MemORIA: cronaca di una tragedia nel Mar Egeo nel secondo conflitto mondiale-3/4
di Salvatore Polimeno
Tra l’11 ed il 12 febbraio del 1944 il Piroscafo Oria si incagliava nei bassi fondali di fronte all’isola di Patroclo nel Mare Egeo presso il Capo Sunio a 25 miglia dal porto del Pireo di Atene ed affondava, portandosi a picco gli uomini a bordo. Dei 42 Ufficiali, 188 Sottufficiali, 3885 Militari Internati Italiani, 90 tedeschi di guardia o di passaggio e 22 marinai dell’equipaggio norvegese sarebbero sopravvissuti 21 italiani, 6 tedeschi ed un greco oltre ai 5 membri dell’equipaggio, tra cui il comandante Bearne Rasmussen ed il primo ufficiale meccanico.
Il Mare Egeo
Per avere un’idea della complessità e della magnitudo dei fenomeni in corso in quei concitati mesi che seguirono l’8 settembre, basti pensare che nelle sole isole dell’arcipelago del Mare Egeo[1], all’epoca possedimenti italiani in gran parte dal 5 Maggio 1912 a seguito della Pace di Losanna in cui l’Italia aveva ottenuto anche la sovranità sulla Libia a seguito della guerra con la Turchia, stazionavano almeno 70.000 uomini del Regio Esercito, 10.000 circa della Regia Marina e 3.000 uomini della Regia Aeronautica a fronte di una presenza tedesca crescente ed altamente specializzata e manovriera di poco superiore ad un decimo della Forza italiana (9.000 unità circa).
In particolare, la Divisione Pinerolo la cui erede oggi vede i propri reparti schierati in Puglia, dopo aver sostenuto aspri combattimenti con i tedeschi, con gravi perdite, concluse un accordo con i partigiani greci subito dopo l’armistizio per combattere al loro fianco prima e finire poi, a seguito di contrasti insorti in campo greco, a cedere le armi e ad essere trasferiti nei loro campi di concentramento (Kaspenision, Neraida, Gravenì, Missoluri, Duccicò, Laspi). Nei quattro mesi successivi, per malattia e per azioni condotte dai tedeschi, sarebbero deceduti almeno 800 uomini.
Da parte loro i Marinai, dopo l’iniziale resistenza intesa a impedire che i tedeschi si impossessassero delle navi, con qualche scontro e qualche caduto, dovettero lasciare a questi comandi e navi per finire allontanati con la promessa del ritorno in Italia, tramutatasi ben presto nell’invio nei campi di internamento del Reich in Polonia e Germania. Le navi italiane dislocate al Pireo e a Creta finirono quindi col costituire il nucleo più consistente di unità italiane cadute in mano tedesca e con l’essere impiegate nelle successive operazioni navali in Egeo, sia per la scorta sia per azioni di guerra, in parte con personale italiano rimasto volontariamente a bordo per aver aderito alle richieste tedesche che, come noto, avrebbero previsto la possibilità di essere internati nei campi di concentramento o di arruolarsi nelle Forze Armate tedesche o tra i lavoratori dell’Organizzazione Todt, l’impresa di costruzioni che operò dapprima nella Germania nazista e poi in tutti i paesi occupati dalla Wehrmacht. Esso subì gravi perdite per l’affondamento delle navi trasporto da parte delle navi e degli aerei alleati.
Per quanto riguarda l’Aeronautica, il Comando Supremo aveva disposto che nessun apparecchio italiano, per la componente rimasta ancora nell’area e non evacuata, dovesse cadere in mano tedesca e che in caso di impossibilità si provvedesse alla distruzione». Purtroppo tali istruzioni, coperte da misure di estrema segretezza per non allarmare i tedeschi, causa la rapida dichiarazione di armistizio, non raggiunsero tutti i Comandi interessati, o li raggiunsero quasi contemporaneamente alla notizia dell’avvenuto armistizio.
La situazione locale andò ulteriormente complicandosi con l’istituzione della Repubblica Sociale Italiana il 23 settembre, introducendo una nuova componente politica all’interno delle Forze Armate italiane. Quella stessa notte, fra il 23 il 24, sarebbe iniziata la tragedia dei prigionieri/internati italiani nel Mare Egeo con il piroscafo Donizetti, catturato a Iraklion dai tedeschi, dopo aver portato rinforzi e rifornimenti a Rodi, imbarcato con oltre un migliaio di internati italiani e, poco dopo, attaccato da due cacciatorpediniere britannici, che lo incendiarono ed affondarono assieme all’unità di scorta: nessuno degli italiani a bordo sarebbe sopravvissuto all’evento.
Degli 83.000 militari italiani, 20.000 raggiunsero i reparti della Resistenza greca e si aggregarono ai partigiani mentre altri 25.000 preferirono darsi alla macchia e cercare di operare da soli spesso in condizioni di estrema precarietà essendo alla mercé dei greci sia per il vitto sia per eventuali delazioni, ricompensate dai tedeschi. Molti, lontani da reparti/navi al momento dell’armistizio, provarono ad allontanarsi e fuggire: tra questi alcuni anche dai camion e dai treni lungo gli itinerari verso i campi di internamento.
