IL PENSIERO MEDITERRANEO

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Ontologia della pietra leccese. L’abitare nel barocco di Pietro De Florio

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Dal saggio di Heidegger del 1952, dal titolo Costruire Abitare Pensare 1, si potrebbe ragionare su una rielaborazione ontologica del barocco e della pietra leccese. Stando all’etimologia tedesca, il filosofo afferma che costruire o erigere edifici significa abitare ed anche rimanere, custodire o trattenersi presso.

     Oltre la possibile casa propria nella ideale foresta heideggeriana, qui si guarda ai posti, o meglio luoghi, dove si alberga, senza necessariamente risiedervi, come, per esempio un credente si sente a casa propria in una chiesa, un docente nella propria classe ecc. L’essere dell’uomo consiste nell’abitare, il soggiorno degli umani o dei mortali avviene sotto il cielo, sulla terra e davanti ai divini, in una sorta di quadratura2.

     Curvando la speculazione sul tema del barocco leccese, si potrebbe dire ciò che sta sotto il cielo, sono (come già detto) chiese e palazzi, edificati con una pietra tenera dal color paglierino (talvolta bianca per i restauri), a malapena indurita dal tempo, in contrasto perentorio con l’intenso azzurro cielo mediterraneo o, nei pomeriggi d’estate tranquilli e assolati, si lascia accarezzare dal gioco pittorico dei bruni chiari, cangianti in patina dorata e avvolgente. Nella luce, calore e colore, fino alle intensità dei bianchi della calce dei non lontani verdi argentati degli ulivi (ormai un ricordo), vive questa pietra giallo chiara tingendosi come metallo brunito d’inverno, quando è bagnata dalla pioggia e sferzata dai venti. Meglio se raccontata nei versi del Bodini: “Tu non conosci il Sud, le case di calce / da cui uscivano al sole come numeri / dalla facciata d’un dado” e, ancora, “viviamo in un incantesimo / tra palazzi di tufo / in una grande pianura /. Sulle rive del nulla / mostriamo le caverne di noi stessi […]”3 .

     Ma chi potrebbero essere i divini, seguendo il pensiero di Heidegger? Certamente per quel che riguarda l’argomento, i santi (cfr.vol. II,  par. 2.5), onnipresenti su qualunque elemento architettonico o piega barocca, pronti ad allontanare i pericoli e a eliminare o mitigare le sofferenze. Protagonisti di una religiosità quotidiana e confidenziale, essi scendono dagli altari per diventare persone, vicini alla gente (nobili compresi), glorificando il fervore devozionale nelle apoteosi visive durante le ricorrenti festività. Non si bada a spese, si sperperano e rendite ricchezze (di una economia asfittica), per vivere una fede, per certi versi, istintiva campagnola e vitalistica, tuttavia dalla verità immutabile, alla quale plebei e patrizi si affidano.

     Il terzo elemento della quadratura è la terra, ma qui la si cambia con l’equivalente della pietra, quella leccese, formata dal mare (altra terra liquida) venti milioni d’anni fa. Artisti e scalpellini scelgono con attenzione il blocco, lo lavorano con metodi tramandati per generazioni, adoperano seghe, pialle, scalpelli, sgorbie, lime, raspe, martelli ecc. Una perizia eclettica “di artefici, che furono insuperati nel ricercare dalla pietra locale, più che morbida, addirittura compiacente, filigrane d’eresie ed incantamenti plastici preparati per incrostare con pittoreschi risultati monumenti che passerebbero inosservati, se non fossero rivestiti di quell’essenziale involucro plastico”4. È il marmo dei poveri dalle sfumature cromatiche variabili, a seconda della luce, varia dal giallo al rosa chiaro al bianco, mentre non smette di mantenere un certo garbo formale, sebbene sommersa dal rigoglio ornamentale scolpito di fiori, cornucopie, melograni, putti festanti e quantaltro. Questa pietra nasce da una terra povera, una terra che poco può dare, non viene interamente sfiancata dalla metafisica industriale, essa, invece in quanto umile, si schiude (come per esempio lo sbocciare di una rosa, senza una causalità metodica) nella propria calda geologia. Nell’ “aprentesi dispiegarsi e in tale dispiegamento l’entrare nell’apparire e il rimanere e il mantenersi in esso; in breve: lo schiudersi – permanente imporsi”5. Qui sta il senso dell’essere leggero di questa terra – pietra, oltre l’essere – ente inteso deterministicamente agente di dominio e sfruttamento delle cose, allora c’è da dire che il leccese mantiene, per così dire, una sua ontologia aurorale pre- socratica.

