IL PENSIERO MEDITERRANEO

Incontri di Culture sulle sponde del mediterraneo – Rivista Culturale online

Papà, mi racconti una fiaba?” (1) ,  un racconto di Vincenzo Fiaschitello

Papà mi racconti una favola

Papà mi racconti una favola

Papà, mi racconti una fiaba?

Sì, certo! Ascolta questa fiaba speciale che in pancia ha tanti semi di fiabe:

Il principe Enrico

Il regno della Tirlandia quel giorno era in festa. Tutta la popolazione dalle grandi città ai più piccoli villaggi aveva fermato il lavoro abituale per festeggiare la nascita del primogenito del re. Questi aveva attinto dal suo patrimonio personale e dalle casse dello Stato una gran quantità di monete d’oro, perché tutti potessero godere di un buon bicchiere di vino e di un dolce in onore dell’erede al trono.

La regina aveva pregato il re di invitare al palazzo le tre più famose indovine del regno perché ciascuna manifestasse con sincerità il futuro del piccolo principe.

La prima espresse una profezia che piacque tanto al re: il principe avrà grande intelligenza.

La seconda, suscitando il compiacimento della regina, disse che sarebbe stato un principe di straordinaria bellezza.

La terza predisse, con soddisfazione di tutti i membri del consiglio del re, che il principe avrebbe esercitato il potere con giustizia.

Ma, quando ancora i festeggiamenti erano in pieno svolgimento, una vecchia fata che tutti credevano morta si presentò alla porta del castello, chiedendo di entrare. Gli occhi sbarrati e cattivi, il volto pieno di rughe, i capelli scarmigliati che le coprivano la fronte, la bocca priva di denti, lo scialle nero che le scendeva fino ai piedi, spaventarono le guardie, che la allontanarono bruscamente. Quella, invece, di colpo sparì dalla loro vista e apparve nella gran sala delle feste, da dove si erano appena allontanate le tre indovine. Un terrore invase i cuori dei presenti: “Le loro Maestà, disse la vecchia fata, non hanno ritenuto necessario invitarmi. Credevate forse che fossi morta? Sappiate che le fate possono comandare anche alla morte! Ma basta, eccomi qua per i miei auspici. Sì, questo bambino, come ho sentito bene quel che hanno così generosamente augurato le mie colleghe poco esperte, sarà intelligente, bello e giusto, ma ascoltate ciò che io aggiungo”.

Il re, la regina, tutti gli invitati trattennero il fiato: “Questo bambino, continuò la vecchia, avrà quelle doti solo di notte. Alla luce del giorno, sarà piuttosto ottuso, orribile di aspetto e profondamente ingiusto nel giudicare”. Così disse e scomparve.

Grande fu la costernazione del re e della regina.

Ogni mattina la regina si svegliava con ansia allo spuntare dell’alba. Si avvicinava alla culla per controllare se il volto del bambino fosse cambiato di aspetto con le prime luci del giorno. Ma nulla accadde per i primi tre anni di vita del bambino. Crescendo, faceva progressi straordinari. A poco più di un anno già camminava speditamente, parlava correttamente. Aveva una carnagione fresca e occhi dolcissimi. La regina non smetteva mai di baciarlo ed accarezzarlo. Il re lo ascoltava divertito, quando per gioco lo metteva alla prova: gli presentava il caso di due litiganti e gli chiedeva di chi fosse in torto. Il bimbo interrompeva il suo gioco, si fermava a riflettere e poi esprimeva un giudizio sempre corretto e vicino alla verità, come quello di un esperto giudice.

Una notte il piccolo principe fu preso da una febbre altissima: si lamentava continuamente, tossiva, smaniava. La regina e due balie che lo assistevano con amore e con tenerezza dicevano: “Pur nella sofferenza, sembra proprio un angelo del paradiso!” Quando infine si addormentò, la regina e le balie si allontanarono dalla sua camera.

Al mattino, la regina appena sveglia, si affrettò ad andare dal suo bambino. Improvviso risuonò un grido. Quando le donne accorsero, videro la regina a terra priva di sensi e subito dopo posarono lo sguardo sul bimbo. Quale terribile sgomento! Non c’era un bimbo, ma un piccolo essere mostruoso, un muso allungato, gli occhi strabici, tutto il volto irriconoscibile, ricoperto da lunghi peli, le braccia accorciate e rozze, le mani simili a zampe di animali con unghie retrattili e affilate, i piedi callosi. Un senso di paura misto a repulsione si impadronì di loro e li fece indietreggiare. Soccorsero la regina portandola nella sua camera.

Il re, immediatamente informato, dopo un attimo di smarrimento, rincuorò la regina, che nel frattempo si era ripresa dallo svenimento e piangeva: “Quella maledetta strega! E’ lei la causa di questa nostra immensa sventura!”

Il re ordinò di cercare la vecchia indovina, ma nonostante l’impegno dei suoi soldati, non fu possibile trovarla, né nella sua casetta al limitare del bosco dove tutti affermavano di averla sempre vista, né in altri luoghi nascosti e impervi.

Nei giorni seguenti, il re la regina e le donne, che si prendevano cura del piccolo principe, assistettero a quel che accadeva al bambino. Dall’alba al tramonto, il principe aveva le sembianze di uno strano e mostruoso animale; non appena cominciava a mancare la luce del giorno, ecco che il principe riprendeva la sua forma umana dolce e bellissima. Fu lui stesso a suggerire al re e alla regina ciò che fosse meglio fare per ridurre gli effetti della sua disgrazia.

Il re diffuse un bando in cui si disponeva che, poiché il principe era stato colpito da una grave malattia agli occhi che gli impediva di vedere con la luce del sole, tutta la reggia, la corte, gli amministratori, i giudici e ogni funzionario, dovessero cambiare il dì con la notte.

Da quel giorno, pertanto, si vide di notte il palazzo del re sempre illuminato con il portone aperto, vigilato dalle guardie. Tutta l’attività, tutta la vita animata che prima si notava di giorno attorno al palazzo del re, ora si svolgeva alla luce della luna, delle stelle e delle fiaccole, mentre di giorno il sole illuminava il palazzo chiuso e silenzioso.

Il principe si faceva grande. I maestri che di notte si alternavano per la sua istruzione restavano stupiti per la sua rapidità nell’apprendere, oltre che per la sua bellezza e prestanza fisica; dopo qualche mese si presentavano al re, dicendo che ormai non avevano più nulla da insegnare al principe. Venivano allora interpellati altri famosi letterati, i quali accettavano volentieri l’incarico, ma dopo poco tempo si ritiravano dicendo che il loro insegnamento non era più necessario.

Ben presto la fama del principe sapiente, bello e giusto, giunse anche in terre lontane. E già diversi regnanti ambivano a imparentarsi con il re della Tirlandia.

La principessa Magda, figlia del re della Cambrazia, aveva ascoltato diverse storie sull’erede al trono della Tirlandia raccontate da cavalieri che si fermavano per qualche giorno presso il palazzo reale. E tutti concordavano nel dire che il principe avesse doti straordinarie di intelligenza e di bellezza, come forse mai possedute da altro uomo sulla terra. Peccato, però, che il principe soffrisse di un misterioso male agli occhi che gli impediva di restare attivo durante il giorno. Questi racconti incuriosirono talmente la principessa Magda al punto che quasi tutte le notti lo sognava.

Di giorno i suoi pensieri erano continuamente rivolti al principe Enrico. Il re e la regina spesso la rimproveravano per la sua distrazione, perché non rispettava gli orari del protocollo in occasione dei pranzi, dei ricevimenti, delle feste da ballo. La regina, specialmente, la invitava a essere più precisa e più attenta nella scelta dei vestiti, delle pettinature. Al ballo la attendevano i corteggiatori che si avvicinavano a lei con rispetto, timidezza e speranza. Ma lei sembrava assente, chiusa nella sua delicata bellezza e nei suoi sogni.

Non smetteva di pensare al principe Enrico. Di giorno sognava di recarsi nella sua camera e mentre quello dormiva, immaginava di rimboccargli le coperte, di sfiorargli i capelli biondi ondulati, di seguire il suo respiro; desiderava baciarlo, ma non osava temendo di svegliarlo. Se lo raffigurava esattamente come quei bravi cavalieri che l’avevano conosciuto e ne avevano descritto l’aspetto. Ma ella non poteva sapere, gli stessi cavalieri che lo avevano incontrato solamente di notte, non potevano sapere.

