IL PENSIERO MEDITERRANEO

Incontri di Culture sulle sponde del mediterraneo – Rivista Culturale online

Articolo di G. Pipitone

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di Gianvito Pipitone

Nel sud Italia, si sa, è facile rintracciare rilevanti testimonianze della presenza araba nell’arte e nell’architettura: si pensi al patrimonio artistico lasciato in eredità in Sicilia (basta farsi un giro per le meraviglie di Palermo come la Cuba o la Zisa) così come a quello linguistico e lessicale o alla toponomastica. Diversi nomi di città (CaltanissettaMazaraMarsalaSalemiFavara), località (MongibelloAlcantara) e cognomi (AsaroZizzoBadalàBadalamenti) diffusi in Sicilia e in tutto il Mezzogiorno sono di chiara derivazione araba.

La lingua araba è penetrata nell’italiano tramite la presa in prestito di parole e di termini di uso più o meno comune: si va dal lessico dell’astronomia (nadir, azimut, zenith) a quello della matematica (algoritmo, algebra, cifra, zero), dalla chimica (alcol, elisir, alambicco) al lessico militaremarinaresco e commerciale (ammiraglio, cassero, dogana, magazzino). Per non parlare dei termini colloquiali: a bizzeffemeschino, fino ad un termine comune come “ragazzo” che sembra provenire dall’arabo “raqqa so”, nome con cui si indicavano i “messaggeri” nel XIII secolo. Numerose sono poi le parole arabe entrate nel lessico comune del dialetto siciliano, spesso correlate al repertorio dei termini dell’irrigazione (gebbia, sachia, margiu) o dei termini agricoli in senso lato (zotta, zaccanu) ma anche altri contesti (giufà, tamarru, sciara, giuggiulena, bagghiu e così via). Fin qui, l’influenza araba e della sua lingua in Italia, in particolar modo in Sicilia.

Un po’ meno note invece risultano le vicende della presenza italiana nel Mediterraneo e le vicissitudini e i lasciti culturali oltre che linguistici che hanno segnato nel corso dei secoli l’esodo dei nostri conterranei negli scenari a sud del Mare Nostrum. Se da un lato sappiamo con sufficiente certezza che l’arabo non si è imposto mai come lingua parlata sul suolo Italico (ma più probabilmente come lingua dell’amministrazione e della letteratura, in Sicilia), dall’altro lato invece possiamo constatare come il nostro idioma, l’italiano, è stato spesso utilizzato in quasi tutto il bacino mediterraneo come lingua franca. Come probabilmente direbbe Dante, il suono della lingua del sì ha risuonato un po’ ovunque da Algeri a Beirut, da Smirne a Istanbul, da Alessandria d’Egitto a Tunisi, toccando forse il punto più alto a cavallo fra l’Otto e il Novecento.

Per avere un’idea della penetrazione della lingua italiana nel Mediterraneo, basta citare qualche esempio. Nel Settecento, non è un mistero che alcuni trattati politici internazionali in Russia, Turchia o in Prussia venissero redatti nella Lingua italiana. Ad Odessa nell’odierna Ucraina, il nome delle strade, ancora nel 1860, era segnato in due lingue, di cui la seconda era l’italiano. In Egitto, per un periodo prima dell’avvento dei Britannici (fino al 1876) l’italiano era la lingua dell’amministrazione pubblica e venne persino utilizzato nella dicitura delle prime serie di francobolli.

Sembra poi che fino agli inizi del secolo scorso non fosse infrequente imbattersi sulle coste del Libano in anziani che parlassero l’italiano con accento spiccatamente veneto. Il nostro idioma inoltre rimase, per un certo periodo, la lingua straniera più diffusa tra i turchi perfino nel XIX secolo, impiegato soprattutto a livello diplomatico e commerciale.

Ancora adesso nei caffè di alcuni quartieri di Istanbul, è probabile imbattersi in anziani nativi del luogo che passano con grande facilità dal francese all’italiano, utilizzando spesso espressioni dialettali genovesi, una forma di pidgin che sembra aver mantenuto intatte delle formule linguistiche stereotipate. Per non parlare infine della Tunisia, dove il quartiere portuale de La Goulette, posto fra Tunisi e Cartagine, fino a non molto tempo fa veniva chiamato “la piccola Sicilia” in onore dei suoi fondatori, quasi tutti lavoratori siciliani provenienti dal triangolo Palermo, Trapani e Agrigento che addirittura diedero vita inconsapevolmente a un idioma tutto loro: un mix di arabo-siculo che tuttora è usato come lingua locale.

E poi? cos’è successo poi all’italiano? è quanto meno lecito chiedersi. La risposta, per quanto intuitiva, si porta appresso tutta una serie di motivazioni, storiche, politiche, geopolitiche e culturali. Intanto, cominciamo dalla spiegazione forse più semplice: il ruolo che l’italiano aveva a fatica guadagnato è stato progressivamente eroso dal grande competitor di sempre, culturale, politico, geopolitico oltre che linguistico, si potrebbe dire prosaicamente la nostra “bestia nera“: ossia il francese. Specialmente nell’Oriente Mediterraneo. Operazione in seguito completata nel XX secolo, con l’avvento prepotente dell’uso della lingua inglese con cui il ridimensionamento dell’italiano è stato praticamente totale. La competizione linguistica con altri pesi massimi europei quindi, ci ha lasciato ben poche chance di sopravvivenza nel mediterraneo.