     A conclusione della quadratura o geviert, come la chiama in tedesco Heidegger6, ecco i mortali, cioè gli umani, perché la morte è l’ultima ineluttabile possibilità certa, correlata alla “decisione anticipatrice”, questa richiama l’uomo alle sue autentiche possibilità di poter essere oltre i convenzionalismi del quotidiano7, affinchè si possa superare la lacerante penuria del vivere dovuta gli storici naufragi del Mezzogiorno. Alienazioni, tuttavia mitigate, dall’esserci nel gruppo allargato della corte famigliare di contadini, braccianti, rumatari, ortolani, trainieri ecc. sono i mortali di questa terra, eludono la caduta nel nulla, contemplando azioni ideali metastorico – protettive.

     Un Salento attrattivo, ma di oggettiva sofferenza che misteriosamente sublima nella fantasia storiche disfatte, tant’è che gli stili architettonici più gettonati sono il barocco e il liberty, cioè quelle espressioni inclini all’inventiva e all’immaginazione, più che al controllo dei volumi. Altri versi del Bodini disvelano un Salento storicamente emarginato e incompiuto, ma intuito arcanamente come sostanza di un eterno ritorno nell’anima: “Qui non vorrei morire dove vivere / mi tocca, / mio paese, / così sgradito da doverti amare; / lento piano dove la luce pare / di carne cruda / e il nespolo va e viene fra noi e l’inverno”8.

     C’è, dunque bisogno (almeno come risarcimento estetico), di un luogo per, riconoscersi e abitarci9, allegoricamente è ciò che un ponte può offrire, questo si inarca leggero sopra il fiume, collega le sponde, oppure supera burroni, ecc. fa passare i mortali dall’altra parte, l’essere del ponte crea luoghi di relazione per l’uomo9, nell’apertura originaria della quadratura. Impiegando la figura del ponte il filosofo si rifà probabilmente a uno scritto di Georg Simmel dove il ponte è qualcosa che unisce e permette il libero fluire, la porta, invece, appare un qualcosa di chiuso e unidirezionale10, se aperta crea un dialogo con lo spazio esterno facendo parlare il muro.

     Il Manieri Elia, argomentando sul testo del Simmel, sostiene che le facciate barocche romane o napoletane siano “facciate ponte”, in quanto sviluppano un movimento di masse in cui “la facciata diviene elastica”, si incurva o flette in avanti o indietro, prolungandosi con “inviti architettonici”, mettendo in relazione spazi interni ed esterni, mentre nelle architetture barocche salentine la facciata rimane  una semplice “facciata – porta”11. Vale a dire frontalità senza sviluppo plastico, ma solo decorazione, animistica e magmatica. Tuttavia (come già argomentato), per il barocco leccese sussiste una certa continuità esterno – interno (chiesa – strada – altari – facciate – palazzi – corti), anche in considerazione della congruenza luministica che non prevede abbagli e polarizzazioni estatiche, oppure rivelazioni ascetiche istantanee o addensamenti di ombre, come nel barocco visionario metropolitano, piuttosto solarità esterna che continua propagandosi uniforme, con un abbassamento di intensità, negli interni (perlopiù chiese), attraverso le tonalità chiare dal bianco perlato all’ambrato, in altre parole permane il vecchio binomio a tettonico luce – colore.

     La facciata della chiesa diventa un ponte cromatico, quando simbolicamente riesce, come un diaframma, a mediare dall’esterno il valore della luce che diffusa e replicata all’interno (e soffusa tra le pieghe), morbidamente si espande, evitando ingorghi chiaroscurali. Ciò si verifica grazie agli altari – facciata e alle loro nitide decorazioni atte a rifrangere la luce proveniente dai finestroni in alto, permettendo, al contempo, la piena leggibilità calligrafica ornamentale.