Un giorno la principessa Magda aprì il suo cuore alla regina. Confessò che si era innamorata del principe Enrico. In verità la regina lo sospettava da qualche tempo, soprattutto da quando con una scusa qualsiasi si sottraeva agli impegni mondani e si rifiutava di incontrare giovani di ottime qualità che venivano al palazzo per farsi conoscere dalla principessa. E lei, dopo un approccio superficiale, distratto e scostante, si scusava per un improvviso mal di testa o per una indisposizione e si ritirava nelle sue stanze.

La regina ruppe gli indugi; ne parlò al re, il quale dopo qualche perplessità si convinse che in fondo la grande distanza che separava il suo regno dalla Tirlandia non era poi così impossibile. Un buon cavaliere l’avrebbe coperta in poco più di una settimana.

Pensò bene, dunque, al modo migliore di creare le condizioni più favorevoli per realizzare il bel sogno di matrimonio della figlia.

Chiamato il notaio di corte, il re gli manifestò la sua volontà. Il notaio propose di scrivere una lettera al re della Tirlandia, nella quale si sarebbe annunciato il desiderio di matrimonio della sua figliola con il nobile principe Enrico e descritto i particolari delle generosa dote della principessa Magda. La lettera avrebbe dovuto essere consegnata direttamente nelle mani del re dallo stesso notaio, accompagnato da due alti funzionari fidati, recanti alcuni doni preziosi. Al principe Enrico, Magda inviava il grazioso dono di un collare con un medaglione su cui era incisa la sua bella immagine. La lettera avrebbe dovuto, infine, contenere la nota che in caso di accettazione, il matrimonio avrebbe dovuto essere celebrato subito in presenza del notaio e dei suoi funzionari. In un secondo tempo, appena possibile, il principe Enrico avrebbe raggiunto la sposa per stabilire liberamente il luogo dove risiedere.

La proposta del notaio fu accolta dal re, il quale diede gli ordini per la preparazione del viaggio. La regina ne fu felice; la principessa Magda ringraziò il re con tutto il cuore.

Magda manifestava la sua gioia con il canto, con le carezze alla madre, con la gentilezza e con la raffinatezza dei suoi gesti, mentre si muoveva in giardino, per le sale del palazzo, quando rispondeva ai saluti dei giardinieri, delle guardie, delle cameriere. Persino i fiori, i rami degli alberi che quasi toccavano terra, i piccoli animali domestici, erano oggetto del suo interessamento. “Oh mio tulipano, diceva, che bel colore che indossi stamane!” E guardando la frutta che pendeva dai rami: “Che pere meravigliose crescono nel mio giardino, è il paradiso sceso in terra!” E al gattino, che di solito ignorava, diceva: “Come sei bello, mio micetto, vieni, fatti abbracciare”. E lo chiamava affettuosamente e gli offriva qualcosa della sua colazione. Quello, dapprima sorpreso e sospettoso, poi rassicurato, le saltava sulle ginocchia e si faceva accarezzare.

La missione del notaio ebbe il successo sperato, anzi superò ogni aspettativa. Il re, la regina, il principe Enrico furono entusiasti perché quella proposta venuta da una terra così lontana, si presentava con tanto garbo, con tanta ricchezza di doni e con estrema nobiltà. L’immagine della principessa Magda colpì così tanto il principe che ancora prima della festa nuziale volle subito indossare il collare con il medaglione per non levarselo più nemmeno durante il sonno.

Fu una grande festa. Musica, danza e distribuzione di cibi prelibati allietarono la gente per tre lunghi indimenticabili notti.

Il notaio e i due funzionari ripartirono molto soddisfatti per i doni ricevuti in contraccambio. Alla principessa Magda, il principe inviava una stupenda collana di perle e la promessa che entro un mese l’avrebbe raggiunta e abbracciata.

Nelle notti seguenti, dunque, il principe Enrico cominciò ad affrettare i preparativi per la partenza.

Venere da meno di un’ora era spuntata all’orizzonte, quando una sera il principe Enrico partì dopo lunghi abbracci con la regina e con il re. Diede le ultime disposizioni affinché la carrozza che portava i suoi bauli, condotta dal suo fidato scudiero, l’avrebbe seguito la mattina dopo, mentre egli con il suo migliore cavallo sperava di abbreviare il viaggio di qualche giorno.

Cavalcava già da alcune ore, quando avvertì il bisogno di mangiare. Il cielo stellato all’apparire della luna si era fatto più luminoso, si potevano vedere soltanto le stelle all’orizzonte opposto a quello della luna nascente. Attorno un silenzio rotto di tanto in tanto dal verso di un uccello notturno. Un venticello soffiava dalle colline vicine e faceva lievemente ondeggiare le fronde degli alberi.

Il principe legò il cavallo al tronco di una quercia, si sedette sul primo grosso sasso che trovò lì accanto e, tirato fuori dal suo sacco un buon pane e una fetta di formaggio, cominciò a mangiare. A un tratto avvertì il suono lontano di un campanello. Si fermò un istante e di nuovo sentì il suono. Poi nulla, poi di nuovo il suono. Capì che c’era qualcuno che si avvicinava. Infatti ecco in un punto non molto folto del boschetto, vide un chiarore che via via andava crescendo insieme al suono sempre più distinto. Chi poteva essere a quell’ora di notte? Non certo un fanciullo che si divertiva a suonare la sua campanella! Ma allora? Il dubbio si dileguò nel momento in cui finalmente vide un uomo coperto da un mantello, con un bastone in una mano e un lampione nell’altra, e con un campanello legato a una gamba: era dunque un lebbroso.

Quello si fermò, non osando avvicinarsi. Il principe Enrico gli fece un segno con la mano, incoraggiandolo ad avanzare. Poi vedendo che quello non si muoveva: “Vieni a mangiare accanto a me. Non ho paura del contagio”. E gli offrì da mangiare.

Il lebbroso andò a sedersi su un sasso vicino, mangiando avidamente. Disse di chiamarsi don Ferdinando, un tempo rispettabile gentiluomo di campagna, proprietario di terre e di una bella casa. Un brutto giorno fu colpito dalla lebbra. Prima che la malattia facesse scempio del suo viso e delle sue mani, dovette allontanarsi e vivere in solitudine con l’obbligo di non avvicinarsi mai ad alcuno e di segnalare già da lontano la sua presenza con il suono del campanello. Chiunque udiva quel suono, fuggiva terrorizzato.

-“Come mai, disse il lebbroso, tu non hai avuto paura? Perché un ricco signore come te viaggia tutto solo e per giunta di notte?”

-“Sì, risponderò alle tue domande, ma prima dimmi tu da dove vieni e dove vai”.

Il vecchio lebbroso disse di aver appreso da una brava donna che faceva la legna nel bosco che in una grotta ai piedi della collina viveva un taumaturgo, dotato di speciali poteri, capace di guarire ogni malattia. “Ora, continuò il vecchio, io dopo lunga ricerca ho trovato la grotta, ma il custode, uno strano e arcigno essere, mi ha respinto, dicendomi che mi farà entrare solo dopo tre viaggi nella notte di plenilunio. Sto tornando proprio questa notte dal mio secondo viaggio. Il prossimo mese finalmente spero di poter vedere il taumaturgo”.

-“La tua è una storia che mi ha incuriosito e che mi interessa molto, poiché nonostante le apparenze anch’io soffro per un malanno terribile, di cui è meglio che non ti parli per non farti morire di paura. Ti prego, perciò, di indicarmi la via per raggiungere la grotta”.

Il vecchio lebbroso diede le indicazioni richieste e si avviò per la sua strada, dopo i ringraziamenti reciproci e gli auguri di una buona fortuna.

La metà della notte era già superata da alcune ore, quando il principe Enrico balzò a cavallo e si diresse verso le colline, così come gli aveva indicato il lebbroso. Nella notte ombrosa di luna piena, si udivano gorgheggi soffocati, trafitti da fruscii, da ronzii: tutto rendeva quell’ora e quel luogo un mistero attraversato da strani odori di erbe, di sterpaglie, di alberi che come boschetti impenetrabili facevano spesso imbizzarrire il cavallo, che ostinatamente si rifiutava di procedere. Si guardò attorno e, sceso da cavallo, scelse un angolo nascosto dove potersi rifugiare, vedendo che l’aurora non era lontana.

