L’opaco fascismo siciliano
di Pasquale Hamel
Il 28 Ottobre 1922, a seguito del plateale azzardo della cosiddetta “Marcia su Roma”, Benito Mussolini, il capo del partito fascista, completa la scalata al potere avviando il Paese verso l’eclisse della democrazia liberale, processo che culminerà dopo la crisi indotta dall’assassinio Matteotti, con l’instaurazione nel dicembre del 1925, del regime dittatoriale.
In Sicilia, però, quell’evento epocale in linea generale non ebbe il rilievo che meritava, “si attribuì, lo scrive Giuseppe Carlo Marino, ad esso il carattere di un normale avvicendamento di governo, appena più rumoroso di quelli avvenuti in piena legalità”. Il fascismo, che si era affermato in Italia, non aveva infatti trovato in Sicilia quell’accoglienza che ci si aspettava, esso era sostanzialmente rimasto, in linea di massima, estraneo alla realtà isolana. Sui motivi di questa estraneità si sono interrogati gli storici offrendo risposte differenti in ragione della prospettiva ideologica che applicavano alla interpretazione del fenomeno.
Quanti, ad esempio, si inspiravano alla visione marxista individuavano la causa della relativa modesta capacità di adesione alla cosiddetta “rivoluzione fascista”- il termine rivoluzione, peraltro, non piaceva alla sinistra massimalista che invece preferiva definirlo “reazione” o “controrivoluzione” – all’inesistenza nell’isola di grandi fabbriche la cui assenza determinava la mancanza di masse operaie capaci di maturare uno spirito di classe e, per quando riguarda il settore agrario, l’assenza di un padronato presente nelle campagne e ciò perché l’amministrazione dei latifondi era stata dai latifondisti da tempo delegata nelle mani dei gabellotti quasi sempre espressione del potere mafioso.
Tesi queste che, però, come scrive Glauco Licata, non tenevano in debito conto dell’esistenza di taluni complessi industriali come ad esempio la Fonderia Oretea e, per quanto riguarda il settore agrario, sorvolavano sia sull’antica e radicata tradizione socialista propria di una parte del mondo contadino isolano che affondava le sue radici addirittura nelle jacquerie dei cosiddetti Fasci siciliani, sia la più recente presenza del movimento cattolico d’ispirazione sturziano. Proprio il mondo contadino aveva dato, nell’immediato dopoguerra, prova di capacità rivoluzionaria che si era espressa nel cosiddetto movimento per l’occupazione delle terre. Più puntuali ci sembrano invece le conclusioni a cui arrivava, da una prospettiva di destra, Giuseppe Tricoli, il quale si soffermava innanzitutto sulla natura del proletariato siciliano che, per antico retaggio culturale non appariva particolarmente affascinato da quel modello collettivista bolscevico, il “facciamo come la Russia”, che invece aveva conquistato le masse proletarie e contadine del nord.
Proprio questa cultura aveva impedito che in Sicilia si potesse manifestare un fenomeno simile a quello che fu indicato come “Biennio rosso” e che nel nord aveva favorito, come reazione, lo squadrismo fascista. Le stesse occupazioni delle terre, che in qualche modo potevano essere interpretate come la versione agraria e meridionale dell’occupazione delle fabbriche, nonostante fossero in linea di massima informate allo spirito cooperativistico, nella gestione registravano forti resistenze: nella cultura dei contadini siciliani era infatti radicato il principio del possesso, e non certo la gestione collettiva, come fine della lotta sindacale. Dunque ciò che si opponeva alla affermazione del fascismo era il fattore culturale che si sintetizzava nella forte resistenza al nuovo, allora si parlava di resistenze alle “mode”, storia antica ma sempre presente tipica della società siciliana.
Il fascismo nell’isola veniva, infatti, percepito come novità, una novità rivoluzionaria, frutto di processi di modernizzazione, che maturavano al di fuori dei confini siciliani e che, dunque, facevano a pugni con il radicato immobilismo e conservatorismo della cultura siciliana. In poche parole il fascismo, al di là delle sue mitologie, dunque non piaceva ai siciliani tanto da essere accolto con grande diffidenza. Fece eccezione l’area della Sicilia sud orientale – emblematica la situazione del siracusano – dove in effetti si registrarono gravi episodi di squadrismo. Non è un caso che, per arrivare ad un minimo di accettazione, si dovette aspettare la confluenza nel partito fascista del Movimento nazionalista che, come scrive Gabriella Portalone, “godeva in Sicilia di maggiore credibilità rispetto al movimento mussoliniano”.
L’idea fascista, dunque, fu sostanzialmente subita e non s’incarnò nella società isolana ciò non mise radici profonde nel terreno della nella società isolana al punto che lo stesso Tricoli parla di opacità del fascismo siciliano. Che la situazione fosse questa se ne rese conto, ad un certo punto, perfino lo stesso duce che considerò ad esempio “gli impiegati pubblici siciliani inaffidabili” e per rappresaglia, con una circolare del 3 agosto 1941, dispose incurante che il provvedimento avrebbe suscitato naturali rimostranze, il loro trasferimento in sedi fuori dell’isola. Non meraviglia, dunque, che dopo il luglio 25 del 1943 – nonostante studiosi come Domenico Lo Jacono facciano cenno a fenomeni di fascismo clandestino, individuando fra essi il noto movimento “non si parte” che assunse, soprattutto nell’area sud orientale della Sicilia notevoli dimensioni – che esso scomparisse dall’isola senza lasciare che modestissime tracce.