IL PENSIERO MEDITERRANEO

Incontri di Culture sulle sponde del mediterraneo – Rivista Culturale online

Nofriu, Virticchiu e le “vastasate”

DAFNI-1974

di Mario Pintacuda

Nofriu e Virticchiu erano due personaggi delle cosiddette “vastasate”, rappresentazioni comiche che si tennero in Sicilia a partire dalla seconda metà del Settecento; esse prendevano il nome dai loro protagonisti, che erano personaggi del popolo, definibili appunto “vastasi”, cioè “facchini” (termine derivato dal verbo greco “bastàzō”, βαστάζω “sollevare, trasportare”).

Questa forma di teatro popolare era nata a Palermo, ove in piazza Marina una compagnia di popolani rappresentava delle farse in un magazzino (o “casotto”) all’interno del palazzo Partanna. In questi spettacoli non c’era un copione, perché gli attori dilettanti (in genere popolani brillanti, ingegnosi e loquaci) improvvisavano e recitavano a soggetto, trattandosi in genere di intrecci banali e ripetitivi.

A questi spettacoli si affiancava talora la tradizionale “opera dei pupi”, con le marionette a filo; non era impossibile, dunque, che avvenisse una curiosa contaminazione fra i due generi, per cui Nofriu e Virticchiu, divenuti marionette, potevano intromettersi nelle vicende dei paladini, diventandone servitori e scudieri. In ogni caso, i due personaggi portavano in scena il punto di vista del popolo, del quale parlavano il dialetto stretto; e, per far contento il pubblico, le vicende spesso invertivano le gerarchie sociali, per cui (come negli antichi Saturnali romani) i poveri finivano spesso per prevalere sui ricchi.

Nella parte di Nofriu diventò famoso don Giuseppe Marotta, che era il portiere della Corte del Giudice della Monarchia; era un analfabeta arguto e spiritoso, ricordato anche da Gesualdo Bufalino in “Due notti di Ferdinando I”. Così ne parla Giuseppe Pitrè nel suo “La vita in Palermo cento e più anni fa” (1904): “con impareggiabile verve sosteneva le parti di Nòfriu, facchino sciocco e beone: tipo stupendo che, nella sua assoluta ignoranza, il Marotta, anche sarto a tempo perso, non cessava di perfezionare ogni giorno oziando presso la Posta dei facchini (Posta di li vastasi), all’angolo della via dei Chiavettieri, dove il nome di lui era in mal repressa avversione come quello che li metteva in continua berlina”.

Altri attori erano Giovanni Richichi (argentiere), Mario Frontieri (sarto), Giovanni Pizzarrone, mastro Giuseppe D’Angelo, Giuseppe Sarcì (portiere del Lotto, specializzato in parti femminili), Gaetano Catarinicchia (cortigiano), Ignazio Richichi (orefice), Francesco Corpora (portiere al Conservatorio del Buon Pastore), ecc.; erano quasi tutti analfabeti.

Le parti femminili erano interpretate da uomini travestiti da donna, mentre le scene più ricorrenti erano le bastonature, le baruffe, le burle (ai danni soprattutto di Nofrio), le sapide battute dialettali, i sentimenti plebei e le situazioni “indecenti” (almeno per la mentalità di allora).

Intorno al 1785 la compagnia ebbe un nuovo capo, don Biagio Perez, molto creativo: “anima intellettiva della Compagnia, ideava e scriveva le sue farse o commedie, le faceva imparare a memoria dagli indotti artisti e ne dirigeva la esecuzione. Fecondissimo compositore costui, che, aggirandosi di continuo per i cortili, i vicoli ed i luoghi dove l’elemento più modesto delle città, uomini e donne, viveva, chiacchierava, litigava, ad esso attingeva gli argomenti, gl’intrecci, le forme del suo teatro” (G. Pitrè).

