Memoria e Lotta
di Cipriano Gentilino
La ricorrenza del Giorno della Memoria delle Vittime dell’Olocausto e la lotta delle donne in Iran ci inducono a considerazioni sia sulle memorie collettive sia sul corpo delle donne in guerra che sotto dittature teocratiche e no.
Sul piano storico-sociologico si può ritenere che una società consapevole esista grazie alla memoria di quanto è avvenuto nel passato e quindi costanti sono gli inviti alla memoria come fondamento della convivenza civile, sia per gli accadimenti positivi sia per gli aspetti negativi. Questi ultimi “perché non accade mai più” .
Eppure la memoria è o rischia di essere gravemente divisiva perché si tratta di un fenomeno complesso e, di per sé, non neutrale: infatti non tutti ricordano le stesse cose o le ricordano nello stesso modo o erano dalla stessa parte al tempo degli avvenimenti ricordati.
Possiamo riportare come esempio le guerre in generale e principalmente queste su base etnica o le resistenze alle dittature.
Ma gli abissi della disumanità così come del terrore per la violenza contro chi lotta per i propri diritti civili diventano e, speriamo diventino sempre più spesso e diffuse, memorie per poterci fermare prima ancora che saremo ancora una volta costretti a pregare che “non accada mai più”.
Memorie, nello specifico psicosociale, di quel complesso di riti e di valori che costituisce per un popolo il senso della propria identità e del proprio destino.
Memorie, sul piano civile e storico, di quei momenti del passato che sono, il più collettivamente possibile, sentiti come educativi ed esemplari.
Anche se Nietzsche ricordava che “«è del tutto impossibile vivere in generale senza dimenticare […]. La serenità, la buona coscienza, l’allegra attività, la fiducia nell’avvenire – tutto ciò dipende, nell’individuo come nel popolo […] dal fatto di sapere tanto bene dimenticare al momento giusto, quanto bene ricordare al momento giusto; dipende dal sapere sentire con istinto potente quando sia necessario sentire storicamente e quando non storicamente […]. L’antistorico e lo storico, quindi, sono ugualmente necessari per la nostra sanità individuale ma anche per un popolo o una civiltà.
La memoria, infatti, non solo conserva tracce della nostra esperienza passata ma svolge anche una parte attiva ricostruttiva nella nostra propria rappresentazione del mondo. Non è quindi semplice riproduzione ma, di volta in volta, dinamicamente elaborata, influenza la nostra lettura della realtà attuale .
In particolare la rielaborazione avviene attraverso le fasi della codifica, della ritenzione e del recupero.
L’informazione inserita in un contesto di informazioni precedenti viene trasformata in un codice che la memoria riconosce.
Ora, e questo è psicologicamente importante, sia la codifica che la ritenzione dinamica che la riproduzione sono influenzate da una infinita molteplicità di fattori.
Tra questi e tra quelli emozionali in particolare hanno particolare importanza la motivazione, la gioia, lo stato affettivo-umorale, la paura e la vergogna.
E allora, per tornare al tema iniziale, diventa nostro dovere ricordare quanti hanno con coraggio ricordato e raccontato l’Olocausto sia degli ebrei che di tutte le vittime del nazifascismo .
Alcuni, sia uomini che donne, hanno preferito non raccontare a causa sia del dolore e della sofferenza sofferte sia della permanente vergogna.
La distruttiva esperienza del sopravvissuto, infatti, consta di due momenti distinti e correlati: il trauma iniziale con i suoi effetti disgreganti e devastanti sulla personalità e le conseguenze, che possono durare un’intera esistenza e richiedono un investimento unico di risorse, se non si vuole soccombere. L’essere sopravvissuti comporta una vaga ma molto particolare responsabilità come immeritevole destinatario di un colpo di immeritata e inspiegabile fortuna. È un miracolo che io mi sia salvato quando invece milioni di persona esattamente simili a me sono perite; perciò, se è accaduto, deve essere per un qualche imperscrutabile fine per il quale sento responsabilità.
“Perché proprio io?”, cerca di rispondere “È stato per pura e semplice fortuna, un caso; non esiste altra spiegazione”; E sotto a questa voce ne sentiamo un’altra che in un bisbiglio ci muove un’imputazione ancora più grave: “Alcuni sono morti perché tu gli hai soffiato quella mansione meno faticosa; altri perché non gli hai dato quel boccone di pane di cui tu, forse, avresti potuto fare a meno”. E rimane sempre l’accusa finale, alla quale non si può trovare una giustificazione accettabile: “Sei stato felice che fosse toccato a qualcun altro e non a te”.
L’irrazionalità di questi sensi di colpa e dell’impressione di essere in qualche modo moralmente debitore non diminuisce il loro potere di dominare tutta la vita; per molti versi è proprio la loro irrazionalità che li rende tanto difficili da padroneggiare. I sentimenti che poggiano su una base razionale possono essere affrontati con misure razionali, ma i sentimenti irrazionali sono il più delle volte inattaccabili dalla ragione, e vanno affrontati a un livello emotivo più profondo.
Di fronte a situazioni estreme ci si può lasciare distruggere dall’esperienza, la si può rimuovere negando che possa avere un qualunque conseguenza duratura. Ma si può anche lottare per tutta l’esistenza per conservarne la consapevolezza e integrarla nella memoria. -B. Betteheim (1959-72), Sopravvivere, Milano, Feltrinelli, 1988, pp. 37-38.-
Situazioni estreme che nei campi nazisti e nelle carceri dei dittatori hanno in comune il corpo umano, un corpo da affamare, torturare, schiavizzare, e stuprare.
Stuprare perché è sul corpo delle donne che, in definitiva, si “ gioca“ la sopravvivenza come ci ricorda il Ratto delle Sabine.
Sul corpo delle donne che sia velate che no, sia costrette nei bordelli dei campi, sia proprietà patriarcali che no, portano con loro la possibilità di partorire la vita.
E allora che non “ succeda mai più” che come scrive amaramente Simone de Beauvoir in Secondo sesso:
“La superiorità è stata concessa al popolo che uccide, e non a quello che procrea”.
Cipriano Gentilino