     L’essenza del barocco diviene un insieme di luoghi per far soggiornare il mortale (plebeo o aristocratico), perché, sostiene Heidegger, vale il luogo, è il luogo che abbraccia lo spazio (entità fisica), nel luogo (come il ponte o l’abitazione) si soggiorna e dimora12. Il ponte ideale  inizia dal luogo comune sociale, privato e spontaneo della casa a corte da cui si esce, non si è mai racchiusi in questo guscio e si è già oltre nell’abbraccio dell’estensione urbana di piazze, mercati, chiese, palazzo, immersi nelle feste civili, matrimoni, ingressi di vescovi, parate e visite di personaggi illustri, sfarzo dei nobili, eventi e religiosi ecc. tutto si mescola, sacro e profano nel luogo barocco di cui si comprende il linguaggio celebrativo parlante essenzialmente agli occhi. Nobili e santi sono i protagonisti, costoro agli occhi del popolo, ribadiscono il medesimo scarto gerarchico mondano anche in paradiso, perché i santi in cielo corrispondono all’aristocrazia sulla terra13.

     Il luogo della città barocca di Terra d’Otranto comprende gli spazi, eludendo e mascherando l’aspetto classista: le processioni, riti sacri ed eventi civili coinvolgono tutti i ceti sociali (in un periodo di controriforma e di compromessi paganeggianti e animistici), la vita collettiva deborda nella pratica religiosa assistenziale caritativa. Infatti nel collegio dei Gesuiti a Lecce vi erano “molte Congregationi per l’aiuto spirituale di molti, d’ogni età, e conditione; la prima de’gentil’huomini; la seconda de’ Studenti; la terza degli Scolari; la quarta de’Figlioli; oltre gli Oratoij d’artefici, dove tutti si radunano il Sabato à sera, e feste dell’anno à trattar cose dell’anima, et à frequentar i Santissimi Sagramenti14. Fra meditazioni, prediche, funzioni di sussidio, l’aspetto predominante rimaneva il senso del luogo collettivo dove abitare e soggiornare, pur con tutte le contraddizioni esistenziali.

       Si è costruito nel luogo in cui si vive o si abita, le forme assumono significati condivisi da tutti, luoghi di convergenza – ponte di tutte le classi sociali, omologate dalla funzione ideologica, in grado di rimuovere o meglio sublimare le incoerenze sociali, nella dissimulazione barocca di cui il Pappacoda sarà il principale sostenitore.

                                                                                                       De Florio Pietro


1 Martin Heidegger, Costruire Abitare Pensare (1951), in Saggi e Discorsi, a cura di Gianni Vattimo, Mursia, Milano, 1976, pp. 96 – 108

2 Ivi, pp. 96 – 99

3 Vittorio Bodini, da Foglie di Tabacco, 1945 – 47

4 Michele Paone, Radiografia del Barocco Salentino, “Sallentum”, n. 1,2,3 gen. dic., 1984, p. 103

5 Martin Heidegger, Introduzione alla Metafisica (1935 – 1963), presentaz. di Gianni Vattimo, traduz. Giuseppe Masi, Mursia, Milano, 1968, pp. 25 – 26)

6 Martin Heidegger, Costruire Abitare Pensare, op. cit. p.99

7 Martin Heidegger, Essere e Tempo (1927), traduz. di Piero Chiodi, Longanesi, 1970, par. 54

8 Vittorio Bodini, dalla Luna dei Borboni (1952), in Novecento Letterario Leccese, a cura di Donato Valli e Anna Grazia D’Oria, Manni Lecce e Gazzetta del Mezzogiorno, 2002, p. 51

9 Martin Heidegger, Costruire Abitare Pensare, op. cit. pp. 100 – 101.

9 Ivi, pp. 102 – 103

10 Georg Simmel, Ponte e Porta (1909), Saggi di Estetica, a cura di Andrea Borsari e Cristina Bronzino, Archeo Libri, Bologna, 2011

11 M. Manieri Elia, Barocco Leccese, Electa, 1989, p. 172

12 Martin Heidegger, Costruire Abitare Pensare, op. cit. p.105

13 Antonio Novembre, Ad un Passo dall’Effimero: Note e Osservazioni sull’Arredo Urbano nel Salento, in     Barocco Leccese, a cura di Cosimo Damiano Fonseca, Electa, Milano, 1979, p. 188

14 Giulio Cesare Infantino, Infantino, Lecce Sacra (1634), a cura di Mario De Marco, Nuovi Orientamenti Oggi,  Gallipoli, 1988, p. 332

Le immagini di Pompeo Maritati

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