Gli tornavano alla mente certi episodi della sua felice infanzia, i racconti di un suo maestro che, per allietarlo dopo lo studio, aveva l’abitudine di narrargli fiabe e favole.

Una fiaba, in particolare la ricordava bene. Gli sembrava di udire ancora la voce del suo simpatico maestro raccontafiabe: “Tu sei un bambino fortunato che per casa ha un castello, un giardino immenso, il re e la regina e tante persone pronte ad accoglierti, ma ora senti quel che accadde a un fanciullo chiamato Giovannino.

Per tutto il pomeriggio si era divertito a giocare con i suoi amici per le strade del paese. Al tramonto del sole, gli amici, uno dopo l’altro, tornarono alle loro case. Giovannino si decise per ultimo. Giunto a casa, bussò ma nessuno gli aprì. Pensò che la madre fosse uscita per fare la spesa e si sedette sui gradini ad aspettare. Dopo un po’, bussò ancora, ma inutilmente. Scoppiò a piangere. Mille pensieri, mille fantasie, si affollavano nella sua mente. La solitudine, l’amarezza per aver commesso qualche colpa sconosciuta, la fine di un legame indispensabile, gli procuravano attimi di terrore indominabili. Gli sembrava che per lui si fosse aperta la via della sventura, quale giusta punizione. Tra il pianto e l’angoscia vedeva tante porte che improvvisamente gli si spalancavano. Da ognuna di esse si affacciava sempre la stessa vecchia con la sua faccia beffarda, che teneva in mano qualcosa e gliela offriva, ora un topolino, ora un coniglietto, una candela accesa, una mela. Ma il fanciullo rifiutava di avvicinarsi agli usci e scappava via.

Ora era una voce che lo inseguiva e lo minacciava, forte come un tuono con echi lunghi e prolungati, poi sempre più piano, fino a diventare un sussurro. “Fermati, bimbo mio, sono la tua mamma. Non mi riconosci? Voglio prenderti e appenderti a quell’albero. Vedrai, sarà il più bel dondolio della tua vita!”

Ma Giovannino fuggiva, sentiva che non era la sua mamma. Correva disperato, ormai lontano dalla sua casa, per la campagna deserta in cerca di un riparo per la notte. Su una roccia che sovrastava il sentiero, vide un’ampia apertura. Era una grotta. “Starò là dentro questa notte, pensò Giovannino, là starò al sicuro!”

Raggiunta la grotta, gli apparve un grosso cane: “Io sono il guardiano della grotta. Tu chi sei? Che cosa vuoi?”

“Sono un bambino che ha trovato chiusa la sua casa e si è perduto per la via. Ti chiedo il permesso di entrare per ripararmi dal freddo della notte”.

Il cane accordò il permesso e Giovannino entrò. In fondo alla grotta si trovò in un grande cortile deserto; lo percorse tutto fino a una enorme porta, ai lati della quale due grandi leoni di pietra lasciavano cadere dalle fauci pietre preziose in una vasca piena d’acqua. Al suo arrivo la porta si spalancò e Giovannino poté entrare. Percorse un lungo corridoio e infine sbucò in una immensa sala che improvvisamente si illuminò. Dappertutto c’erano specchi, quadri, tappeti, tende, mobili intarsiati. In fondo alla parete di fronte vide un palco elevato, sul quale stava, come un re sul trono, un vecchio con una barba bianca e lunga, che gli arrivava fino ai piedi.

Il vecchio sorrise e rassicurò il bambino: “Poverino, quanta strada hai percorso per arrivare fin qui! Ma ora sei al sicuro, nessuno ti farà del male. E’ da molto tempo che non vedo un bambino e che non racconto una fiaba. Siediti accanto a me e ascolta, ti prego. “C’era una volta, cominciò il vecchio, ma non fece in tempo a prendere fiato, che Giovannino disse: Un re!

“No”, disse il vecchio.

“E allora una regina?”

“No, insistette il vecchio, né un re, né una regina e nemmeno un principe o una principessa. C’era una volta, ripeté il vecchio, un giovane signore, bello e ricco, che viveva in una grande villa circondata da un immenso parco con alberi di alto fusto, con viali e vialetti, allietati da fontane da cui sgorgava un’acqua limpida e fresca. Per le strade attorno, polverose e sporche, giocavano squadre di ragazzi che scalzi e seminudi vociavano tutto il giorno. Di tanto in tanto qualcuno sbirciava da qualche piccola breccia del muro che circondava il parco e gridava ai suoi compagni come sarebbe stato bello e divertente correre e gridare in quel parco. Ma a chi chiederlo? Il padrone era molto severo; geloso della sua proprietà avrebbe lanciato la sua terribile muta di cani per scacciare chiunque avesse osato scavalcare il muro.

Nonostante le preghiere delle autorità affinché concedesse un piccolo spazio del parco, quel signore si mostrò irremovibile e si chiuse nel suo profondo egoismo. Passarono alcuni mesi. Un giorno si presentò alla villa una vecchia signora, che chiese di parlare al proprietario. Quando costui seppe della ragione della visita, ordinò al portiere di accompagnarla fuori.

Quella vecchia signora si rammaricò moltissimo per l’insopportabile egoismo del proprietario e, siccome era una bella e giovane fata travestita, volle infliggergli una grave punizione. In un attimo la villa e il parco scomparvero. I ragazzi e la gente del paese, dopo i timori dei primi giorni per quel misterioso cambiamento, cominciarono a frequentare quel luogo, anche se brullo.

“Ecco, disse il vecchio, quel giovane signore che viveva nella splendida villa ero io. Ora sono qui in questo luogo dove è così bello in apparenza, ma terribilmente brutto per me, perché come vedi non posso nemmeno muovermi”. E così dicendo, allontanò la sua lunga barba e mostrò la parte inferiore del suo corpo completamente pietrificata.

Vivo con la speranza che si avveri ciò che scrisse la fata in questo biglietto che trovai dentro la tasca della mia giacca: “Guarirai del tuo male quando racconterai la tua storia a un ragazzo, il quale assolverà con precisione l’incarico che gli affiderai”. Sette sono stati i ragazzi arrivati fin qui, ma nessuno finora mi è stato utile per liberarmi da questo incantesimo. Ora spero che tu potrai aiutarmi.

Hai visto che prima di giungere fino a me ci sono due grandi leoni di pietra che, aprendo le fauci, fanno scendere pietre preziose. Tu prendine soltanto tre, stringile nella tua mano e portamele qua. Poi ti dirò ciò che resta da fare. Ma attento, durante il cammino sentirai tante voci: ognuna ti dirà qualcosa, ma tu non ascoltare, pensa soltanto a eseguire esattamente il mio ordine. E bada, tre pietre preziose, non una di più”.

Giovannino si avviò piuttosto allegramente, pensando che in fondo non sarebbe stato difficile portare a termine quell’incarico.

Ma, fatti pochi passi, ecco un serpente verde e nero gli si rizzò davanti, impedendogli di avanzare.

“Da qui non si passa: la mia bocca ha bisogno di una pietra preziosa se vuoi che si chiuda e ritorni da dove sono venuto”.

“Ma io non ho nulla”, disse il ragazzo.

“Ti lascerò passare se almeno mi prometti che me la darai al tuo ritorno!”

“Sì, lo farò”, disse Giovannino.

Il serpente si fece da parte e Giovannino passò.

Lungo il corridoio si sentì chiamare. Il fanciullo si guardò attorno e vide che sulle pareti, a destra e a sinistra, c’erano otto quadri: il primo era vuoto, gli altri contenevano le immagini di sette ragazzi. Da ognuna di quelle tele veniva una implorazione: “Aiutaci, fratello, anche tu sei entrato come noi in questa fiaba. Ora noi siamo prigionieri e non possiamo più uscire e presto lo sarai anche tu. Vedi che già è pronta per te la cornice. Puoi salvare te e noi se porti a ciascuno una pietra preziosa che esce dalla bocca dei leoni di pietra”.

Così ripetevano in coro quelle immagini di ragazzi chiusi là da chissà quanto tempo.

Giovannino continuò a camminare e finalmente raggiunse la grande porta che custodiva quel luogo misterioso. Al suo arrivo, la porta si spalancò e vide finalmente la luce del sole e i due enormi leoni di pietra che cominciarono a ruggire. A ogni ruggito facevano uscire dalle loro fauci splendide gemme di rara bellezza. Una voce risuonò: “Ehi, ragazzo, prendi tutte le pietre preziose che vuoi e fuggi via. Sarai ricco e felice con la tua mamma”. Ma egli si ricordò delle parole del vecchio: “Prendi solamente tre pietre”.

