosai aveva allestito alla Strozzina, nel sotterraneo di Palazzo Strozzi. I visitatori erano numerosi ed ebbi modo di conoscere Odoardo Spadaro. C’erano molti ritratti con volti tormentati e contorti e, avendo molta confidenza con Rosai, mi avvicinai a lui e gli dissi: “Ottone ti devo dire una cosa”. Subito mi dette ascolto: “Dimmi tutto”. Io non esitai: “O Ottone ma perché tu fai la gente così brutta”. Mi sorrise e la sua risposta fu immediata, dopo aver assunta una espressione seria: “Guardati intorno, guardali tutti quanti. Son tutti brutti”. E’ l’ultimo ricordo che ho di Rosai. Smontò la mostra, che Adriano Olivetti aveva voluto ad Ivrea e si recò in quella città. Lì un infarto lo stroncò per sempre. Era il 1957. Io avevo otto anni”.
Saluto con affetto quel bambino e ringrazio il prof che è diventato, che ha trovato il tempo per questo vivido racconto spolverando i ricordi responsabili di emozioni per qualcuno meno giovane e che peer i più giovani sono invece storie tanto inedite quanto necessarie per far toccare con mano anche le tante fortune di cui oggi possiamo godere.
Le foto di corredo sono della mamma Vera Andrei Cipriani.