Certo, si potrebbe obiettare che ultimamente, grazie anche all’onda lunga (fuor di metafora) della televisione e della radio, sembrano registrarsi deboli revival della lingua italiana, specie sulle coste della Croazia, dove è più frequente la presenza turistica dei nostri connazionali; e poi anche in Albania e sulle coste e le isole della Grecia; e infine nel nord Africa, in corrispondenza delle grandi città come Algeri, Alessandria, Il Cairo e Tunisi, oltre alle ex colonie della Libia dove più forti sono rimasti i legami con la madrepatria. Ma nonostante questo colpo di reni, il ruolo dell’italiano nel Mediterraneo è di fatto ridotto ad un piccolo orpello, ormai lontano dai fasti di un tempo.

Ovviamente, per saperne di più, è sempre con la Storia che bisogna fare i conti. La nostra lingua si è spostata seguendo le orme degli Italiani, le rotte dei loro traffici commerciali (nella migliore delle ipotesi) e quelle dell’emigrazione (nella peggiore). Il fenomeno migratorio degli italiani verso i centri a Sud e a Est del Mediterraneo, pur non di massa come quello per le Americhe a cavallo dell’Otto e Novecento o quello per l’Europa nel secondo dopoguerra, ha rappresentato comunque un fenomeno rilevante, costante nei secoli e ha riguardato diverse classi sociali.

Nell’Ottocento, il “cancelliere di ferro” il prussiano Otto Bismarck, uno degli uomini più potenti del secolo, aveva azzardato una previsione: che all’Italia spettasse di giocare un ruolo importante nel Mediterraneo. Ma nella sua visione, questa tendenza al Mediterraneo dell’Italia avrebbe portato la penisola a scontrarsi prima o poi con la Francia, sua naturale rivale. Purtroppo la previsione di Bismarck si avverò e i disegni italiani volti a giocare un ruolo nel contesto mediterraneo si rivelarono velleitari e, in definitiva, inadeguati: sia a causa della scarsità di mezzi finanziari dei vari governi italiani, sia per i il forte ridimensionamento che l’Italia registrò all’indomani della seconda Guerra Mondiale, sia perché, come affrontato altrove in questo blog, l’Italia non seppe scommettere abbastanza sul proprio mare e sulla proiezione culturale che quel mare gli avrebbe di diritto assegnato.

E qui la questione si sposta dalla Storia alla Politica. L’Italia, se per qualche tempo poté aspirare ad essere annoverata fra le potenze mediterranee, in realtà non lo divenne mai del tutto. E anzi, specialmente nel periodo imperialistico, dovette inghiottire il boccone amaro della definizione che i detrattori gli cucirono addosso: «la più piccola delle grandi potenze“.

Cercando ora di sintetizzare con uno sguardo d’insieme le varie ondate di emigrazione italiana nel Mediterraneo, si può constatare intanto la dimensione composita delle sue colonie: si tratta di individui giunti in diverse epoche, spinti da motivazioni ed esigenze molto diverse fra loro. Nelle città più importanti del Medio Oriente (Alessandria, Istanbul, Smirne) da tempo immemorabile resisteva una presenza italiana: per capirci, fin dai tempi delle Repubbliche Marinare.

Con l’intensificarsi degli scambi commerciali nell’Ottocento arrivarono poi ingegneri, quadri specializzati, operai, artigiani, impiegati nella costruzione di strade, porti, ferrovie. Anche nel Maghreb si erano registrate antiche presenze italiche, rese possibili dalla vicinanza geografica o causate dalle guerre e da motivi politici (come la mini diaspora degli ebrei livornesi a Tunisi) o più semplicemente dall’esodo di manodopera a bassa specializzazione che i braccianti siciliani offrivano al Protettorato francese di Tunisia, autoproclamatosi nel 1881.

Le statistiche disponibili sono abbastanza lacunose e spesso, se confrontate con quelle francesi, non combaciano. A fino Ottocento, in Turchia, il numero degli italiani si avvicinò verosimilmente alle 30 mila unità, con rilevanti presenze a Istanbul (12-14 mila), Smirne (6-7 mila), Salonicco in Grecia (2-3 mila). In Egitto arrivarono a essere più di 40 mila, localizzati soprattutto ad Alessandria, dove se ne contarono 25 mila, e al Cairo (13 mila). In Algeria nel 1881, la colonia italiana raggiunse le 33 mila unità, composta principalmente da presenze scarsamente qualificate. I mestieri esercitati da questi emigrati erano per lo più umili e faticosi: costruzioni ferroviarie e navali, pesca e manovalanza varia. Anche in Marocco gli italiani oscillavano intorno alle 10 mila unità. Ma la presenza di gran lunga più rilevante si registrò in Tunisia. Qui gli italiani, secondo alcuni dati, arrivarono ai primi del Novecento a superare le 100 mila unità.

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