Giovannino scelse le tre gemme più belle, le strinse in un pugno e correndo tornò indietro. Sentì di nuovo il coro implorante dei ragazzi dei quadri, rivide il serpente verde e nero, ma questa volta afflosciato in un angolo della grande sala, raggiunse il vecchio seduto sotto il baldacchino e posò le tre pietre preziose sulle sue ginocchia. Immediatamente il vecchio si alzò. Giovannino si accorse che gli era scomparsa la lunga barba; dinanzi a lui ora stava un signore alto, giovane e sorridente, che gli accarezzava i capelli. “Grazie, mio caro amico, disse, l’incantesimo finalmente è finito. Tu mi hai liberato da un triste destino. Guardati attorno: questa è la mia casa di un tempo, questo è il mio parco. Sono felice di essere amico dei bambini. Tutti potranno venire liberamente a giocare. A te affido queste tre pietre preziose, una per te e per la tua mamma che ti sta aspettando a casa; le altre le custodirai finché non deciderai di donarle per alleviare le sofferenze di coloro che vivono in povertà.”

La sera era già giunta da un pezzo, quando la madre di Giovannino, ansante e preoccupata, ritornò a casa. “Oh, grazie al cielo, disse, il mio bambino è qui! Svegliati, piccolo, sono tornata! Il ragazzo si svegliò, si stropicciò gli occhi e saltò al collo della madre.

“Sai, sono dovuta andare all’ospedale a trovare la nonna. Ho parlato con i dottori, che finalmente mi hanno assicurato che ora sta meglio. Ma tu, cosa hai fatto? Hai dormito tutto il tempo?”

“Io ho aspettato che tornassi, ma tu non arrivavi!… Ma allora, madre, non è vero niente? L’incantesimo, il vecchio signore, il serpente, i leoni di pietra?”

“Hai fatto un brutto sogno, piccolo mio, ora sei qui con me”.

“Aspetta, madre, ma il vecchio signore mi ha dato tre pietre preziose, una per te e le altre per i poveri. Ecco, guarda!” E infilò le mani in tasca, ma non trovò nulla.

“Non preoccuparti, figliolo, per me è come se me l’avessi data, per quelle dei poveri, sarà il tuo cuore che ti suggerirà di volta in volta il modo migliore per aiutarli, quando potrai farlo con ciò che possiedi”.

Il principe Enrico dormiva da qualche ora. Il sole era già alto nel cielo. Tutto attorno c’era un meraviglioso tappeto di foglie, gli alberi del fitto bosco spandevano un’ombra, interrotta solo qua e là da qualche sprazzo di luce. Piccoli insetti percorrevano in fila verso l’alto e verso il basso i tronchi muscosi delle piante, gorgheggi di uccelli si intrecciavano nell’aria primaverile. Una volpe con la sua famiglia passò lì davanti al principe, tenendosi prudentemente a distanza. Lo stesso fece un grosso orso affamato in cerca di un nido di api. Ma un branco di lupi, prima silenziosamente, poi ringhiando, si fecero minacciosi di fronte al principe. Bastò soltanto che il principe si alzasse con il suo terribile aspetto per mettere in fuga i lupi.

A quell’ora al principe non riuscì più di prendere sonno e se ne restò rannicchiato a godere la bellezza della natura alla luce del sole. Non gli capitava quasi mai di vedere i colori delle foglie, dei fiori, delle erbe, in modo così vivo; i suoi occhi erano abituati a guardare alla luce meschina delle fiaccole, per cui la bellezza del mondo naturale gli era sconosciuta.

“Che strani pensieri mi vengono in mente di giorno da qualche tempo, quando invece non dovrei possedere alcun lume di intelligenza, secondo il volere di quella fata malefica!”

In quel momento sentì un fruscio. Qualcuno si avvicinava. Tentò di nascondersi, ma non fece in tempo. Vide una fanciulla che con voce gentile e tranquilla, sorridendo, lo chiamava: “Enrico, Enrico!”

“Ma tu sei Pierina? Ti riconosco, ma che cosa fai qui? Non eri morta? Sapessi quanto ho pianto per te. Eri la compagna dei miei giochi! Poi un giorno la mamma mi disse che una malattia ti avevi uccisa.”

“Sì, infatti sono morta, sono rimasta bambina; non vedi le treccine che mi tiravi quando ti facevo arrabbiare?”

“E’ vero, cara bambina, ma dimmi come hai fatto a tornare? Non hai paura del mio aspetto?”

“No, Enrico. Io ti vedo bello e forte. Quando sono scesa nel mondo altrove, sono stata fortunata perché una donna bella e buona, con un meraviglioso mantello azzurro sulle spalle, mi ha preso con sé e mi ha sempre mostrato quel che accadeva nel tuo regno. Ho sofferto tanto per il terribile incantesimo che ti amareggia la vita. L’ho pregata così tanto che alla fine si è commossa e mi ha concesso di tornare. Mi ha dato due sacchetti pieni di sassi e mi ha detto che il primo conteneva i sassi dei giorni, il secondo quelli degli anni. Poi con la fronte rivolta a occidente mi invitò a  tornare indietro nel tempo, lanciando alle spalle i giorni e gli anni passati. Ho però solo il tempo necessario per consegnarti questo anello. Per spezzare l’incantesimo ti basta tenerlo al dito e così anche di giorno, alla luce del sole, sarai il bel principe Enrico che tutte le donne vorrebbero come sposo”.

“Oh, dolce Pierina, grazie grazie, disse il principe, non so come ricompensarti.”

“Due cose puoi fare per me, ricordarmi sempre e lasciarmi subito fuggire; non appena mi toglierò l’anello per dartelo, io chiuderò gli occhi perché non ti veda nell’aspetto di terribile animale e porti con me l’immagine della tua superba bellezza.”

Pierina chiuse gli occhi, si tolse l’anello e allungò il braccio. Il principe prese l’anello, lo mise al dito e all’istante assunse l’aspetto nobile e maestoso che aveva di notte.

Quando Pierina riaprì gli occhi, vide che il principe le sorrideva.

“Ora debbo andare, addio Enrico”.

“Aspetta Pierina, girati”, disse il principe, e le tirò affettuosamente le treccine.

Il principe Enrico ormai non riuscì più a riaddormentarsi per cui pensò bene di riprendere la strada per raggiungere la grotta che gli aveva indicato il lebbroso. Pur avendo le sembianze umane anche di giorno, grazie all’anello di Pierina, era deciso a sentire quell’uomo se poteva guarirlo dal suo male in modo definitivo.

La via intrapresa era quella giusta e, infatti, prima di mezzogiorno si trovò dinanzi al luogo che gli aveva descritto il lebbroso. La grotta era seminascosta dai cespugli, che però non gli impedirono di entrare.

“Ti aspettavo, disse una voce cavernosa che proveniva dal fondo della grotta. Sei il principe della Tirlandia e mi vuoi parlare del male che ti affligge”.

“Ma come fai a conoscermi? Come sai dei miei malanni?”

Il principe guardò quell’uomo che gli stava di fronte e si meravigliava come da un piccolo e magro vecchietto potesse venir fuori una voce così profonda e cupa.

“Siediti accanto a me, bel principe. So tutto di te, so di quell’incantesimo che una fata malvagia ti ha fatto, so anche dell’anello che la tua piccola amica di un tempo ti ha dato e che ha alleviato il tuo male, so quel che tu ora vorresti da me. Devo purtroppo dirti che io sono semplicemente un mago, non posso annullare l’incantesimo di una fata e guarirti del tutto, ma posso dirti quel che sta scritto sulla pagina del libro del tuo destino: Amor omnia vincit. E ora vai, riprendi il tuo cammino, guardati da un pericolo mortale che incombe su di te, vai incontro alla tua sposa”.

Al principe Enrico, sbalordito per ciò che quel piccolo misterioso essere umano sapeva di lui, non restò altro che ringraziare devotamente e uscire.

Il principe ormai, con il prezioso anello al dito, dormiva di notte e viaggiava di giorno. Era convinto che avesse già percorso più della metà del suo viaggio, quando si imbatté in un pastorello che faceva pascolare il suo gregge in una splendida vallata verde.

