L’uomo Beethoven
di Luigi Solidoro
Il 17 dicembre scorso, nel giorno del suo battesimo, in tutto il mondo si è festeggiato il 250esimo anniversario della nascita di Ludwig van Beethoven, compositore che rappresenta un pilastro fondamentale nella Storia della musica. Egli fu un grande innovatore nella forma e nel sentimento, completando ed esaurendo il Classicismo, preparando il Romanticismo e donando alla musica una buona dose di sperimentalismo che la condurrà alla crisi estetica manifestata successivamente da Berlioz, Wagner e Schoenberg. La forzatura che attuò nelle forme classiche non fu mirata ad un’innovazione fine a sé stessa, ma rappresentò una vera e propria esigenza derivante dalla voglia di comunicare stati d’animo interiori ed eventi mai descritti in musica prima d’allora. Egli con le sue opere esternò la più grande carica e varietà di emozioni, solcando i mari dell’ira incalzante, dell’umore litigioso, dell’esaltazione, della tenerezza e dell’angoscia profonda.
In Beethoven, il confine tra pazzia e genialità in preda all’ispirazione non è stato sempre facile da identificare. Osservando i suoi modi burberi, le sue rudi abitudini (si raccontava che camminasse frettolosamente per strada di notte andando avanti e indietro, agitando le braccia, brontolando e parlando tra sé e sé) ed i suoi frequenti attacchi d’ira bestiale, è comprensibile immaginare come sia stato difficile per i suoi contemporanei accettare l’idea che tale “individuo” potesse scrivere musica di così alta bellezza e profondità spirituale.
Nelle sue composizioni, alla forza bruta che urlava la sua collera al mondo si contrapponeva lo spirito innocente di fanciullesca dolcezza; una parte di lui era quasi insensibile, egoista, arrogante a tal punto che la sua famiglia lo soprannominava “dragone”; un’altra parte, invece, era timida, innocente, generosa, amorevole, nobile. Vien da pensare che sicuramente angelo e demone agirono in lui contemporaneamente per creare uno dei più grandi geni musicali della storia dell’umanità. Era anticonvenzionale, presuntuosamente moralista, fortemente indipendente e visse la sua vita al limite della pazzia che solo nell’arte, attraverso un durissimo lavoro, riuscì a trovare ordine e pace.
Crebbe triste e solitario in una famiglia povera, con un padre austero, severo e dedito all’alcool, ed una madre gentile ma depressa; da piccolo il suo unico svago fu il clavicembalo e suo padre, avendo intuito il suo talento, cercò di trarne guadagno esponendolo sul mercato musicale come una vera e propria merce da vendere, proponendolo come bambino prodigio e obbligandolo a studiare anche di notte. Questi terribili sforzi consumarono la sua gioventù ma, al tempo stesso, forgiarono in lui un carattere di ferro, facendolo giungere alla convinzione che nella vita bisognasse soffrire per poter ottenere qualcosa. Fu perennemente innamorato, anche in modo estremo, ma quasi sicuramente solo in maniera platonica.
Trasferitosi a Vienna nel novembre del 1792, quasi ventiduenne, nel giro di pochissimo tempo Beethoven divenne concertista di pianoforte assai applaudito e, per così dire, alla moda, infiammando quel pubblico abituato ad ascoltare l’eccellente musica degli illustri J. Haydn (che per un breve periodo fu suo maestro) e W. A. Mozart, morto proprio l’anno prima. Nel giro di poche settimane la sua irresistibile veemenza pianistica gli aprì le porte dei più ambìti palazzi nobiliari viennesi: si diceva che nessun esecutore avesse mai avuto tale forza e così tanta immaginazione.
Vi era qualcosa di meraviglioso e sublime nel suo modo di suonare che andava ben oltre la bellezza e l’originalità; si narra che una sera fece un’esecuzione talmente commovente che gli spettatori scoppiarono in lacrime. Abbandonò presto le consuete forme musicali che imprigionavano il suo estro per ricercare e sperimentare forme nuove e sempre più ampie. Le sue composizioni, infatti, cominciarono ad avere sempre più vigore, fantasia, eccitazione; ricercava un suono talmente pieno e forte da far tremare i lampadari presenti nei grandi saloni nobiliari; questo, però, faceva storcere il naso a molti critici musicali e a quei musicisti spaventati da tanta impetuosità.
La sua determinazione non gli diede un’immediata gratificazione, ma lo portò al successo. Contrariamente alla tradizione, che testimonia l’indigenza di quasi tutti gli artisti, non visse in povertà ma fu prosperoso e per un certo periodo ebbe anche la servitù. Il suo impegno era costante e trascorreva le giornate ad impartire lezioni di pianoforte, dirigere orchestre, assistere alle prove, litigare con i suoi editori, mantenere una fitta corrispondenza, leggere testi di filosofia, tenere contatti con gli amici, scontrarsi continuamente con i suoi mecenati ed andare continuamente a caccia di donne.