I temi abituali potevano essere eccezionalmente sostituiti in caso di avvenimenti insoliti e clamorosi: “il 30 luglio del 1789 la famigerata Anna Bonanno veniva strangolata nelle più alte forche alle Quattro Cantoniere, ed il 5 settembre seguente, in un casotto della Garita, si assisteva ad una rappresentazione sulla Vecchia dell’aceto, soprannome col quale dovea sinistramente passare alla posterità la infame propinatrice di aceto velenoso. Lo stesso era avvenuto della cattura e morte del famosissimo brigante Testalonga” (G. Pitrè).

Il successo di questi spettacoli era grande: d’inverno si tenevano nel già citato “casotto”, mentre in estate erano all’aperto. Gli spettatori erano numerosi, poiché la spesa era irrisoria; si potevano fare anche due spettacoli al giorno (uno al tramonto e uno la sera). Quanto ai costumi, o erano i normali abiti giornalieri degli attori o venivano presi in prestito da amici e parenti e adattati ingegnosamente alla necessità di far ridere. Non si recitava il venerdì e nei mesi autunnali; in particolare durante la festa di Santa Rosalia era proibita ogni rappresentazione di argomento non sacro, per cui le “vastasate” entravano in forzato stand-by… (non come oggi, quando per il “fistinu” ogni “vastasata” è lecita…).

Ovviamente erano forti le perplessità dei ceti più elevati: Pietro Lanza Principe di Trabia, Capitan Giustiziere nel 1793, definì le “vastasate” «spettacoli di non troppo odorato buono, perché, per lo più, piene di sentimenti vili e spesso indecenti, e che sicuramente non corrispondono al fine per cui si permette la buona commedia, che sarebbe quello di onorare la virtù e porre in disprezzo il vizio»; il marchese di Villabianca, Francesco Maria Emanuele Gaetani, nel suo “Diario Inedito” (1785-1800) definì questi spettacoli “ignobili” ammettendo però che erano molto frequentati; non meno critico fu Giovanni Meli.

La fortuna delle “vastasate” tuttavia proseguì e aumentò nell’Ottocento, allorché lo stesso re Ferdinando II di Borbone, trovandosi una volta a Palermo, assistette a uno di questi spettacoli divertendosi moltissimo.

Pitrè elencava una trentina di titoli di “vastasate”, delle quali non ci sono pervenuti i testi (del resto, come si è detto, quasi sempre inesistenti); unica eccezione è  “Lu curtigghiu di li Raunìsi” (“Il cortile degli Aragonesi”), in tre atti, di autore ignoto, la cui versione più famosa fu quella di Ignazio Buttitta, interpretata da Franco Franchi e Ciccio Ingrassia e trasmessa dalla RAI. nel 1977; del resto Franchi aveva iniziato la sua carriera nei pressi di piazza S. Anna, intrattenendo il pubblico dei passanti con divertenti spettacolini improvvisati.

Alle “vastasate” nel 1926 dedicò un libro Giuseppe Cocchiara (“Le vastasate – Contributo alla storia del teatro popolare”), antropologo ed etnologo originario di Mistretta.

Ho trovato, nel mio archivio, una copia della rivista “Dafni”, datata gennaio 1974; si trattava di un “bimestrale letterario artistico folcloristico siciliano” (come si legge nella testata) ed era diretto da Carlo Maria Magno, un maestro di musica che aveva composto operette, commedie e poesiole in epoca fascista (mostrandosi anche fervente sostenitore del regime…). La redazione della rivista aveva sede in via Vincenzo Di Marco 4 a Palermo; una copia costava 100 lire.

A pag. 4 (che poi è l’ultima della rivista) compare il testo di una breve farsa raccolta e curata dallo stesso Magno, intitolata “Un sordu ‘i pani, un sordu ‘i vinu e un sordu ‘i turdu”; viene definita “opera dei pupi” e ha per protagonisti i famosi Nofriu Lapardazza (inteso “Tartagghia” per la sua balbuzie) e Virticchiu Tataranchiu (in veste di astuto imbroglione).

La farsa è in tre quadri.

Nel primo quadro Virticchio, uno “sfaccendato” affamatissimo, è in piazza e decide di andare a mangiare alla taverna di Nofrio, ripromettendosi di truffarlo.