L’aria era fresca, la vista delle pecore e di quel tappeto di erba, il suono dello zufolo del pastorello, tutto sembrava invitarlo a riposare. Scese da cavallo e si avvicinò al pastorello. Quello, per nulla intimorito dalla presenza di quel nobile giovane bello e vigoroso, continuò a suonare finché terminò il gradevole motivetto.

“Come ti chiami?”, domandò il principe.

“Sono Giuseppe, il figlio della serva del padrone delle pecore.

“Non ti annoi a stare qui solo tutto il giorno?”

“Ma io non sono solo: c’è il mio cane, ci sono le pecore e soprattutto c’è lui!”

“Lui chi?” disse il principe.

“Ma lui, lo gnomo!”

“Lo gnomo?”

“Sì, lo gnomo! Non lo vedi? E’ già da un pezzo che ti sta guardando. Per poco il tuo cavallo non lo schiacciava. Vedi, com’è piccolo!”

Il principe guardò nella direzione che gli indicava il pastorello e finalmente riuscì a vedere un cosino minuscolo di uomo, con un buffo cappellino rosso, un vestitino giallo e un paio di scarpette, ancora più piccole di quelle di una bambola.

Lo gnomo sembrava arrabbiato. Seduto su un piccolo sasso, accavallò le gambe e fissò il suo sguardo in quello del principe.

“Ebbene sì, sono io che tengo compagnia al pastorello. Lui mi rallegra con la sua musica e io gli racconto una fiaba ogni giorno.”

A quel punto il pastorello intervenne e, rivolgendosi allo gnomo, disse:

“Ti prego, amico mio, raccontami di nuovo quella dell’asino d’oro che mi piace tanto. Così l’ascolterà anche questo nobile giovane e si convincerà della tua bravura”.

“Sì, disse il principe, sedendosi sul prato e appoggiando la schiena a un albero di acero, racconta. A me piacciono le fiabe”.

Incoraggiato dai due, lo gnomo cominciò a raccontare.

In una capanna, ai bordi di un boschetto di faggi, viveva una giovane vedova con l’unica figlia di quasi sedici anni, che tutti chiamavano la zoppetta. Il suo nome era Vittoria e, a parte quel difetto alla gamba che la faceva zoppicare, era una ragazza molto bella e saggia. Quando la madre si ammalò, Vittoria si dimostrò così abile nell’accudirla, nel preparare i pasti, nel tenere in ordine la capanna, che la sera al momento di andare a dormire, quella povera donna non faceva altro che ringraziarla e accarezzarla.

“Madre, fatti coraggio, vedrai che guarirai presto e tornerai come prima alle tue occupazioni.”

Ma la malattia non le dette scampo e dopo pochi giorni la vedova morì, lasciando sola al mondo la povera figliola. Vittoria pianse tutte le sue lacrime, poi si fece coraggio, si ricordò che la madre diceva spesso che in un piccolo villaggio, dietro i monti che circondavano la valle, viveva la nonna. Decise dunque di mettersi in viaggio per andare a trovarla. Il cammino fu lungo e faticoso. Fu costretta a chiedere ospitalità per la notte ad alcuni montanari che abitavano in quei luoghi. Dormì in una stalla accanto a due caprette. La mattina venne la padrona per mungerle e una tazza di buon latte la offrì alla ragazza prima di ripartire.

Verso il tramonto finalmente giunse al villaggio e qualcuno le indicò la casa dove viveva la vecchia nonna. Gioia e tristezza segnarono le ore del giorno in cui nonna e nipote si incontrarono.

“Ora, disse la nonna, devi lottare contro la cattiva sorte che ti è toccata. Io conosco una brava donna che ha fama di guaritrice e di saggia consigliera. E’ comare Giulia che abita in una baita sulla montagna, che vedi dinanzi a te. Domani l’andrai a trovare e porterai il dolce che stasera preparerò per lei.

Vittoria guardò la montagna e le sembrò di vedere un puntino scuro tra una grande macchia verde. Immaginò che fosse la baita di comare Giulia e la sera, prima che le ombre della notte inghiottissero la montagna, dette un ultimo sguardo dalla finestra.

La mattina di buon’ora la ragazza partì con un cesto di vimini appeso al braccio con la torta per la comare Giulia e un po’ di cibo per lei, che consumò con appetito dopo un paio di ore di cammino.

Comare Giulia viveva lì da sola. Allevava galline e conigli, tre caprette che dalla primavera all’autunno pascolavano libere attorno alla baita, mentre d’inverno si riparavano dentro un capanno di legno e paglia, lì accanto. Possedeva un asinello, in groppa al quale un giorno sì e uno no scendeva al villaggio per comprare ciò che le serviva. I negozianti si meravigliavano e facevano mille congetture, anche maligne, perché spesso pagava la merce acquistata con una splendente moneta d’oro. Si era perciò sparsa la voce che la comare Giulia avesse un tesoro nascosto o che fosse il diavolo a fornirle quelle monete. Nessuno mai però scoprì niente, nonostante che qualcuno più audace si prese la briga di spiarla di notte. Niente, non accadeva nulla quando scendeva la notte, né tanto meno di giorno, per cui il mistero restava.

Comare Giulia accolse gentilmente Vittoria e quando apprese che era rimasta orfana, si commosse.

“Vedo che sei una bellissima ragazza, sono sicura che troverai un marito bello e giovane che ti farà felice”.

Vittoria voleva parlare, ma comare Giulia glielo impedì.

“Sì, so già quel che vuoi dirmi, che sei povera povera, che sei zoppa. Non preoccuparti, penserò io a tutto.”

Comare Giulia fece accomodare Vittoria nella stanza da letto e la fece distendere. Le guardò attentamente la gamba malata e poi disse:

“E’ meno grave di quel che temevo. Aspetta un momento!”

La vecchia aprì un cassetto del comò e fece ad alta voce un calcolo complicato: sette per tre, meno due, più centoventisei, diviso quattordici…sì, nove… ce l’ho!”

E fra le tante che stavano nel cassetto, prese la scatoletta azzurra, l’aprì e con le dita raccolse un po’ di quella pomata e la spalmò sulla gamba di Vittoria. Questa sentì immediatamente un gradevole calore ed ebbe subito voglia di muoverla e di camminare.

“Ecco, vedi? Va molto meglio. Domani e dopodomani ripeteremo il massaggio e vedrai che guarirai completamente e nessuno più si accorgerà di nulla”.        

Declinarono presto, forse troppo presto, le ore di quei tre giorni così interessanti e giulivi con la comare Giulia. Vittoria guarì completamente. Ora non era più la zoppetta . E comare Giulia si era divertita tanto a vederla correre su e giù per i pendii della montagna.

Al quarto giorno comare Giulia chiamò a sé la ragazza e le disse:

“Ora sei guarita, hai bisogno di comprarti qualche bel vestito, scarpe, borse. Potrai partecipare alle feste e sono certa che incontrerai presto il giovane dei tuoi sogni”.

Comare Giulia prese un sacchetto con cinque monete d’oro: “Queste ti serviranno per le prime spese”. Poi, tirando l’asinello per la cavezza disse:

“A me non serve più, sono vecchia e non ho bisogno di scendere al villaggio. Le poche cose che mi servono me le porta un pastorello che una volta a settimana passa per questi sentieri. Custodiscilo bene e non venderlo mai. Stai bene attenta a quel che ti dico. Mangia il fieno come tutti gli animali della sua specie, ma una volta al mese ha bisogno di mangiare con il fieno una ortensia blu che nella notte di plenilunio terrai sotto il cielo blu. Non dimenticarlo, vedrai che non sarai più povera.”

Vittoria ringraziò e abbracciò la comare Giulia e con l’asinello se ne ritornò al villaggio a casa della nonna. A lei narrò tutto quel che le era successo in quei giorni e dei doni che le aveva fatto la comare Giulia. L’asinello fu sistemato nella stalla di un vicino, che si prestò volentieri a ripararlo poiché da tempo gli era rimasta libera, dopo la vendita della mucca.

Tutte le mattine, Vittoria portava il fieno all’asinello, il quale mostrava che le si era affezionato roteando la coda e muovendo le lunghe orecchie lentamente su e giù come una farfalla che volava tra l’erba e i fiori.

