Mondo immondo
di Paolo Vincenti
Ogni giorno che Dio manda in terra, in cui mi tocca di imprunarmi nel ginepraio di abiezioni che è la presente società, benedico e maledico la mia stella.
La maledico, perché mi costringe al contatto con tanta imbecillità, con i miei simili e con i loro schizzi di fango che mi fanno ritornare a casa la sera inzaccherato e maleodorante.
La benedico, perché le atrocità degli implumi abitatori della terra, le pillacchere degli stolti, le ottusità degli ignoranti, fanno secernere la mia bile corrosiva che poi, con uno scatarro catartico, nei miei cazziatoni, mi aiuta ad eliminare le tossine e a vivere meglio.
La violenza dei miei attacchi d’ira infatti è proporzionale alla loro forza liberatrice. L’invettiva, insomma, come contravveleno all’omicidio (o al suicidio).
Quale maggiore valenza, per chi scrive, ha la satira, che nasce dal riso e induce al riso? La satira mi permette di guardare con la lente del Giovenale, del Marziale, dell’Aretino, i miei consimili, coi loro vizi e le loro virtù. Mai chiamandomi fuori, sia chiaro, consapevole di essere anch’io parte della nefanda schiatta.
È d’altro canto vero che la presenza sul pianeta degli idioti è edificante per chi tale non è.
Infatti l’uomo di genio che si specchia nel suo simile e opposto, l’idiota appunto, trae da questo confronto utile vantaggio perché impara ad essere migliore evitando gli errori del grullo. Non che io mi senta un uomo di genio, però va da sé che si potrebbe scrivere un elogio dei grulli o degli “strulli”, come li definisce Giovanni Papini, che proprio nella sua “Difesa degli imbecilli” afferma: “dappertutto li ritroviamo, anche dove non ci si aspetterebbe, e non soltanto in umili posti, subalterni e oscuri, ma nei primi e più alti. Gli imbecilli formano, si può dire, il massimo corpo dell’umanità sì che studiar l’uomo è lo stesso che definire la natura dei mediocri e degli idioti… e siccome i più sono riconoscibili a prima vista come imbecilli anche dagli intelligenti più distratti, è facile fare il conto e arrivare a una somma non troppo distante dal totale degli ospiti del pianeta”.
Si sa, l’uomo è un impasto di fango e stelle, dunque si trovano in lui tutte le qualità migliori come anche le più basse turpitudini, le più viete depravazioni.
Io, personalmente, non sopporto i sussiegosi, i formali, quei maggiordomi, sciafferri, sempre impostati sulla medesima modalità, imbalsamati, affettati, che non sai se siano davvero dei dementi oppure ti stiano prendendo per la collottola. Costoro hanno dei movimenti rigidi, ripetono meccanicamente gli stessi gesti di cortesia ogni volta che ti incontrano, mai una sbavatura, una variante in corso d’opera, una parola sconveniente, una battuta fuori dalle righe, sembrano quasi degli automi o dei pupazzi caricati a molla ai quali io indirizzo un vaffanculo a denti stretti.
Al tempo stesso, non sopporto quelli eccessivamente confidenziali, amiconi, i quali, svaccati sulla sedia del bar ti danno il cinque, oppure sbrindellati a spasso sul corso ti corrono incontro per salutarti e mollarti una pacca sulla spalla o un ceffone di simpatia in pieno viso. E ti chiedono dei tuoi affari, del lavoro, dei figli, come se ti conoscessero da sempre. Sono gli allegri, i gioviali, gli apostoli dell’ecumenismo a tappe forzate, i missionari del “mal comune mezzo gaudio”, ed anch’essi diventano sovente destinatari dei miei vaffanculo.
Poi, la massa dei pecoroni, il popolo bue, quegli ottusi ignoranti che non distinguono la realtà dall’apparenza, che non sanno rabberciare uno straccio di idea, e dunque o avversano coloro che ne hanno, oppure fanno proprie quelle degli altri per seguirle come dommi o addirittura, colpiti da psittacismo, non fanno che ripetere a pappagallo le parole degli altri.
Non sopporto né quelli che mi incensano, che affermano di apprezzare ogni mio scritto, perché sento lontano un miglio il loro fetore di adulatori, né coloro che non mi applaudono mai, che stroncano ogni cosa che scrivo, perché è chiaro che sono rosi da livore e invidia nei miei confronti.
Detesto gli invidiosi, i maldicenti, quelli che godono dei fallimenti altrui, trovano ragione di gaudio nelle cadute degli altri; e detesto quegli infingardi che mi paradisano qualsiasi fesseria credendomi un beone, un ingenuo.
Non sopporto i politici di mestiere, i fancazzisti, i meschini, gli ingrati, i quali per non ricambiarti un favore ti tolgono l’amicizia, per non doverti ringraziare di essere stati beneficati fanno finta di non vederti e alla lunga diventano i tuoi peggiori nemici.
Non sopporto i nati stanchi, gli indolenti, i taciturni, anche detti “soprammobili”, ma nemmeno i chiacchieroni, invadenti, onnipresenti, anche detti “prezzemolini di ogni minestra”.
Non mi piacciono i codardi, i piacioni, i vili, i ganimedi della moda e della bella vita, i moderni Don Giovanni, quelli che non se ne fanno scappare una “basta che respiri”; gli esperti di tutto, i sempre informati. Vomitevoli. Si rivoltino pure nel fango del loro schifidume, ché io continuo per la mia strada.