Nel secondo quadro Virticchiu entra nella taverna e ordina a Nofrio “un soldo di pane, uno di vino e uno di tordo”, sbafando tutto in pochi istanti e chiedendo due volte il bis. Quando però l’oste fa il conto (non senza divertenti acrobazie matematiche) il totale di 9 soldi viene rifiutato da Virticchio, che intende pagarne solo tre. Fatto sta che la cantilena con  cui il balbettante Nofrio riassume il cibo consumato (“Un sordu ‘i pani, un sordu ‘i vinu e un sordu ‘i turdu; un sordu ‘i pani, un sordu ‘i vinu e un sordu ‘i turdu; un sordu ‘i pani, un sordu ‘i vinu e un sordu ‘i turdu”) viene considerata dal furbacchione come un’inutile triplice ripetizione dello stesso concetto, per cui accetta di pagare solo una delle tre consumazioni. Non riuscendo a mettersi d’accordo, i due decidono di rimettere la questione al delegato di Pubblica Sicurezza; nell’uscire, però, dato che piove a dirotto, Virticchio si fa prestare un mantello dall’oste.

Il terzo quadro si svolge appunto nell’ufficio di Pubblica Sicurezza, ove siede un buffo delegato soprannominato “Scricchianespuli”, che non è siciliano (anzi immediatamente auspica di potersi trasferire altrove “per nun guardari cchiù questi ciciliani”). Quando i due contendenti gli si presentano davanti, vengono invitati dal poliziotto a esporre le proprie ragioni: Nofrio allora rinnova la sua cantilena, dando anche al delegato l’impressione di ripetere per tre volte la stessa cosa; viene dunque data ragione a Virticchio, che paga soltanto tre soldi. Non contento, Virticchio riesce a truffare ulteriormente il malcapitato Nofrio, appropriandosi anche del suo mantello e facendolo arrestare dalla guardia Tòfalu; alla fine Nofrio non può che dichiararsi “cornuto e bastonato”.

Un’ultima annotazione: il “turdu” è quell’uccellino “di grandezza media tra l’allodola e il piccione” (Traina) che costituisce in effetti un piatto fin troppo raffinato anche se economico; ma non ci si meraviglierà di trovarlo come menu nell’osteria di un “turduni” (cioè “balordo”) come Nofrio…

Trascrivo il testo della farsa rielaborata da Carlo Maria Magno (che egli immaginò, come si è detto, come “opera dei pupi”); essa ovviamente non ha particolari doti di originalità e di profondità, ma rientra perfettamente nel genere descritto e, soprattutto, va immaginata “sulla scena”, sua sede naturale.

In particolare, dovevano risultare molto divertenti le voci degli attori: la parlata tartagliante di Nofrio, la “voce a trombetta” del furbo Virticchio, la “voce sopracuta” di Lisa moglie di Nofrio, la “voce pecorina” del delegato Scricchianespuli e la “voce di cane incatarrato” della guardia Tòfalu, una specie di Catarella camilleriano (che alla fine dichiara “arrustutu” il povero Nofrio).

Opra r’ ‘i pupi

UN SORDU ‘I PANI, UN SORDU ‘I VINU E UN SORDU ‘I TURDU

Farsa in tre quadri, in vernacolo palermitano, raccolta e curata da CARLO MARIA MAGNO.

I PUPI:

VIRTICCHIU, sfaccendato.

NOFRIU, ostiere.

LISA, sua moglie (dall’interno).

SCRICCHIANESPULI, delegato di P.S.

TOFALU, guardia.

N. B. – Imitando i pupi, questa farsa può essere rappresentata con bellissimo effetto da attori.

ATTO UNICO

QUADRO I

Piazza.

SCENA UNICA

VIRTICCHIU solo.

VIRTICCHIU – (con voce a trombetta) Avi c’ ‘on tra­vagghiu cocchi se’ misi e aju un pitittu ca mi mandassi cocchi sirici chilovatti ‘i pani. Vìnni a sapiri ca Nofriu Lapardazza si misi ‘a taverna. Ora cci vaju e ô bonu bonu ‘u fazzu signari ‘nt’ ‘a vutti. (via)

QUADRO II.

