Narciso e la conoscenza di sé di Maurizio Mazzotta
Narciso
Il regno della Natura era il regno delle ninfe: ninfe delle piante, delle acque, dei monti.
Tra le ninfe dei monti, abitatrici di montagne e valli, burroni e forre, la ninfa Eco è rimasta celebre per la sua triste storia d’amore. Perché Eco amava alla follia Narciso, figlio del fiume Cefiso. Ma Narciso non voleva saperne di lei, non sapeva rispondere al suo amore, non conosceva l’amore….e la bellissima Eco pianse tanto che si consumò per il dolore e di lei non rimase altro che la voce.
Afrodite, dea dell’amore, non sopportò l’incapacità di Narciso di rispondere ai richiami d’amore e volle punirlo.
Un giorno Narciso si accostò a una fontana sull’ Elicone per dissetarsi e scorse la sua immagine.
Lui che non conosceva l’amore lo conobbe quando si vide: si innamorò della sua immagine riflessa nello specchio dell’acqua. Ma non poteva, non poté raggiungere se stesso, oggetto del suo amore, e si addolorò, pianse e, come era accaduto ad Eco, si consunse, e lì sulla riva del fiume nacque un fiore che prese il suo nome, il narciso. Il fiore è simbolo di una bellezza senza cuore; narciso è una persona fatua e vanesia che ha il cuore rivolto solo a se stesso.
Essere affettivamente rivolti verso se stessi significa volersi bene, un accettarsi e un compiacersi di sé scevro da esagerati egocentrismi e da chiusure verso l’esterno; un volersi bene da adulto, un adulto che sa che anche gli altri hanno o possono avere motivi per volersi bene. Significa stimarsi, riconoscere i propri limiti senza drammi, le proprie capacità senza pavoneggiarsi. Comprende l’accettazione del proprio corpo – il piacersi -, l’accettazione delle proprie caratteristiche di personalità, degli aspetti che contraddistinguono il nostro comportamento; comprende l’approvazione delle proprie azioni, include le aspettative positive su di sé. Un volersi bene moderato, altrimenti emerge Narciso con la sua smania di mirarsi e la sua incapacità di guardarsi intorno ed agire.
La conoscenza di sé
Affettività positiva verso sé significa dunque essenzialmente conoscersi e noi avremmo potuto lasciarci guidare da quel “conosci te stesso” che nelle lingue, greca e latina, suona addirittura come monito, eppure la scuola, l’istituto dell’educazione, lo prende marginalmente in considerazione: generiche informazioni sul corpo umano, nessuna sul comportamento. Sicché usciamo da anni di classi che si succedono, da ordini e gradi di scuola, senza conoscerci. Perlomeno senza che nessuno degli insegnanti si sia posto come guida affinché ognuno conosca se stesso. E la conquista di quel “conosci te stesso” rimane fatica.
Soffermarmi sulle mie sensazioni, meditare sulle mie emozioni, individuare aspetti del mio carattere, riconoscermi capace o incapace di fare, analizzare le mie aspettative per confrontarle con la realtà – la mia realtà intima e quella esterna che mi circonda -, essere consapevole di come interagisco nel sociale: sono conquiste dell’adulto, dell’adulto fortunato che abbia avuto un clima in famiglia favorevole, che abbia la sensibilità e la voglia di conoscersi, soprattutto la possibilità di instaurare rapporti interpersonali improntati alla comunicazione e allo scambio. Chi crede nell’educazione affettiva assume quel “conosci te stesso” come guida e pone per l’educazione dei giovani obiettivi di autoconoscenza e di autoconsapevolezza.
Pirandello dimostrò che ciascuno di noi è “uno, nessuno, centomila”. Noi pensiamo di essere UNO e invece siamo “come ci vedono gli altri” e siccome gli altri sono tanti, siamo MOLTI (centomila), ma essere molti significa essere NESSUNO.
Il discorso sul “Chi sono” o “Chi siamo” presenta delle sfumature, dei distinguo, dei punti di vista.
Io sono ciò che faccio
Accade a volte, se chiediamo a qualcuno: “Chi sei?”, di avere una risposta del tipo: “Sono avvocato”, “Sono impiegato al Comune”, “Sono pittore”. L’individuo si identifica con ciò che fa. La consapevolezza di sé non va al di là di ciò che il soggetto fa per un terzo delle ore del giorno. Si può intendere pure che la persona si sia uniformata nel comportamento ai colleghi di lavoro.