Commovente in questo senso è la storia del Soldato Pagano Filomeno (Memè per gli amici) classe 1914 di Trepuzzi in provincia di Lecce. Chiamato alle armi più volte, così racconta il figlio dopo tanti lustri, viene assegnato all’8 Centro automobilistico il 2 aprile 1935 ed inviato prima in Eritrea e successivamente in Albania quando viene messo in congedo illimitato. Richiamato alle armi nuovamente, il 2 Giugno del 1940 parte per l’Egeo e sbarca a Rodi dove viene aggregato al Quartier Generale del Comando Superiore delle FF. AA. come conduttore. In questa veste ha modo di conoscere e frequentare la famiglia di Campa Nicola, maestro scalpellino di Soleto (LE) residente a Rodi dalla fine degli anni ’30 ove era stato inviato per sovraintendere ad una serie di lavori avviati in loco dal Governo Italiano. Nell’occasione, conosce la figlia maggiore dei signori Campa, Maria Antonia, se ne innamora e la sposa l’8 Luglio del 1943 con testimone di nozze il Ten. Col. Ruggero Fanizza, Sottocapo di Stato Maggiore del Comando Superiore dell’Egeo. Il 16 settembre 1943, dopo pochi mesi dal matrimonio, viene internato in uno dei campi tra i boschi del Centro dell’isola in cui ci ritorna una seconda volta alla fine di gennaio del 1944 dopo essere riuscito a fuggire la prima. La notte dell’11 febbraio viene fatto salire su un automezzo per il porto e quindi essere imbarcato su una nave per la Germania: il piroscafo Oria.
Prima di salire sull’automezzo, il Pagano ebbe modo di chiedere all’autista (suo collega di Reparto) di rallentare all’altezza di una determinata curva per consentirgli la fuga non volendo abbandonare la moglie!
Sul cassone del mezzo peraltro si incontrò e riconobbe un altro commilitone suo concittadino, Antonio Perrone, col quale discusse di un possibile piano di fuga, non condiviso dall’amico, speranzoso nella pronta risoluzione del conflitto e conseguentemente nella fine della guerra.
Giunto alla curva, come concordato con l’autista, il Pagano si buttò dal mezzo in corsa e si diede alla fuga attraverso il bosco, inseguito invano dai soldati tedeschi che lo fecero oggetto a colpi d’arma da fuoco (nei mesi successivi sarebbe vissuto di espedienti nascosto nei boschi intorno al piccolo centro di Embonas, il più alto dell’isola).
Una volta giunti al porto, i militari internati italiani vennero stipati nella stiva del piroscafo “Oria” che sarebbe partito alle 17.40 dello stesso giorno con a bordo 42 Ufficiali, 188 Sottufficiali e 3885 graduati e militari italiani: nell’elenco dei dispersi di quel viaggio infausto da cui si salvarono solo una “trentina” di superstiti risulta ancora a pagina 47 il nominativo del soldato Pagano Filomeno che sarebbe rientrato nel suo paese natio, insieme alla famiglia, il 20 giugno del 1946.
L’affondamento del Piroscafo Oria
Quel giorno, l’11 febbraio del 1944 il piroscafo Oria avrebbe lasciato la baia di Rodi per il porto del Pireo sovraccarico di militari italiani internati.
Era scortata da tre piccoli cacciatorpediniere italiani, catturati dai tedeschi dopo la resa italiana nel settembre del 1943: il TA/Torpedoboote Ausland 16 (ex Castelfidardo)[2], il TA 17 (ex San Martino)[3] e il TA 19[4] (ex Calatafimi)[5][6].
Fin dall’inizio, la traversata sarebbe stata piena di insidie stante le cattive condizioni meteo e soprattutto l’incombente minaccia dei sottomarini inglesi il cui eco molto probabilmente sarebbe stato avvertito dal TA 17.
Durante la notte, il convoglio composto dall’Oria e da tre torpediniere di scorta, fu investito da una forte tempesta in mare con venti da SW a 11 nodi della scala Beaufort.
La mattina del giorno successivo lungo lo stretto corridoio tra le coste meridionali dell’Attica e l’isolotto roccioso di Patroclo le condizioni meteo andarono peggiorando con raffiche di vento che raggiunsero gli 88 – 102 Km/h e le onde che andavano alzandosi sempre più in alto sino a 9 metri causando difficoltà di manovra sia ai cacciatorpediniere che al piroscafo che, nonostante i messaggi di correzione della rotta da parte del Comandante del Convoglio a bordo del TA 19, andò a incagliarsi alle 18.45 sulla barriera corallina “Medina” larga circa 150 metri lungo il corridoio, nonostante la presenza a partire dalle 06.00 del 12 del supporto aereo da parte di 4 Junker 88.