Osteria.
SCENA I.

NOFRIU, VIRTICCHIU e LISA.

NOFRIU – (tartagliando) ‘I quant’avi ca mi misi ‘sta taverna, a loco ‘i jri avanti, vaju ‘nnarreri, picchi veni chiddu e mancia e fa crirenza, vennu ‘i me’ parenti e mi pari malu e po’ cci rugnu…

VIRTICCHIU – Cc’è pirmissu?

NOFRIU – Trasiti.

VIRTICCHIU – Scusiti, c’aviti ‘i cumpanaggiu?

NOFRIU – Fasoli cu l’acci…

VIRTICCHIU – ‘Un mi piacinu.

NOFRIU – Cci sunnu patati a spizzateddu, baccalaru c’ ‘u pumaroru, carnuzza ch”i patati, sparaceddi r’ ‘a Guaragna, vrocculi assassunati e turdi.

VIRTICCHIU – A propositu: chisti mi piacinu!

NOFRIU – E, allora, chi vuliti?

VIRTICCHIU – Portatimi un sordu ‘i pani, un sordu ‘i vinu e un sordu ‘i turdu. (s’appoggia alla tavola)

NOFRIU – Manciati: cca cc’è un sordu ‘i pani, un sordu ‘i vinu e un sordu ‘i turdu.

VIRTICCHIU – Aju un pitittu, matruzza mia! (man­gia come un canaccio affamato e poi batte con fracasso i pugni sulla tavola) Monsù!

NOFRIU – Cu’ è?

VIRTICCHIU – Vi vitti nuddu?

NOFRIU – Nuddu.

VIRTICCHIU – Portati ‘u bissi. (c. s.) Monsù!

NOFRIU – C’avemu?

VIRTICCHIU – Vi vitti nuddu?

NOFRIU – Nuddu.

VIRTICCHIU – Ribissi. (mangia soddisfatto)

NOFRIU – Finistivu ‘i manciari?

VIRTICCHIU – Finivu.

NOFRIU – Vulemu fari ‘u cuntu? (lampo e tuono) Aspittati ca pigghiu un cocciu ‘i carvuni.

VIRTICCHIU – Ma c’âti a fari cu ‘sta stanga ‘i carvuni?

NOFRIU – Assummari ‘u cuntu ‘i chiddu ca v’aviti manciatu.

VIRTICCHIU – È tantu facili ‘u cuntu! Già eu ‘u fici ‘i testa mia.

NOFRIU – Vui ‘u riciti, ma l’aju a fari eu pi cuntu meu, picchi «cu si guarda ‘u sou ‘un fa mali a nuddu ». (appoggia il carbone al muro) Zeru e va zero quattru e…

VIRTICCHIU – Unu, rui e tri: su’ tri sordi. Vol diri un sordu ‘i pani…

NOFRIU – Gnurnò. Lassatimi assummari, picchi mi faciti sbagghiari ‘u cuntu. Unu e tri fanno quarantaquattru, tira barra, leva trentacincu, arrestanu novi sordi.

VIRTICCHIU – Gnurnò, su’ tri sordi. Facitivi bonu ‘u cuntu.

NOFRIU – Vi staju dicennu c’avi tri uri c’assummu e staju tincennu tutto ‘u muru e sunnu novi sordi.

VIRTICCHIU – Ma picchi, chi mi manciavu ca sunnu novi sordi?

NOFRIU – Un sordu ‘i pani, un sordu ‘i vinu e un sordu ‘i turdu; un sordu ‘i pani, un sordu ‘i vinu e un sordu ‘i turdu; un sordu ‘i pani, un sordu ‘i vinu e un sordu ‘i turdu.

VIRTICCHIU – V’aju ‘ntisu e su’ tri sordi.

NOFRIU – No, novi sordi.

VIRTICCHIU – E allora eu m’ ‘a fazzu c’ ‘u diligatu.

NOFRIU – Di ddocu m’affacciati?