Quel mese il plenilunio cadeva proprio il giorno dopo e Vittoria si ricordò della raccomandazione di comare Giulia: una ortensia blu doveva restare tutta la notte sotto il cielo blu. Si affrettò pertanto a procurarsi quel fiore e la sera lo posò sul davanzale della finestra. La luna, pallida e trasparente, splendeva nel cielo e illuminava il villaggio, la valle e i monti attorno. Vittoria contemplò quello spettacolo meraviglioso della natura e si commosse al pensiero della sua mamma.

La mattina si svegliò presto. Afferrò l’ortensia e andò a prendere il fascio di fieno per il suo asinello. Ebbe cura di mettere in mezzo al fieno il fiore e lasciò tutto, come al solito, nella mangiatoia. L’asinello ringraziò con la coda e con le orecchie e cominciò a mangiare. Vittoria si fermò qualche momento ad osservare l’asinello. Durante il giorno lo portò a spasso nella valle, ma non accadde nulla di diverso dagli altri giorni. La sera lo accarezzò per qualche minuto e poi andò a dormire.

Al mattino, appena sveglia, portò il fieno all’asinello e notò che in mezzo al letame c’era qualcosa che brillava. Si avvicinò e con sua grande meraviglia si accorse che c’era un bel mucchio di monete d’oro. Le raccolse, le ripulì, le contò e le nascose dentro le tasche del grembiule. Fece una lunga carezza al suo asinello e capì ciò che comare Giulia intendeva dire che quel grazioso e quieto animale sarebbe stato la causa della sua fortuna.

A casa non poté fare a meno di rivelare ciò che era successo. La nonna ne gioì e raccomandò il silenzio più assoluto alla nipote, perché la gente del villaggio cominciava a sospettare per via delle monete d’oro già spese.

Ma non sempre i segreti restano segreti. Don Alberto, il padrone della stalla, finì con l’insospettirsi e tutte le volte che Vittoria entrava nella stalla, correva a sbirciare attraverso una fessura sul muro esterno per vedere quel che accadeva dentro. Fu così che una mattina dopo la notte del plenilunio scoprì come Vittoria raccogliesse quel gruzzolo di monete d’oro dal letame sotto l’asinello. Vedere quello spettacolo e pensare di rubare quell’asinello dalla pancia piena d’oro fu tutt’uno.

Un giorno, infatti, scomparvero dal villaggio don Alberto e l’asinello. Dapprima si pensò a un capriccio di don Alberto che, volendo fare una passeggiata per la valle, si era voluto portare l’asinello. Ma i giorni passavano e i due fuggiaschi non si vedevano. Ormai era chiaro a tutti che don Alberto aveva rubato l’asinello e l’aveva portato chissà dove.

Immaginate in quale stato di sofferenza erano cadute Vittoria e la nonna. Occorreva denunciare il fatto al giudice. Questi venne e, ascoltata la proprietaria dell’asinello, ordinò di fare le indagini per trovare il colpevole.

Trascorsero alcune settimane, ma don Alberto non si trovava. Quel ladro aveva portato l’asinello in una grotta della montagna e là tutti i giorni era intento a esplorare il letame sotto l’asinello, ma senza successo. Finì con l’arrabbiarsi e col prendere a bastonate il povero animale.

“Maledetto asino, ti porto da mangiare tutti i giorni e tu niente, nemmeno una moneta d’oro. Ti tieni tutto dentro!” E giù colpi sulla schiena dell’asinello.

I gendarmi infine trovarono il ladro e l’asinello e li portarono dinanzi al giudice. Don Alberto faceva il furbo e diceva che lui era il proprietario della stalla e dell’asinello e che non era affatto un ladro. Aveva deciso di portare il suo asinello in montagna con l’arrivo della buona stagione. A quel punto il giudice, fatta chiamare Vittoria, volle fare una semplice prova. La gente nel frattempo si era radunata in piazza dinanzi all’ingresso della casa del giudice, dove era stato legato l’asinello in attesa del giudizio.

Il giudice uscì fuori, seguito da Vittoria e don Alberto, ordinò alla ragazza di avvicinarsi all’asinello. Con le lacrime agli occhi, Vittoria abbracciò il suo asinello che, appena la ragazza si avvicinò, cominciò a roteare la coda e a muovere le orecchie come sapeva fare, in segno di saluto. Poi il giudice disse a don Alberto di avvicinarsi all’asinello. Ma appena quello gli si accostò e tentò di toccarlo con la mano sulla schiena, l’asinello alzò tutte e due le zampe posteriori e gli sferrò un terribile calcio che lo fece ruzzolare per le scale. Non immaginate con quali risate della gente fu accolto quello spettacolo!

Il giudice era rimasto favorevolmente colpito dalla bellezza e dal comportamento generoso della ragazza, la quale non volle infierire contro il malcapitato ladro, impetrando il perdono per lui.

Alcuni giorni dopo, il giudice fece pervenire a Vittoria un invito alla festa da ballo in occasione del compleanno del figlio. Vittoria accettò con entusiasmo.

Al ballo partecipavano tutte le belle ragazze della regione, ma Giorgio, il figlio diciottenne del notaio, non ebbe occhi che per la bellissima Vittoria, che indossava uno stupendo abito rosso e con lei ballò tutta la sera.

Il giudice fu molto soddisfatto della scelta del figlio e nei giorni successivi fu annunciato il loro fidanzamento.

Vittoria e la nonna ebbero il tempo di cumulare un ricco patrimonio in monete d’oro, prima che l’asinello morisse. Lo seppellirono con grande commozione e amore, come se avessero perso una persona cara.

Dopo aver ringraziato lo gnomo e salutato il pastorello, il principe Enrico riprese il suo viaggio.

Alla corte del re della Cambrazia ormai tutti erano in attesa dello sposo della principessa Magda. La camera nuziale era pronta. Il re e la regina gioivano al pensiero che di lì a pochi mesi avrebbero potuto avere un nipotino.

Ma qualcuno tramava nell’ombra. Un giovane che a lungo aveva corteggiato senza successo la principessa Magda, il nobile Ulderico, non si era rassegnato. Nella sua esorbitante superbia non riusciva a dimenticare l’affronto del rifiuto e meditava la vendetta. Con il suo fedele scudiero, ben armato e sicuro di sé, in gran segreto andò incontro al principe Enrico. Era sicuro di sorprenderlo di notte, perché aveva saputo della malattia del principe, i cui occhi non sopportavano la luce del sole.

Il principe Enrico si era fermato presso una locanda. Tutto attorno c’erano siepi di fiori variopinti, la porta, le imposte, erano pulite e dipinte con colori vivaci, dalle finestre pendevano fiori e rampicanti. Si intuiva che era una casa curata da mani femminili. Era sceso appena da cavallo, quando una donna molto bella apparve sull’uscio e lo invitò a entrare.

“Avrai fame, mio bel giovane! Prego, la tavola è imbandita”.

Il principe Enrico entrò e si sedette. La donna batté le mani e subito, uno dietro l’altro, entrarono dieci camerieri in livrea, portando ciascuno un piatto di vivande prelibate, uno diverso dall’altro. Il primo cameriere passò accanto al principe, mostrò il piatto, fece un inchino e si avviò all’uscita senza lasciare nulla. Così il secondo cameriere, così il terzo, fino all’ultimo, il quale però a differenza degli altri si fermò e gli porse un bicchiere con una bevanda rossa. Il principe, affamato e stanco, vuotò il bicchiere in un istante. Stava per chiedergli la pietanza di arrosto che faceva bella mostra sul piatto, ma non fece in tempo perché all’improvviso cadde in un sonno profondo. Due robusti camerieri lo sollevarono e lo distesero su un letto.

Quando il principe si svegliò, si accorse che la bella locandiera stava seduta su una poltrona accanto al letto.

“Ma quanto tempo ho dormito?”, disse il principe Enrico.

“Esattamente trentatre giorni e dieci ore”, disse la locandiera sorridendo.

“Trentatre giorni? Trentatre giorni? No, non è possibile. Avrei dovuto raggiungere la mia sposa, la principessa Magda, già da tanto tempo!

“Ma no, dimentica la tua sposa infedele. Lei si è consolata subito; quando ha saputo che tu eri morto, ha sposato il giovane nobile Ulderico!”

“Ma come è stato possibile tutto questo?”

La locandiera si prese il merito di avergli salvato la vita, raccontando questa storia.

