Marzio Cava e l’antico proverbio gallipolino
di Laura De Vita
“Foe Marziu Cava, eppuru spicciau”
recita un antico motto gallipolino, oggi ormai caduto in desuetudine, per indicare colui che, ricco e potente, ha dilapidato tutti i suoi beni, finendo i suoi giorni nella miseria più nera:
“Fu Marzio Cava, eppure anche lui finì!”
Marzio Cava, negoziante di origine napoletana, giunse in Gallipoli intorno al 1688 e vi si trattenne fino all’8 agosto 1715, giorno della sua morte.
La leggenda narra che egli fosse così ricco, da essere addirittura costretto ad utilizzare una pala per ammonticchiare le sue piastre d’argento. Tanto ricco che, il popolino, non riuscendo a comprendere l’origine di tale sconfinata fortuna, era convinto che il Cava avesse l’autorizzazione del governo dell’epoca a coniare lui stesso il denaro.
Fin qua la leggenda. Il Can. Francesco D’Elia però ci narra un’altra verità: sembra che il Cava non fosse poi tanto ricco e che morì indebitato fino al collo e, probabilmente, con un mandato d’arresto sulle spalle, richiesto dai suoi creditori rimasti insoddisfatti. E d’altronde, la legge del tempo era molto differente da quella oggi vigente e prevedeva espressamente la privazione della libertà personale per il solo fatto di non essere in grado di adempiere a un’obbligazione contrattuale.
Che sul capo di Marzio Cava pendesse un mandato d’arresto sembra essere confermato da una nota contenuta nel suo atto di morte dove era espressamente indicato il suo stato di “rifugiato presso la Chiesa di San Domenico“, oggi conosciuta come Chiesa del Ss. Rosario. Infatti, nei secoli passati, non solo i delinquenti, ma anche i comuni debitori, erano soliti rifugiarsi nelle sagrestie delle chiese per sfuggire alla cattura da parte dei gendarmi, o anche semplicemente all’ira dei creditori.
Marzio Cava conduceva una vita di lusso e di sperperi, ma il denaro utilizzato per i suoi vizi non era suo, bensì preso in prestito dal Capitolo della Cattedrale di Gallipoli, a fronte di interessi anche piuttosto elevati, ma soprattutto a nome di soggetti terzi, affinché il suo nome di debitore non comparisse e i suoi reali bisogni non fossero sotto gli occhi di tutti.
Da poco arrivato in Gallipoli, il Cava aveva ottenuto in prestito dal Capitolo 3500 ducati d’argento, ma di questa somma apparivano formalmente debitori il Canonico Narciso (per 1000 ducati), l’Arciprete Musurù e l’Arcidiacono Pacella (per i restanti 2500). Per questo credito era stato stabilito un interesse del 5% per il primo anno, del 7% per il secondo anno e del 9% per il terzo anno.
Ma il Cava, da commerciante navigato ed esperto qual era, chiese al Capitolo di ridurre l’interesse al 7% anche per il terzo anno; se il Capitolo non si fosse accontentato, egli non avrebbe restituito l’intera somma. Il Capitolo cedette alla richiesta e il Cava ripeté lo stesso giochetto anche negli anni successivi: mentre egli era ancora debitore di 3000 ducati, chiese nuovamente al Capitolo di ridurre l’interesse dal 9% al 7% e, assieme ad un tal negoziante di nome Bitonto, chiese un ulteriore prestito di 2500 ducati che gli fu accordato.
In altre parole il Cava, per conquistare la fiducia dell’ingenuo volgo, si pavoneggiava sfoggiando ricchezze non sue.
Anche la convinzione del popolino circa la sua capacità di coniare moneta ovviamente non aveva fondamento.
E difatti, nel 1688, essendoci stato il cambio di moneta, il Cava era stato autorizzato dal Capitolo a ritirare il contante riveniente dai prestiti rimborsati, denaro che restituiva entro sei mesi con moneta d’argento nuova, obbligandosi a consegnare al procuratore del Capitolo, a semplice richiesta, somme inferiori ai 200 ducati.
Probabilmente il popolo, vedendo che egli cambiava la moneta vecchia con quella nuova, credette ingenuamente che fosse lui stesso a coniarla.
Alla sua morte fu sepolto nella chiesa del SS. Rosario, dove si trovava come “rifugiato” e dove riposa tuttora, quasi totalmente dimenticato dalle generazioni che si sono susseguite nei secoli.