VIRTICCHIU – Sicuru, picchì iddu nn’ ‘a pò ragiunari.

NOFRIU – E cci putemu jiri. (tuona)

VIRTICCHIU – E c’avi a nesciri cu ‘stu sorti ‘i tempurali? M’aju ju a vagnari pi vui?.. ‘I vuliti tri sordi vasinnò ‘mpristatimi un paracqua, un cappottu, un…

NOFRIU – ‘Un nn’aju, ma aju stu bellu mantellu. (lo mostra)

VIRTICCHIU – Macari ri chisti mi cuntentu. (lo prende)

NOFRIU – Lisa, sta’ attenta â taverna ca tornu subitu.

LISA – (con voce sopracuta) Va beni. T’arraccumannu: ‘un veniri tardu.

VIRTICCHIU e NOFRIU – (vanno)

QUADRO III.

Ufficio di Pubblica Sicurezza.

SCHICCHIANESPULI, TOFALU, VIRTICCHIU E NOFRIU.

SCRICCHIANESPULI – (con voce pecorina) Io qui non ne poso più, in queso paese del provolazzo, co queste incantini, che ci sono tutti questi imbriacone e finisci sempri a cutiddati e spitali. Ma io quarchi volta ­fazzu dumanna e mi farò trasfiriri altrove per non nun guardari cchiù questi ciciliani.

TOFALU – (con voce di cane incatarrato) C’è permissu?

SCRICCHIANESPULI – Cosa abbiamo?

TCFALU – Ci sono due che si vogliono prisintari alla Signoria Vostra.

SCRICCHIANESPULI – Oh! Va bene. Fatili ronzari.

VIRTICCHIU – Baciamo li manu, signor pruturi.

NOFRIU – Ma chi dicistivu? Chistu ‘u signur diligàvutu è.

VIRTICCHIU – Gnurnò, chistu è ‘u signur pitturi.

SCRICCHIANESPULI – Cosa avete detto? Ma per chi mi avete preso? Io sono ‘u diiiiiiligato Scricchianespuli.

VIRTICCHIU – Scusassi: eu ‘un l’àvia canusciutu. Ora ca sacciu ca lei è ‘u signur diligàvutu, nn’avi a discurriri ‘stu fattu ca nni successi p’ ‘i manu. Un successu comu ‘stu successu ‘un m’avia successu mai!

SCRICCHIANESPULI – Va bene, pallate.

NOFRIU – No, prima â parrari eu.

VIRTICCHIU – No, eu.

NOFRIU – Prima eu.

VIRTICCHIU – Eu.

SCRICCHIANESPULI – (battendo il pugno) Basta, pallate uno alla volta.

NOFRIU – Signor diligàvutu, eu, pi mia disgrazia, aju ‘na taverna â vanedda ô Pitrusinu e tutti ‘i jorna ‘un nni pozzu cchiù a cummattiri cu chistu e cu chiddu. Cu’ mancia e cu’ vivi e eu signu ‘nt’ ‘a vutti e, si mi vestu i festa, signu ‘nt’ ‘ô cuddaru. ‘Stamatina vinni ‘st’amicu…

SCRICCHIANESPULI – Cu’ è questo? Comu vi chiamati?

VIRTICCHIU – Cu’ eu?

SCRICCIANESPULI – Sì, voi.

VIRTICCHIU – Eu mi chiamo Virticchiu Tataranchiu, figghiu r’ ‘u zu Peppi nnappa ‘i brunzu – Eu mi manciu ‘u cavulu e chistu addigirisci ‘u trunzu! -, abitanti ô curtigghiu San Virticchiu Apostulu.

SCRICCHIANESPULI – E voi comu vi chiamati?

NOFRIU – Eu?.. Nofriu Lapardazza, ‘ntisu Tartagghia.

SCRICCHIANESPULI – Vostro patri?

NCFRIU – Fu Nufriazzu.

SCRICCHIANESPULI – Vostra matri?

NOFRIU – Ronna Nufriicchia, abitanti ò chianu ‘i Santu Nofriu.