“Mentre tu dormivi, un cavaliere di nome Ulderico, seguito dal suo scudiero, entrò nella mia locanda con la spada sguainata. Era alla ricerca di un principe, suo nemico, che intendeva assolutamente uccidere. Era sicuro che si trovasse nella locanda, perché aveva notato il tuo cavallo legato al palo accanto alla stalla. Dovetti faticare alquanto per fermarlo; poi riuscii a convincerlo che non era un’azione cavalleresca quella di uccidere un uomo già morto. Lo feci entrare qui, mentre tu eri sprofondato nel sonno simile alla morte che solo io so infondere. Ti punzecchiò con la spada varie volte su tutte le parti del corpo, ti strappò il collare con l’immagine della tua sposa, tentò di sfilarti l’anello al dito ma non ci riuscì e finalmente si convinse che fossi morto. Se ne andò felice, fischiettando e dicendo che ora la principessa Magda sarebbe stata sua”.

D’istinto il principe toccò il suo anello, le sue mani andarono al collo, ma lo trovò nudo. Ora le sue lacrime scendevano copiose lungo le guance. La locandiera cercò di confortarlo:

“Non preoccuparti, potrai restare con me e vivremo felici. Il bosco ha tanti animali selvatici, potrai andare a caccia tutte le volte che vorrai. Oltre il bosco c’è un laghetto di acque azzurre, dove potrai nuotare e sotto la rupe grande una sorgente di acqua cristallina, accanto alla quale crescono due grandi platani per ripararti dalla canicola. Lungo il sentiero puoi godere di un giardino ricco di alberi e mangiare dolcissimi loti e ogni altro tipo di frutta.

Il principe già da qualche mese viveva felicemente con la bella locandiera. Una mattina, andando a caccia nel bosco, vide con sorpresa che un coniglietto bianco se ne stava seduto sulle zampe posteriori, gli si avvicinò.

“Amor omnia vincit, disse il coniglietto, hai dimenticato la tua sposa? Non è vero quel che ti ha detto la locandiera. La principessa Magda ti aspetta; un uomo malvagio la sta facendo soffrire. Più avanti troverai una casetta, bussa alla porta e una vecchietta ti aprirà. Fidati di lei e ascolta ciò che ti consiglia”.

Appena ebbe finito di parlare, il coniglietto scappò via e scomparve nella macchia. Il principe restò meravigliato e addolorato. Senza perdere tempo, cercò la casetta e, trovatala, bussò alla porta. E proprio come aveva detto il coniglietto, apparve una vecchietta che con modi gentili e garbati lo invitò a entrare e gli offrì da mangiare. La vecchietta rimproverò il principe perché aveva dimenticato la sua sposa. La locandiera gli aveva taciuto che la principessa Magda era stata rapita e ora si trovava prigioniera del malvagio Ulderico. Questi, dopo essere ritornato dal re, aveva raccontato che il principe Enrico non sarebbe più arrivato perché era morto durante il viaggio. Era inutile, dunque, che la principessa Magda si ostinasse ancora ad aspettarlo. Ora era libera e lui l’avrebbe sposata e condotta con sé.

Il re e la regina, sebbene a malincuore, portarono la notizia alla figlia e le consegnarono il collare, che Ulderico aveva strappato al principe, quale prova della sua morte.

Ma Magda si chiuse nel silenzio e non volle assolutamente accettare la proposta di nuovo matrimonio, per di più con un uomo che aveva sempre detestato per il suo carattere infido.

A seguito del rifiuto di Magda, Ulderico pensò di rapirla. Una notte, infatti, con la complicità di alcuni servitori e con il tacito consenso del re, Magda venne portata via dal palazzo reale. Ulderico la chiuse nella torre del suo castello, gridando che l’avrebbe tenuta prigioniera fino a quando non si fosse decisa a sposarlo.

Calde lacrime rigarono il viso del principe Enrico a sentire parlare della sua sposa relegata in una fredda e spoglia cella.

“Ora, disse la vecchia, devi riprendere il tuo viaggio, che io vedo ancora lungo e difficile, irto da tanti pericoli. Ma con il mio aiuto potrai farcela!”

Così dicendo la vecchia aprì il cassetto di un armadio e porse sette grosse chiavi, su ognuna delle quali era attaccato un cartellino: Prudenza, Giustizia, Fortezza, Temperanza, Fede, Speranza, Carità. La vecchia invitò il principe a sceglierne tre. Egli le guardò una ad una, rifletté un momento e poi prese tre chiavi: Prudenza, Giustizia e Carità.

La vecchia approvò la scelta del principe e, raccolto un fascio di sterpi, uscì fuori dalla casetta e vi diede fuoco.

“Ascoltami bene, disse, quando si alzerà il fumo, con le tue braccia apri una breccia e procedi nel tuo viaggio lungo la strada che ti si aprirà innanzi. Ma bada, non voltarti indietro per nessuna ragione, non dare ascolto ai richiami dolci o imperiosi che udrai da ogni parte. Vai sempre avanti senza fermarti, fa’ che i tuoi passi siano decisi. In fondo alla strada troverai un bivio, tu scegli la strada di destra e dopo un po’ arriverai a un muro solido e alto, sul quale si trova la grande porta della Prudenza. Aprila e segui con scrupolo ciò che ti viene ordinato. Che il cielo ti aiuti!”

Dal fuoco degli sterpi si sprigionò un gran fumo bianco, che si alzò dinanzi come un muro. La vecchia disse: “Ora fatti avanti”.

Il principe aprì una breccia nel fumo e ben presto si trovò davanti alla porta della Prudenza. Con tremore l’aprì e, appena varcata la soglia, un uomo con una tunica bianca gli si avvicinò e lo salutò:

“Principe, non disdegnare la mia compagnia; io sono un’ombra di innumerevoli ombre di uomini virtuosi che hanno dimorato sulla terra. Mi è stato dato l’alto compito di accompagnarti nel viaggio che intraprendi nella città che puoi vedere giù nella valle”.

Il principe guardò e vide ciò che prima non aveva notato, forse per la grande luminosità: una città si estendeva in una immensa conca circondata da montagne.

“Principe, permettimi di chiamarti Enrico e mentre scendiamo lungo questi sentieri per raggiungere la città, voglio rallegrarmi con te per avere scelto la chiave della porta della Prudenza. Già questo mi dice che il tuo animo è disposto al bene; il seme posato sul tuo cuore sin dalla nascita ha generato un germoglio prezioso che ti dà la capacità di compiere con saggezza ogni tua azione. Nella città che stai per visitare insieme a me, vedrai gente che ha in sommo grado questa virtù della prudenza e molte altre persone che purtroppo ne sono sprovviste. Tu stesso potrai giudicare del valore della virtù. Ricordati che nessuno potrà vederci, né udire le nostre parole”.

Si incamminarono per le vie della città e ad ogni incrocio, in ogni angolo, in ogni piazza, nelle viuzze, da ogni casa, si udivano voci allegre, irose, grida. C’erano persone che discutevano pacatamente, altre che altercavano, si disputavano qualcosa, si azzuffavano. La guida lo invitò a riflettere:

“Vedi, la gran parte delle azioni di questa gente non può definirsi prudente, non è dotata di un’anima razionale. Agire con prudenza, significa agire con calma, dopo aver analizzata la situazione reale del mondo circostante, non per istinto. Significa valutare le conseguenze delle nostre azioni. La persona che possiede ed esercita la virtù della prudenza è come un cocchiere, un auriga saggio che sa guidare, sapendo discernere la via del bene ed evitare quella del male”.

Il principe si accorse che in quel momento, sotto i loro occhi, un tale accecato dall’ira, aveva colpito a morte un uomo con cui discuteva. Ora si disperava, mentre veniva portato via dai gendarmi e gridava che non voleva uccidere… non voleva uccidere!

Uscirono dalla città e dopo un breve tratto di strada, ecco un alto muro e una gran porta; era la porta della Giustizia.

Il principe aprì con la seconda chiave ed entrarono.

Dinanzi a loro apparve lo spettacolo di una città ben ordinata. Si vedeva bene che i cittadini si attenevano alle regole e alle leggi che amministratori  responsabili avevano dettato. La guida fece osservare al principe come la virtù della giustizia sia quella che garantisce l’ordine dei rapporti umani. Essa traspare dalla costante volontà di riconoscere a ciascuno ciò che gli è dovuto, dal modo di comportarsi, improntato alla correttezza e alla non lesività del prossimo.