Ben presto, però, cominciò ad avere il più tragico dei problemi per un musicista: un fastidio all’orecchio sinistro che, pochi anni dopo, comprometterà totalmente il suo udito. Inizialmente ebbe difficoltà ad udire i suoni acuti, poi cominciò a sentire continuamente ronzii e dolori; questo problema cominciò quando aveva ventisei anni e, poco alla volta, la perdita fu irrimediabile e definitiva. I medici non gli furono di grande aiuto, ritenendo che non vi fosse nulla da fare. Beethoven si sentì quasi mutilato, sminuito e, vergognandosi profondamente, fece di tutto per nascondere la sua disabilità. La sua attività di pianista ne risentì tantissimo e visse sempre nell’incubo di poter perdere anche la capacità di comporre.
Fu così che nell’autunno del 1802, quasi vicino al suicidio, si trasferì temporaneamente in un piccolo villaggio vicino a Vienna chiamato Heiligenstadt, per allontanarsi dai rumori della città e dalle continue relazioni sociali che essa imponeva. Qui scrisse un’accorata lettera indirizzata ai suoi due fratelli, mai spedita, che prese il nome di Testamento di Heiligenstadt e dalla quale si può comprendere lo stato d’animo del sommo compositore:
“Oh, voi uomini che mi considerate litigioso, permaloso o misantropo, come male mi avete giudicato. Voi non conoscete la ragione segreta. Obbligato ad accettare la prospettiva di una infermità permanente, ho dovuto immediatamente escludermi dalla vita e vivere in solitudine. Per me non ci possono essere relazioni sociali ed umane, conversazioni e reciproche confidenze. Quando sono in compagnia sono assalito da una grande ansietà per la paura di poter rivelare la mia condizione. Che umiliazione quando qualcuno che è di fianco a me può sentire un flauto lontano, mentre io non riesco a sentire proprio nulla. Queste esperienze mi hanno portato vicino alla disperazione e sono giunto sul punto di porre termine a questa vita. Solo la mia arte mi trattiene dato che mi sembra impossibile lasciare questo mondo prima di aver composto e prodotto tutto ciò che mi sento di dover realizzare.”
Nel 1814 fu costretto ad abbandonare definitivamente la sua carriera di pianista e di direttore e nel 1818 si poteva comunicare con lui solo tramite i famosi quaderni di conversazione. Essere sordo per un musicista è come essere cieco per un pittore e sembrava una disabilità destinata a impedire l’atto compositivo. Ma, racchiuso in sé stesso, Beethoven affrontò la sua malattia con una esplosione interiore di creatività: passava tutto il suo tempo a comporre, la sua frenesia immaginifica si intensificò e le idee musicali gli attraversavano la mente come sciami e, quando veniva il momento di scriverle, le analizzava e le riguardava con stizzosa frenesia ed estrema accuratezza, cancellando e riscrivendo un passaggio decine di volte prima di raggiungere la stesura finale.
In una conversazione con un amico ritroviamo la descrizione del processo creativo descritto dallo stesso Beethoven:
“Non posso dire da dove vengono le mie idee. Mi giungono improvvise direttamente ed indirettamente. Riesco quasi a prenderle tra le mani. Sono risvegliate dagli stati d’animo e tramutate in toni e suoni, rombano e infuriano fino a quando per me prendono forma di note… (omissis) … Dal fuoco dell’entusiasmo devo liberare la melodia in tutte le sue direzioni. La inseguo, la catturo ancora. La vedo volare via e sparire. La intravedo nuovamente. Sono costretto a moltiplicarla e alla lunga la conquisto… (omissis) … L’idea di base non mi lascia mai. Sorge, cresce verso l’alto e io posso vedere e sentire la figura mentre il tutto prende forma e si fonde in un’unità. Tutto quello che devo fare successivamente è trascrivere”.
Nonostante la sua sordità, il senso del suono era chiarissimo e, con l’aiuto del cosiddetto orecchio musicale interno che aveva sviluppato negli anni precedenti, Beethoven immaginava toni e note e riuscì a comporre un’immensità di opere che aprirono la strada ad un nuovo modo di concepire la musica: opere monumentali, sinfonie titaniche, creazioni profonde e di altissimo valore. Molti critici hanno addirittura ipotizzato che nelle sue ultime composizioni parlasse con Dio.
In questo anno segnato dalla pandemia, in cui le norme per limitare il contagio hanno imposto la chiusura dei teatri e la sospensione della musica dal vivo, ognuno di noi ha potuto vivere, seppur in minima parte, quella dimensione beethoveniana, assaporandone l’enorme difficoltà del “silenzio forzato” e dell’isolamento sociale.
Pertanto, proprio in questo momento storico, la lezione impartitaci dall’uomo Beethoven diventa quanto mai preziosa, ricordando all’intera umanità che durante le più grandi tragedie, l’essere umano solo dentro di sé può trovare quell’energia e quello slancio capaci di fargli superare anche le più grandi avversità.