Ero all’università con un amico e ci divertivamo a individuare dal modo di vestire l’appartenenza alla facoltà di Fisica o di Ingegneria dei professori che entravano e uscivano dagli edifici, che erano adiacenti, dei due corsi di laurea. Parlo di qualche anno fa. Avevamo individuato che i Fisici vestivano come adolescenti: jeans, scarponcini, zaini, e gli ingegneri come manager in carriera: cravatta, giacca e borsa.
È un fatto: alcuni rispondono al “chi sei” rivelatore dichiarando ciò che fanno; si deve accettare. Tuttavia attesta una coscienza di sé insufficiente
Io sono come appaio
Tipico della nostra “civiltà” dell’immagine! Il punto di vista si ribalta, ci mettiamo dalla parte di quelli che ci osservano. E costoro ci fanno da guida, ci indicano la strada: se vuoi essere qualcuno devi andare in televisione. Il massimo! Naturalmente occorre esporsi e se ci esponiamo siamo giustificati a dare un’immagine di noi stessi anche non corrispondente al vero. Questo è stato sempre il problema dei politici e di tutti coloro che devono affrontare un pubblico. È una mistificazione micidiale per le conseguenze che produce. Intanto pare sia quella vincente, in quanto quella che convince di più. Ne abbiamo esempi in gran quantità in questi nostri anni.
Io sono come gli altri hanno voluto che fossi
Mio padre divenne architetto perché mio nonno gli dette il nome di Giuseppe Cino, architetto e scultore leccese della seconda metà del Seicento. Può sembrare una citazione giocosa, ma il discorso sottinteso non è giocoso, è piuttosto serio; tra le tesi che propongo è quella che presenta sia risultati negativi che esiti positivi. Si tratta dell’effetto da aspettativa in vigore in molte famiglie e in molte scuole (l’ho anche descritto più volte). Noi finiamo per essere ciò che gli altri si aspettano da noi. Se tuo padre ha fiducia in te, tu diventerai qualcuno; se l’insegnante è convinto che sei bravo, tu lo diventerai. Purtroppo accade anche il contrario.
Io sono ciò che sono
Forse questa è la risposta più coerente alla domanda “Chi sei?”. Deve essere intesa però come risposta dinamica, una risposta che considera il nostro “tendere a”. Naturalmente non una risposta infantile o folle, ma una risposta che tiene conto dei nostri progetti di vita, della tensione verso gli scopi che ci siamo prefissi, dei nostri limiti. Una siffatta risposta ha anche un merito straordinario, quello di darci consapevolezza di noi stessi, capacità di individuare la distanza tra ciò che siamo e ciò che vorremmo essere.
Conosco bene le strade che da Roma conducono a Lecce e viceversa. Un tempo le percorrevo spesso e in quel tragitto si svegliava una coscienza di me che acquistava sempre più forza: le storie si accavallavano, i momenti passati si fondevano nel momento presente. Ciò che sembrava collocarsi nel mezzo tra un viaggio e l’altro, tra un momento e l’altro di questa coscienza, non sembrava più reale. Non avrei giurato sull’esistenza di eventi vissuti, di oggetti, di nomi e di date. Ero solo io, fortemente io, in una scatola di metallo, sempre in un tratto qualsiasi di quella strada così piena di sogni. Perché veramente gli accadimenti scomparivano, restava il distillato di quegli accadimenti e diventavano invece presenti e reali i desideri, gli incubi, le speranze, le certezze, le emozioni, i pensieri, le attese di contatti, di avvenimenti, i superamenti di quei contatti, la stessa percezione del tempo che trascorre, di cui siamo consapevoli proprio quando non siamo dentro l’evento, ma fuori, prima o dopo. Perché è la pausa che conta. Nel momento della pausa noi siamo veramente consapevoli di noi stessi, e siamo tutto ciò che accade tra un evento e l’altro, fuori dagli eventi, e cioè le speranze e le illusioni, le esigenze soddisfate e pure quelle che restano come bisogni e desideri inappagati.
Ma insomma se qualcuno ci chiede “Chi sei”, è dunque pressoché impossibile rispondere. È vero, non si può rispondere. In compenso però noi sappiamo chi siamo se la coscienza di noi stessi rimane in piedi saldamente quando percorro il mio tempo all’indietro e penso alle mie azioni, ai miei pensieri, alle emozioni vissute, e se pure si proietta in avanti quando penso alle fatiche che affronterò per raggiungere i miei scopi.
E se quel tale insiste? Non dobbiamo cadere nel tranello e gli diremo: mi occorre una giornata, forse due, per risponderti. Ci stai?