“Purtroppo, aggiunse la guida, non sempre questo stato ideale si realizza. Ciò accade spesso per due motivi: il primo è legato alla volontà manifesta di chi deliberatamente infrange la legge; il secondo è dovuto agli errori compiuti da chi esercita la giustizia. Non ti dirò nulla sul primo motivo, giacché è oggetto di esperienza nella vita quotidiana; per il secondo, ti mostro una situazione in cui puoi verificare facilmente come la giustizia umana sia infinitamente diversa e distante da quella divina, perché soggetta a errori gravi. Così dicendo la guida introdusse il principe Enrico in un’aula di tribunale. Proprio in quel momento, il giudice riassumendo i fatti riguardanti l’imputato, concludeva con una sentenza di condanna a morte.

“Ecco, disse la guida, quando finalmente raggiungerai la tua sposa, ricordati di questo processo. L’imputato è stato condannato a morte perché accusato di aver ucciso un uomo, ma non è vero. Quell’uomo ha commesso altre colpe, ma non è un assassino e non merita la condanna a morte. I giudici sono in errore.”

“Sì, disse il principe, tutto ciò mi fa pensare alla mia situazione, a quel tale Ulderico che voleva uccidermi, ma in realtà non è riuscito a farlo”.

La guida e il principe proseguirono il loro cammino e giunsero alla porta della Carità. Aperta con la terza chiave e oltrepassato l’uscio, si trovarono dinanzi a uno spettacolo orrendo: un tale veniva ucciso su un patibolo improvvisato.

“Perché lo uccidono? Domanda il principe. E’ un ladro, un assassino, un ribelle?”

“Nulla di tutto questo, rispose la guida, è un uomo che ha portato al grado più nobile la virtù della carità, che è l’amore nei confronti degli altri, la più alta perfezione dello spirito umano. Come in quest’uomo che tu vedi, la carità nelle sue forme estreme può raggiungere il sacrificio di sé. Costui, per amore di un fratello giovane che ingiustamente era stato accusato di una grave colpa, ha voluto sostituirsi a lui, addossandosi la colpa non commessa.

Il principe, rattristato fino alle lacrime, pregò la guida di riprendere il cammino e di allontanarsi da quel luogo.

Giunsero in una radura e, poiché il principe era stanco e ancora visibilmente scosso per le esperienze che aveva vissuto, la guida lo invitò a riposarsi. Il principe si addormentò. Al suo risveglio si guardò attorno e si accorse che la sua guida non c’era più, ma udì la sua voce:

“Ora il tuo viaggio è quasi alla fine. Prendi il sentiero alla tua sinistra, entra nell’ampia grotta, in fondo alla quale si aprirà l’immensa distesa del deserto ardente. In cima alla duna del cammello di Alì, troverai un uovo abbandonato che da mille anni la sabbia cova senza successo. Tu prendilo e portalo all’eremita che vive là dove finisce il deserto e inizia il pietrisco”.

Attraversata la grotta, il principe si ritrovò nel deserto, che lo accolse nelle sue onde di sabbia, come un mare. Si diresse verso la duna più vicina, mentre già la sete cominciava a tormentarlo. “Come farò a riconoscere la duna del cammello? Diceva tra sé il principe, qui tutto mi sembra uguale”.

Avanzò ancora e cercò in cima ad altre dune, inutilmente. Stava per abbandonarsi allo sconforto, quando guardando verso il basso dall’alto di una duna, si accorse di una roccia che aderiva alla sabbia in forma di gobba. La speranza si riaccese e, raccolte le sue ultime energie, si trascinò verso quella direzione. Non gli fu difficile arrampicarsi lungo un leggero pendio e giunto in cima, entro un incavo tra due fenditure, vide un grosso uovo bianchissimo. Con estrema cautela lo prese e si incamminò verso le rupi delle colline che vedeva in lontananza.

Un vecchio eremita, magro e vestito di pelli di animali, gli venne incontro.

“Ti aspettavo, gli disse, concedimi di aiutarti. L’uovo che tieni in mano, per la cui ricerca hai tanto faticato, ti guarirà per sempre dal terribile incantesimo. Ora riposati sul mio umile giaciglio e domani sarai libero di raggiungere la tua meta.”

Il principe ringraziò e si gettò sul giaciglio. Dormì tutta la notte e quando al mattino si svegliò, il vecchio eremita gli disse:

“Ecco, l’uovo conteneva tre piccole uova da cui sono nati una colomba, una capinera e una gazza. Dammi l’anello che porti al dito, la gazza lo riporterà alla tua piccola amica, perché ormai non ti serve più, l’incantesimo si è sciolto. Gli altri due uccelli li porterai con te: la colomba per annunciare al re il tuo arrivo, la capinera per confortare e rallegrare con il suo canto la tua sposa che è ancora rinchiusa nella torre.”

Il principe provò una immensa gioia, baciò le mani dell’eremita e partì. Fece come gli aveva suggerito il vecchio. Scrisse un breve messaggio per il re annunciando il suo arrivo e lo legò alla zampetta della colomba, poi carezzò la capinera e le lanciò nell’aria.

Ricevuto il messaggio, il re restò felicemente sorpreso nell’apprendere che il principe era vivo e che stava per arrivare; nello stesso tempo ebbe la certezza dell’inganno del malefico Ulderico. Mandò una squadra di cavalieri perché portassero in catene Ulderico e liberassero la principessa Magda. Questa aveva già sognato la libertà e aveva interpretato il canto della capinera come un presagio favorevole.

Tutto si svolse nel migliore dei modi. Ulderico, trascinato ai piedi del re, implorava pietà. La regina gli strappò il collare con l’immagine di Magda e lo consegnò alla figlia. Fu poi introdotto il principe Enrico che finalmente poté abbracciare la sua sposa, la quale gli riconsegnò il collare.

Ormai la storia era sulla bocca di tutta la gente che, appreso il misfatto di Ulderico in tutti i particolari, chiedeva al re la punizione della pena di morte.

Il principe come in un lampo ebbe la visione della scena del tribunale quando era in compagnia della sua guida attraverso la porta della Carità e si ricordò delle lacrime versate per la sentenza di morte contro quel malcapitato, che era tal quale Ulderico, steso ai piedi del re. Fu pronto, perciò, a impetrare il perdono per lui. Il re, commosso, mutò la sentenza e lo condannò a restare in prigione per qualche tempo a meditare sul male commesso.

L’infermiera era entrata da qualche minuto nella stanza, quando si accorse che il signor Roberto muoveva le dita di una mano e apriva gli occhi. Prontamente l’infermiera lo chiamò per nome: “Finalmente, ora è sveglio, come si sente?”

Il signor Roberto si svegliava in un letto d’ospedale da un coma durato quindici giorni, dopo il pauroso incidente d’auto. Prima i medici, poi la moglie, gli dettero la certezza che era tornato in vita.

Quando qualche ora dopo restò solo, sentì una voce sommessa che gli diceva:

“Ehi, amico, ora sei fuori dalla fiaba, non sei un principe. Sei fuori come tutti noi. E d’un tratto si accorse che quella voce veniva dal piccolissimo gnomo che gli parlava, seduto sul comodino accanto al letto. Subito dopo vide sfilare dinanzi a sé: il lebbroso, il taumaturgo del bosco, Giovannino, il vecchio della grotta, Pierina, il pastorello Giuseppe, Vittoria la zoppetta, comare Giulia, Ulderico, la locandiera, la vecchia delle chiavi, il vecchio eremita, Magda. C’erano tutti, persino il coniglietto bianco e i sette ragazzi imprigionati nei quadri.

“Siamo fuori dalla fiaba, come te, come i medici che ti hanno salvato la vita, come tua moglie e tuo figlio, siamo vivi.”

“Papà finalmente sei a casa!”. Lo accolse con gioia il figlio di sette anni, che non finiva più di abbracciarlo. “Ti prego papà, raccontami della tua lunga assenza”.

Il signor Roberto faceva ancora fatica a far arretrare quel mondo di fantasia che gli gorgogliava dentro, ma che pure doveva riprendere il suo posto un passo sotto il mondo reale. E con piacere e dolcezza fece sedere il suo bambino accanto a sé e cominciò:

“Il regno della Tirlandia quel giorno era in festa…”

  1. Si veda l’articolo del 10/3/2022 in questa rivista Il mondo della fiaba di Vincenzo Fiaschitello

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