Pasolini, folklore e dialetto a… Lecce.
(di Maria Gabriella de Judicibus, Scrittrice e Presidente Pro Loco Lecce APS)
In occasione della promozione da parte di Pro Loco Lecce APS, del tour leccese di “E GLOSSA TI MANA” (La lingua madre), cortometraggio in onore di Pier Paolo Pasolini , a cura di Vania Palumbo, che accompagna il progetto di musica popolare dell’artista, ho scritto queste riflessioni che ho avuto il piacere di porgere agli intervenuti all’incontro di inizio novembre 2023 presso le Officine ETRO’ di Lecce e che vorrei condividere con i lettori de “Il pensiero mediterraneo” invitando coloro che ancora non la conoscessero ad accostarsi alla produzione della Palumbo di cui alleghiamo il link al suddetto “corto”: https://www.youtube.com/watch?v=AP6zhH2WjF4
Pier Paolo Pasolini accettò, a metà degli anni ’70, l’invito rivoltogli dal Ministero della Pubblica Istruzione, di tenere un ciclo di incontri con gli studenti delle scuole superiori e delle università che li portassero a riflettere sui delicati rapporti tra lingua e dialetto.
Per Lecce, tenne la sua conversazione dal titolo “Volgar’eloquio“, il 21 ottobre 1975. Io ero presente e avevo vent’anni. Studiavo Lettere e proprio in quel periodo lavoravo per il gruppo GISCEL dell’Università di Lecce. Quell’anno elaborammo una ricerca sul GRIKO sull’onda delle riflessioni che le “Dieci tesi” ci suscitarono. Le dieci tesi costituirono un testo collettivo preparato dai soci del GISCEL nell’inverno e primavera del 1975 e definitivamente approvato in una riunione tenutasi alla Casa della Cultura di Roma il 26 aprile 1975. L’intervento di Pasolini, pertanto, arrivò in un momento di grande fermento per tutti noi, studiosi della lingua italiana e per me, in particolare, già vocata alla poesia e alla letteratura che, proprio in quegli anni, decisi di flettere e canalizzare gli studi nella direzione della Linguistica, passando dalla linguistica storica alla linguistica generale per approdare alla Psicolinguistica, disciplina nella quale mi laureai con una tesi sperimentale, elaborata presso il CNR di Roma sull’analisi semantica di un connettivo logico. Destino ha voluto che una delle tracce della prova scritta del mio primo concorso a cattedra fosse proprio sul dialetto a scuola. Ovviamente ci sono andata a nozze ed ho vinto quel concorso a pieni voti, avviando così la mia carriera di insegnante-ricercatrice[1]…
Come ci disse, all’epoca Pasolini, “l’Italiano è stata una lingua letteraria per moltissimo tempo: Dante, Petrarca e Boccaccio si sono imposti per motivi letterari”.
In realtà l’Italiano parlato è una lingua koinè che oggi coincide con forme sempre più diffuse e stereotipate, legate all’utilizzo massiccio e sempre più pervasivo dei mass media.
Riscoprire le radici profonde delle lingue locali è riscoprirne la storia popolare, il folklore nell’accezione gramsciana che in quelle lingue è cementificato.
In un mio lavoro su LINGUA E DIALETTO edito da Scuola e Didattica dell’editrice LA SCUOLA di Brescia, individuai una serie di interessanti snodi che mi avevano aiutata moltissimo a risolvere gli errori da sovrapposizione lingua-dialetto nelle classi delle scuole secondarie di primo grado in cui insegnavo.
All’epoca non c’erano ancora né le Scuole di Specializzazione per Insegnanti né alcuna forma di Tirocinio Formativo Attivo[2] che- e mi scuso per la prossima ridondanza- insegnasse agli insegnanti ad insegnare la propria disciplina.
La mia fortuna fu essere cresciuta all’ombra e con l’esempio di mia nonna, insegnante elementare amatissima e di mia madre, straordinaria docente di Italiano, Latino e Greco che m’avevano allevata a pane, educazione civica e mitologia classica, offrendomi l’esempio di un tipo di didattica che, in seguito, fu definita “ricerca-azione”.
Sicchè, con gli strumenti acquisiti negli anni universitari e con l’esperienza e il cuore di mia madre e di mia nonna, trasformai la classe in laboratorio e i miei ragazzi in piccoli ricercatori, portandoli ad analizzare con rigore scientifico la propria lingua madre: il dialetto, appunto, al fine di scoprirne e formalizzarne le regolarità che ne consentivano la comprensione e dunque la diffusione così come i grammatici fanno con i manuali di una lingua viva che si evolve con l’uso.
I ragazzi utilizzarono gli strumenti di analisi loro offerti per applicarli allo studio del proprio dialetto, scoprendo la natura dei principali errori dovuti alla sovrapposizione lingua-dialetto come nell’uso del pronome relativo che in Italiano può e deve variare mentre in dialetto presenta la forma invariabile “ca” e scoprirono, nella riflessione sociolinguistica collegata alla ricerca, che non c’è altra traduzione della parola “lavoro” in dialetto che non sia “fatia” o “travagghiu” con l’accezione negativa che in italiano le due parole portano con sé ( “fatica” e “travaglio”) riflessione che, collegata, ad esempio, alla mancanza del futuro sintetico sostituito spesso da forme perifrastiche “ aggiu fare” “tocca fazzu” al posto di “farò” sottolinea l’idea di impegno gravoso e dovere assoluto presenti nella vita gravosa e sottomessa delle classi popolari . Scoprirono che collegare la lingua di un popolo alla sua storia è importante per due motivi: è il modo più scientifico e democratico possibile per narrare la verità storica della propria comunità d’appartenenza e, nello stesso tempo, è un modo profondamente etico per scoprire le proprie radici e costruire il proprio futuro preservandone valori e tradizioni.
[1] Autrice di numerosi saggi di grammatica e riflessione sulla lingua, Maria Gabriella de Judicibus è stata per un triennio redattrice per l’area Didattica dell’Italiano, della rivista nazionale SCUOLA E DIDATTICA, Editrice LA SCUOLA, Brescia.
[2] L’Autrice è stata Supervisore di Tirocinio per la SSIS di Puglia e Coordinatrice di TFA presso l’Università del Salento