N’cera na fiata, a Marittima, l’asilo di Donna Emma
di Rocco Boccadamo
Adesso, nell’ambito di ogni comunità, dal paesino di poche centinaia di abitanti sino alla grande città, esiste, per fortuna, una vasta e capillare rete di entità o istituzioni che s’interessano e si occupano dell’accoglienza, custodia e prima formazione dei bambini in età da uno a cinque anni. Tali strutture, peraltro, com’è noto, mediamente insufficienti dal punto di vista quantitativo rispetto alla domanda dell’utenza, si caratterizzano sotto le insegne di nidi, asili, scuole materne e/o dell’infanzia e recano, in aggiunta, denominazioni e sigle carine e accattivanti, del genere, ad esempio, di “Ape Maya” o “La bacchetta magica”.
Altro aspetto distintivo, constano di ambienti resi gradevoli e colorati e ciò per attirare e coinvolgere gli sguardi e i moti d’osservazione infantili, e pure l’arredamento è consono ai gusti e alle preferenze degli ospiti. Vi lavorano operatori, specialmente operatrici, con un buon bagaglio di preparazione psicologica, pedagogica e di assistenza in generale a utilità e beneficio dei piccoli, un insieme di caratteristiche che mira, chiaramente, a non far pesare, nella suggestione delle giovanissime creature, il distacco, per buona parte della giornata, dalla loro mamma e anche dalle abitudini domestiche. Cosicché, i bambini, talvolta poco più che neonati, s’inseriscono bene, stanno con piacere nelle loro “nuove case”, sono rari i casi in cui soffrono e si lamentano, nonostante che la mamma resti sempre la mamma.
Uniche e insostituibili la sua vicinanza, la sua voce, la sua figura, le sue carezze, le sue occhiate sorridenti. Purtroppo, le genitrici di oggi, e in un comune nucleo famigliare, e nel ruolo, ormai non infrequente, di persone singole con prole, hanno l’impellente e irrinunciabile necessità di svolgere un lavoro, dipendente o autonomo, o di dedicarsi a una professione e, quindi, non si vede in che modo potrebbero cavarsela senza lo sbocco di una struttura di accoglienza cui affidare il/i bambino/i. Non sempre ci sono i nonni vicini o disponibili e idonei a fare le veci della mamma, ecco perché, dunque, alla fine le strutture in discorso si rivelano non bastevoli, anche se, da alcuni anni, ci si adopera per istituirne direttamente all’interno di grandi aziende o enti pubblici. Occorre fare i conti con problemi di mancanza numerica, quindi, per non parlare delle elevate rette da pagarsi, soprattutto presso le realtà private.
Così è oggigiorno, mentre la situazione non era per niente analoga nei tempi andati, settanta – settantacinque anni fa, almeno nei piccoli centri del Sud caratterizzati da una società tipicamente contadina. Ciò è in grado di affermare chi scrive, non solo per ordinaria conoscenza ma anche per antiche esperienze dirette e personali, con riferimento alla sua località d’origine di Marittima. V’è, intanto, da dire che, nel corso dei decenni lontani, le donne si maritavano e iniziavano a partorire presto, intorno ai vent’anni e, di conseguenza, avevano a loro volta fratelli e sorelle giovani e pure i genitori ancora tali, con l’effetto di notevole interscambiabilità e mutualità, in autonomia famigliare, di fronte ai bisogni dell’uno o dell’altro membro.
Per le donne, particolarmente, non esistevano attività impiegatizie o di lavoro in fabbrica, maturavano soltanto saltuarie giornate di fatica in campagna, in aiuto ai genitori e ai fratelli; in prevalenza, invece, se ne stavano casa, le giovani attendendo al ricamo o alla preparazione del corredo. Di riflesso, il paese non necessitava in via continua di un asilo o di una scuola materna, i bambini piccoli crescevano fra le pareti domestiche o fuori degli usci, sotto la cura e la sorveglianza, tra un’incombenza e l’altra, delle mamme o di qualche familiare, in attesa che, a sei anni, iniziassero a frequentare la scuola elementare statale. Tuttavia, ricorreva un periodo stagionale in cui anche le donne, da diciotto fino a cinquantacinque – sessanta anni, intraprendevano un’attività lavorativa che si protraeva da due a quattro mesi, nei “magazzini” o manifatture di lavorazione delle foglie di tabacco operanti nel paese: orario dell’impegno, dalle 7,30 alle 16,30, salvo un salto casa, a mezzogiorno, per un pasto velocissimo. In detta occupazione, capitava che fossero coinvolte sia le giovani ancora non sposate, sia le giovani mamme, sia, infine, le nonne ancora in età lavorativa e, pertanto, in quel periodo, anche a Marittima veniva a porsi il problema dell’affidamento e della cura dei figli in età da uno a cinque anni.
