Loredana Borghetto, “Navigante di poppa”, Altro Mondo Editore, 2023
Recensione di Vincenzo Fiaschitello
Ecco un libro luminoso, carico di ottimismo equilibrato, mai azzoppato nemmeno in mezzo agli immancabili eventi negativi. Il lettore è portato a rievocare tempi, modalità e fatti personali analoghi in cui riconoscersi e con i quali confrontarsi, ammettendo che la vita riserva a chi più e a chi meno o in eguale misura le stesse piccole gioie, gli stessi guai, le stesse illusioni.
Non temere, navigante di poppa, quando senti che i ricordi declinano perché nulla si estingue: una nuova rete è subito pronta, i sensi lavorano in silenzio, rammagliando giorno dopo giorno, e tutto è salvo, tutto il passato è raccolto come un mazzetto di fiori, che proprio perché uniti, accostati l’uno con l’altro, profumano più intensamente, a volte anche senza capire bene come siano entrati in relazione sebbene la realtà soltanto apparentemente li tenesse separati.
Il passato, indelebile corallo, con i suoi grumi di vita emerge come nel controluce di lampi di effimera durata che Loredana Borghetto sa bloccare nel momento in cui scoccano e restituirli al presente straordinariamente fruibili, accompagnati da dettagli fittissimi: colori, odori, silenzi, sorrisi.
In questo felice esordio nella narrativa, la Borghetto dona ai lettori con schiettezza e magistrale scrittura una molteplicità di esperienze vissute dall’esito sincero, convincente e commovente, così come accade quando leggiamo alcune pagine delle “Care Memorie” di Marguerite Yourcenar. Si resta piacevolmente sorpresi dalla vivacità di rievocazione di luoghi, di emozioni, di eventi, descritti con dovizia di particolari da darci la sensazione di essere anche noi presenti nel corso di quegli accadimenti della sua fanciullezza e adolescenza che via via si snodano anno dopo anno.
Particolarmente significative sono le figure dei genitori.
La madre, dalla quale lei e la sorella più piccola vengono allontanate per tutto il tempo necessario per la guarigione da una lunga malattia, viene ricordata con grande affetto e ammirazione soprattutto quando descrive la sua passione per la cura dei fiori: i gerani ricercati nella varietà di colori e scambiati con le donne del vicinato; le nataline che crescevano in un grande vaso sopra una fioriera in ferro battuto catturavano una gran parte della sua attenzione, fermandosi a osservare “con occhi trasognati non appena scorgeva… piccole macchie di color rosa intenso. Da quel momento si instaurava un dialogo muto fra lei e la sua natalina”. Premeva in lei la pena non mai estinta per il dolore della perdita della sorellina primogenita mai conosciuta, se non nel ritratto incorniciato che “campeggiava sul comò”.
Una realtà dolorosa che la Borghetto maneggia con infinita delicatezza, ricordandola non solo all’inizio del romanzo, ma anche alla fine, quando si chiude il ciclo della vita della madre, il cui volto sereno le suggerisce l’incontro tanto atteso con la bimba morta tanti anni prima. Forse il pensiero che attraversa la mente dell’Autrice è finalmente un pensiero di amore per la sorellina, ricordata nella dedica del romanzo insieme alla madre, ormai purificato da ogni elemento terreno, non più così acuminato come quello che l’ha accompagnata per tutta la vita.
L’altra figura, il padre, ha un posto altrettanto rilevante nella vita della scrittrice. Lo presenta come giovane soldato, carrista della divisione Ariete al tempo della seconda guerra mondiale, avanti e indietro lungo la costa settentrionale dell’Africa secondo i successi e le sconfitte, fino all’ultima eroica e sfortunata battaglia di El Alamein e infine prigioniero degli inglesi per interminabili mesi, con in tasca il Canzoniere di Petrarca e qualche canto della Divina Commedia. La vecchiaia e la decadenza fisica, dopo una erta esistenza di soldato, di operaio e di padre, è descritta nell’ultima parte del romanzo con la consapevolezza di un destino di perdita che incrocia la fragilità della vita. L’esperienza della morte si caratterizza come sentimento acuto della vita: “non si percepisce mai la vita / così forte come nella sua perdita.” (Mario Luzi).