SCRICCHIANESPULI – Tutti Nofriu vi chiamati?

NOFRIU – Sissi, pi discinnenza.

SCRICCHIANESPULI – Cosa avete?

NOFRIU – ‘Stamatina vinni ‘stu signori e cunsumò…

VIRTICCHIU – Eu ‘un aju cunsumatu a nuddu.

NOFRIU – Sentu diri ca vi manciastivu un sordu ‘i pani, un sordu ‘i vinu e un sordu ‘i turdu; un sordu ‘ipani,’ un sordu ‘i vinu e un sordu ‘i turdu; un sordu ‘i pani, un sordu ‘i vinu e un sordu ‘i turdu.

VIRTICCHIU – Mi voli riri vossia, signur dilagàvutu, quantu veni ‘stu cuntu, ca iddu p’assummallu tinciu un muru e cunsumau un cocciu ‘i carvuni?

SCRICCHIANESPULI – Tre sordi:  quindici centesimi.

VIRTICCHIU – Aviti vistu? Senza pigghiari carta e mancu pinna, ‘u signur diligàvutu già rissi ca su’ tri sordi.

NOFRIU – No, su’ novi sordi: un sordu ‘i pani, un sordu ‘i vinu e un sordu ‘i turdu; un sordu ‘i pani, un sordu ‘i vinu e un sordu ‘i turdu; un sordu ‘i pani, un sordu ‘i vinu e un sordu ‘i turdu.

SCRICCHIANESPULI – Basta, basta, ho capito!

VIRTICCHIU – ‘U stati virenno ca cci stati inchennu ‘a testa ri chiacchiri? ‘U stati capennu ca su’ tri sordi? È vero, signor diligàvutu?

NOFRIU – Mai! Su’ novi sordi.

SCRICCHIANESPULI – Si pallati ancora, don Nofriu dei miei stivali, vi fazzu mettiri dintra.

VIRTICCHIU – (fra sè) Macari Diu ‘u facissi arristari! (piano a Scricchianespuli) Voli viriri ca rici ca stu mantellu è r’iddu?

SCRICCHIANESPULI – Non po essiri!

VIRTICCHIU – ‘Nca ora voscenza senti comu jecca.

SCRICCHIANESPULI – Va be’, daticci tre sordi.

VIRTICCHIU – Cca cci su’ tri sordi e nni nni putemu jri.

NOFRIU – Nni nni jamu quantu ‘mprima mi rati ‘u mantellu.

VIRTICCHIU – Chi fa?.. Vi rugnu ‘u mantellu? Chi cci rissi, signur diligàvutu?

SCRICCHIANESPULI – Come?!. Prima vuliavo novi sordi e ora, non potendo sfogari, vuliti il mantello per pagarvi i sei sordi di meno. Ma lo dite voi!

VIRTICCHIU – Eu, mantellu ‘un ci nni rugnu.

NOFRIU – No, tu mi l’â dari.

SCRICCHIANESPULI – (batte il pugno)

VIRTICCHIU – Eu ‘un ti nni rugnu.

NOFRIU – Tu mi l’â dari.

VIRTICCHIU e NOFRIU – (s’azzuffano)

SCRICCHIANESPULI – Tofalu, subito arristati a chisto malintenziunatu di Nofriu Lapardazza.

TOFALU – In nomi di la leggi vi dichiaro arrustutu! (lo incatena)

VIRTICCHIU – Bravu!!!

NOFRIU – Signori mei, curnutu e vastuniatu!

Cala la tela tra applausi, fischi e suoni inarticolati del pubblico divertito.

Mario Pintacuda

Nato a Genova il 2 marzo 1954. Ha frequentato il Liceo classico “Andrea D’Oria” e si è laureato in Lettere classiche con 110/110 e lode all’Università di Genova. Ha insegnato nei Licei dal 1979 al 2019. Ha pubblicato numerosi testi scolastici, adottati in tutto il territorio nazionale; svolge attività critica e saggistica. E’ sposato con Silvana Ponte e ha un figlio, Andrea, nato a Palermo nel 2005.


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