Ad assumere tale compito o funzione, più o meno a cavallo della seconda guerra mondiale, si propose una donna del posto, di origini modeste, famiglia contadina al pari, del resto, della generalità della gente, il suo nome era Emma, trasformatosi per consuetudine più che per diritto, dopo il matrimonio con un uomo di famiglia abbiente, don Rafeli, in donna Emma. Alcuni particolari sulla persona: Emma, unitamente ai propri famigliari, badava sin dalla tenera età alle terre e alla stessa abitazione della famiglia di colui che sarebbe diventato suo marito, erano mansioni, le sue, da persona di servizio, così usavano dire allora, oggi più giustamente definite da collaboratrice. In pratica, stava notte e giorno a faticare a contatto dei “padroni”, un rapporto strettissimo, quasi lei fosse una di casa. I vecchi del paese raccontano che, talora, i “padroni” di Emma si chiedevano ad alta voce se lei, una volta maritata, avrebbe proseguito o no l’attività di donna di servizio. E che la ragazza, nell’ascoltare siffatti discorsi, con acume, abilità o furbizia, rispondeva sempre così: “Cari padroni, a me difficilmente capiterà di sposarmi, giacché le malelingue del paese sussurrano e hanno ormai diffuso la voce che io, oltre a prestare servizio, intrattengo con voi anche relazioni d’altro genere, peccaminose (ndr, a questo punto, chinava il capo) e, quindi, chi volete che mi prenda per moglie?”.
Colpito e, chissà, forse toccato da simili reazioni, il giovane della famiglia benestante, don Rafeli, il quale aveva passato un po’ d’anni in seminario senza però riuscire a prendere Messa, un giorno si sentì vinto da un modo interiore di particolare compenetrazione nell’idea della donna e, con aria solenne e decisa, le dichiarò: “Emma, non devi preoccuparti, se nessuno ti vorrà prendere per moglie, ci penserò io a farlo”. Scaturì da qui, l’avanzamento della lavoratrice, da persona di servizio a sposa in municipio e in chiesa, non di un suo pari ma, addirittura, di un signorino, con la parallela assunzione del titolo di donna Emma. Si era stabilita, la coppia, in un antico e artistico palazzotto a due piani nei pressi della “Campurra” di Marittima; per la precisione, il terraneo era affittato a un artigiano, mesciu Biasi (maestro Biagio), mentre i novelli marito e moglie, che non ebbero figli, occupavano l’ampio primo piano.
L’ambiente più grande, nel periodo di operatività del magazzino o manifattura tabacco, si trasformava giustappunto, in asilo per i piccoli di Marittima, lì accompagnati velocemente la mattina dalle rispettive mamme, in mano una borsetta di cartone contenente una frisella o fetta di pane, cosparse da un sottile strato di zucchero e poi ripresi e ricondotti a casa a metà pomeriggio. Diverse ore d’asilo per i cuccioli, sistemati su file di seggiole o panchette e sgabelli di legno a recitare filastrocche, ascoltare qualche cuntu (racconto), canticchiare inni di chiesa, semplicemente relazionarsi e giocare fra loro, sotto lo sguardo di donna Emma. In tarda mattinata, via alla discesa nel giardino, sottostante, del palazzotto, dove esistevano alcune piante di agrumi e quel posto, dopo l’invito o comando di donna Emma “forza, tutti a fare pipì e pupù”, diveniva il bagno o gabinetto per i bisogni corporali dei piccoli.