Nella memoria della scrittrice si affollano spesso i ricordi della natura e del paesaggio in cui era immersa la sua fanciullezza: “a perdita d’occhio campi e prati, percorsi da filari di alberi o arbusti, da siepi e fossati d’acqua cristallina che diventava torbida e limacciosa dopo un temporale…quello era il nostro mondo, il nostro spazio libero, rinchiuso tra l’azzurro del cielo e il verde dell’erba, tra il limio delle cicale e il gracidare delle rane”.
Non mancano tuttavia momenti in cui sembra prevalere il senso della solitudine: “quell’erba, quei prati talvolta erano un rifugio per me, il mio nascondiglio dove vivere la mia solitudine”. Talvolta è presente un certo “patema”, secondo quella antica accezione aristotelica di modalità particolare di conoscenza non chiara, non lucida né verbalizzante, manifestata con una forma di sofferenza interiore e consegnata al silenzio, a seguito di una spiegazione da parte dell’adulto non convincente o poco comprensibile. E’ il caso per esempio del rito funebre abbreviato sulla porta della chiesa per un suicida o quello di una donna che aveva partorito da poco ed era ritenuta “impura”, per cui non poteva essere ammessa in chiesa se non dopo un rito particolarmente umiliante per lei, officiato dal parroco.
Così la fanciullezza e poi l’adolescenza si traducevano spesso in uno “sciame di pensieri”, che tra perplessità, rifiuti e dubbi, la guidavano verso il perseguimento di una meta di maturità spostata sempre in avanti.
Serena e al tempo stesso inquieta e trepidante, allorché comincia a delinearsi il femminile, il ruolo della donna che va scoprendo nella figura della madre e delle sue conoscenti, ma ancora di più nella riflessione personale e nella ammirazione per la bellezza, il portamento e l’abbigliamento delle ragazze più grandi di lei.
La ricchezza immaginativa, che si fa strada nel romanzo man mano che si incanala nel ricordo delle tappe della sua esistenza, va ad alimentare una realtà fatta di figure, di volti, di gesti, di mani, di voci, di innumerevoli dettagli, che restano mirabilmente nella nostra memoria. Dunque vi è una “comunicazione”, non una semplice narrazione-informazione, nel senso che la Borghetto riesce a farci condividere le sue emozioni e i suoi sentimenti, nutriti nel chiuso della sua anima, non fornendoci soltanto notizie autobiografiche della sua infanzia e della sua adolescenza come fossero dentro una scatola asettica, fino a svuotarla completamente. I ricordi sono limpidi e impetuosamente non indulgenti nel confessare gesti, parole, azioni, non in linea con i doveri e le regole dettate dagli adulti: “in ogni attività mettevo la massima attenzione, ma talora non serviva, sbagliavo sempre qualcosa”.
E tutto questo attraverso un lessico elegante e perfettamente aderente agli eventi narrati.
Di notevole interesse ai fini di una ricostruzione del quadro sociale e culturale del momento storico narrato è sia la galleria di rapide epifanie di personaggi come l’arrotino, l’ombrellaio, il macellaio, il potatore, la straccivendola, il gelataio, la sarta, sia la descrizione dei giochi : la corda, il mitico nascondino, la campana, la palla, la maestra, ecc. accompagnati dal linguaggio tipico, fantastico dei bambini, contrassegnato dal verbo imperfetto “Io ero…”, che come i pedagogisti hanno segnalato denota tra l’altro la capacità di immaginazione del bambino nello svolgimento del gioco e al tempo stesso la
consapevolezza che esso si fa “per finta”.
Il circolo si chiude con il meraviglioso elenco e la descrizione di tanti capolavori della letteratura infantile, che un tempo costituivano la ricchezza culturale della maggior parte dei fanciulli, scritti da: Molnar, Malot, Alcott, Carrol, Dickens, ecc.
Loredana Borghetto, Navigante di poppa, Altro Mondo Editore, 2023, pp.202, €14.00, ISBN 978-88-3330-429-8
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