Dopo lo schianto, la nave si ruppe in due pezzi e iniziò ad affondare molto velocemente con la sezione di prua che si capovolse rimanendo a galla per diverse ore mentre i tre cacciatorpediniere, impossibilitati a soccorrere i superstiti stante le precarie condizioni del mare ed i sopraggiunti guasti meccanici a bordo, proseguirono per il Pireo da dove nei giorni successivi sarebbero partiti in aiuto 3 rimorchiatori italiani e 2 greci: tra questi il Vulcano ed il Titano che tanto si prodigarono per il recupero dei pochissimi sopravvissuti. Durante le successive indagini sarebbe emerso che le stive erano chiuse dall’esterno e che il disastro sarebbe da ascrivere, oltre che alle proibitive condizioni meteo, all’errore da parte dell’equipaggio dell’Oria che avrebbe confuso l’isolotto di Patroclo con l’isolotto di Phleves (situato a circa 12 miglia a nord).
Dopo la resa delle forze tedesche, avvenuta il 9 maggio 1945, il generale Otto Wagener[7] successore del generale Kleeman al comando della Divisione tedesca “Rhodos” e Comandante delle Truppe tedesche sull’Isola di Rodi e alcuni suoi collaboratori furono sottoposti al giudizio del Tribunale Militare di Roma. Wagener, nell’occasione, venne condannato a 15 anni di reclusione per “aver usato violenza contro italiani non partecipanti alle operazioni militari, provocando la morte di un numero imprecisato di loro per maltrattamenti, fame, esecuzioni per rappresaglia per tentativi di fuga e mancanza di assistenza sanitaria”. Analogo comportamento, secondo l’accusa, sarebbe stato condotto nei confronti dei prigionieri di guerra italiani internati nell’isola, molti dei quali erano morti a causa dei maltrattamenti, delle cattive condizioni alimentari, della mancanza di cure mediche adeguate.
D’altra parte non va sottaciuto, riprendendo le parole nel libro “Gli Italiani nell’Egeo” di Gino Manicone, un veterano dei campi di concentramento a Rodi: “Se i tedeschi vennero condannati per la loro barbara ferocia […] anche la strategia di affondare il naviglio di trasporto di indifesi perseguita dall’Ammiragliato britannico avrebbe dovuto essere considerata tra i fatti del tutto non onorevoli compiuti dagli alleati belligeranti”.
[1] Nel 1943 le Isole italiane dell’Egeo comprendevano:
- il Dodecaneso (isole dell’Arcipelago delle Sporadi Meridionali occupate nel maggio 1912 per costringere la Turchia a chiedere la pace che ponesse fine alla guerra italo-turca in corso dal 1911); ne facevano parte Rodi, Alimnia, Calchi, Calino, Calolino, Candeliusa, Caso, Coo, Farmaco, Lero, Levita, Lisso, Nisira, Patmo, Piscopi, Scarpanto, Simi, Sirina, Stampalia e isolette minori. Ad esse era stata aggiunta Castelrosso ceduta dalla Francia all’Italia il 1° marzo 1921. Era presidiato da circa 56.000 uomini tra Regio Esercito (44.000), Marina (8.100 circa), Aeronautica (3.000) ed un migliaio della ex Milizia Volontaria;
- le Cicladi (23 isole, di cui la più importante era Sira), le Sporadi settentrionali (Furni, Vicaria e Samo) catturate al termine della campagna contro la Grecia del 1940-1941. Erano presidiate, rispettivamente, da 3.500 – 4.000 uomini circa dell’Esercito (in gran parte a Sira) e 700 marinai e da 9.000 uomini circa della divisione di fanteria Cuneo e 500-700 della Marina;
- la parte orientale dell’Isola di Creta, presidiata da 21.700 uomini della divisione di fanteria Siena e della Brigata Speciale Lecce e dal personale della Marina (Comando Marina e 4 batterie costiere per un totale di circa 600 marinai).
[2] Sarebbe stato affondato durante un raid aereo della RAF nei pressi di Heraklion.
[3] In servizio nell’Egeo, si sarebbe autoaffondato il 12 ottobre 1944 dopo essere stato danneggiato nel corso di un raid aereo su Salamina.
[4] Sarebbe stato affondato dal sommergibile greco Pipinos il 9 agosto 1944.
[5] Il Diario di Guerra del 13 febbraio 1944 di Mr. Heinrich Rolman della “German Nautical Administration” dell’Attica così recita: “a convoy consisted of the ships ΤΑ 16, ΤΑ 17, ΤΑ 19 and the steam ship Oria with almost 4000 Italian prisoners coming from Rodes passed by Sounio. While the escorting ships were struggling against the storm and the big waves, Oria crashed into Gaidouronisi with many human losses. For now, no help can be sent due to the unusual big waves.”
[6] Torpediniere, già della Regia Marina, delle Classi Curtatone e Palestro.
[7] https://www.dodecaneso.org/content/crimini-e-criminali-durante-loccupazione-militare-tedesca-e-fascismo-repubblicano-nel-dodecaneso/