Tanto passava allora il convento, oggi verrebbe da rabbrividire dinanzi a simili procedimenti, di fatto, però nemmeno l’ombra di problemi o di effetti collaterali dannosi a carico di un’utenza di venti – trenta bambini e bambine. Quindi, la frugalissima colazione e, da ultimo, brevi sonnellini dei più piccini, all’interno di un paio di nache (culle) sistemate in un angolo dello stanzone. A tutto presiedeva la sola donna Emma, mentre il coniuge don Rafeli se ne restava isolato negli altri vani della casa, non si vedeva mai, salvo in occasione delle uscite per recarsi al tabacchino e rifornirsi di cartine e tabacco per fumare. Da mettere in evidenza che le famiglie che affidavano i figli piccoli a donna Emma non le versavano alcuna retta, semmai si disobbligavano mediante sporadiche dazioni in natura, tipo un cestino di uova fresche, un pacco di zucchero, un vasetto di mostarda d’uva che tanto piaceva a don Rafeli. Insomma, in seno alla cittadinanza marittimese, donna Emma svolgeva, in fondo, una funzione benemerita di pubblica utilità.
Una donna piccola di statura, e però, come accennato all’inizio, assai attiva, intraprendente e furba. Per il suo ruolo, lei era automaticamente invitata a ogni matrimonio o battesimo o cresima o comunione del paese e ai relativi modesti ricevimenti che seguivano. Purtroppo, in dette occasioni, si distingueva per una sua particolare debolezza, non rinunciava mai ad arraffare, con mani rapide, dalla guantiera dei “complimenti”, non uno, come facevano gli altri invitati, bensì una manciata di dolcetti, infischiandosene dello sguardo bieco e di riprovazione che puntualmente ma invano le rivolgeva il compaesano Nino, il quale, di solito, si offriva di svolgere, a titolo volontario e gratuito, la mansione di cameriere. Un limite, che donna Emma si portò appresso finché restò in vita. Invece, don Rafeli, da parte sua, verosimilmente sulla scia dei suoi trascorsi da seminarista, si distingueva per la frequentazione assidua della chiesa e delle funzioni religiose (per citare, era sempre lui a reggere l’ombrellino a riparo del SS. Sacramento durante la processione del Corpus Domini) e, in genere, per la collaborazione con il parroco del paese.
In special modo, si ricorda ancora oggi che, intorno al 1930 – 1935, egli si fece carico della trascrizione, rigorosamente a mano, con bella ed elegante calligrafia su fogli di carta sottili e i margini di ogni facciata contornati da disegni ornamentali, di antichi manoscritti sacri, contenenti preghiere, inni, salmi, novene, liturgie varie, correlate a Vigilie solenni e a ricorrenze celebrative dei Santi Protettori, alla Quaresima, alla Settimana Santa e via dicendo. Uno spesso volume che, una settantina e passa d’anni fa, catturava l’attenzione anche dello scrivente, il quale lo leggeva con passione, ripassando le pagine che sembravano maggiormente interessanti. Da notare, che tale manoscritto si trova tuttora conservato, nella sacrestia della Chiesa Matrice di San Vitale, a Marittima, a cura scrupolosa dei parroci che si succedono nel tempo.
L’opera si presenta integra, con ogni facciata e pagina nella versione originale, con l’unica eccezione che, a distanza di mezzo secolo dalla trascrizione per mano di don Rafeli, esattamente nel 1983, il volume è stato rilegato e munito di una copertina più moderna e nello stesso tempo protettiva e resistente, custodia preziosa del contenuto, alla stregua di un vero e proprio gioiello. Recentemente, ho ottenuto, dal prevosto in carica, il permesso di ridare un’occhiata e sfogliare ancora l’antico libro; con l’occasione, ho fugacemente catturato alcune pagine e l’intitolazione “Raccolta di Sacre Novene” in copertina e sul dorso.
Avanti di passare a migliore vita, don Rafeli e donna Emma hanno deciso di donare alla chiesa il palazzotto della Campurra, che adesso, esteriormente integro nella sua antica bellezza, si presenta triste e vuoto.