“Le donne in assemblea” (“Ecclesiazuse”) di Aristofane
di Mario Pintacuda
La commedia di Aristofane “Ecclesiazuse” (Ἐκκλησιάζουσαι, titolo variamente tradotto con “Le donne all’assemblea” o “Le donne al parlamento”) fu rappresentata (secondo l’ipotesi più accreditata) nel 392 a.C., forse alle feste Lenee.
Per noi quest’opera viene dopo un lungo “black-out”, dato che la precedente commedia aristofanesca pervenutaci, “Le rane”, risaliva al 405 a.C. In quei tredici anni molte cose erano cambiate e ben diversa era ora la situazione sociopolitica e culturale: Atene aveva perso la guerra del Peloponneso contro Sparta e non era più la potente polis dominatrice dei mari; era anche venuta meno, nonostante la restaurazione democratica, la “libertà di parola” (παρρησία), che aveva caratterizzato la vita della città nel V sec. a. C. e aveva consentito la presenza di espliciti riferimenti politici nel teatro comico. Conseguentemente, come già notava Johann Gustav Droysen (1808-1884), era mutato il ruolo della commedia: “quanto chiassosa era una volta, in mezzo alle pressioni e alle grida delle divisioni politiche, tanto ammutolita è ora, fin quasi a trascinare di nascosto la sua esistenza politica, così importante in passato” (“Aristofane”, tr. it., Sellerio, Palermo 1998, p. 227).
Nell’ambito della produzione teatrale di Aristofane, la commedia mostra diverse caratteristiche nuove (almeno, rispetto alle nove commedie precedenti a noi pervenute):
1) l’assenza della parabasi, cioè del momento più caratteristico della commedia “antica” del V sec. a. C., durante il quale gli attori uscivano di scena e si sospendeva la finzione drammatica; in questa “pausa” il coro, tolto il costume, sfilava (παραβαίνω) davanti al pubblico e discuteva di argomenti di attualità con intento polemico);
2) la mancanza della pàrodos, il canto d’ingresso del coro (perché il coro è formato da donne già presenti fin dall’inizio sulla scena);
3) l’inserzione nei codici (in due occasioni) della didascalia “chorù” (χοροῦ), cioè “(spazio) del coro”, a testimonianza della trasformazione di alcuni canti corali in semplici “intermezzi” (ἐμβόλιμα) avulsi dalla vicenda e di cui quindi non è stato tramandato il testo;
4) parallelamente, la netta riduzione dei canti corali.
Appare dunque avviato il processo che condurrà la commedia greca alla cosiddetta fase “di mezzo”, che si affermerà dal 388 a.C. (anno del “Pluto” di Aristofane) fino al 322 a.C. (anno dell’“Ira”, Ὀργή, prima opera di Menandro); in questa fase il teatro comico abbandonerà la satira politica orientandosi verso temi meno impegnati, di carattere familiare o mitologico.
Prima di analizzare le “Ecclesiazuse”, è opportuno ricordarne brevemente il contenuto.
Le donne ateniesi, guidate da Prassagora, sono convinte di poter risollevare lo Stato grazie alla loro saggezza; decidono perciò di travestirsi da uomini e prendere il potere nell’assemblea; si recano dunque verso la collina della Pnice, sede dell’“ecclesìa”, l’assemblea dei cittadini ateniesi (tutti maschi).
Blepiro (l’anziano marito di Prassagora) e un suo vicino di casa si accorgono che le donne sono uscite di casa indossando i loro abiti e le loro calzature; Blepiro ha un aspetto particolarmente buffo, giacché indossa gli abiti della moglie (una mantellina gialla e scarpette con suola alta), non avendo più trovato in casa i suoi abiti.
Giunge poi Cremete, che informa Blepiro di aver assistito all’assemblea nel corso della quale “un bel ragazzo con la pelle bianca” (in realtà Prassagora travestita) ha fatto passare la proposta di affidare alle donne il governo della città (vv. 427-430).
Tornano in scena le donne esultanti: Prassagora espone il nuovo programma di governo, basato su un’equa ridistribuzione delle ricchezze e sulla comunione dei mezzi di sostentamento: «È necessario che tutti abbiano tutto in comune e da ciò traggano i propri mezzi di sostentamento; non più che uno sia ricco e un altro miserabile; che uno abbia molta terra da coltivare e un altro neppure quella per esservi sepolto; che uno abbia molti schiavi e un altro neanche uno. Tutti i mezzi di vita devono essere in comune e uguali per tutti» (vv. 590-594; uso qui la traduzione di Guido Paduano).
Le donne al potere, dunque, intendono abolire le basi socioeconomiche della società patriarcale, cioè la proprietà privata e la famiglia; ne deriveranno anche nuove norme in materia sessuale, per cui saranno le donne a scegliere con chi unirsi, mentre gli uomini dovranno soddisfare per prime quelle vecchie e brutte. Si tratta di una concezione analoga a quella che sarà presentata pochi anni dopo da Platone: «Queste donne di questi nostri uomini siano tutte comuni a tutti e nessuna abiti privatamente con alcuno; e comuni siano poi i figli, e il genitore non conosca la propria prole, né il figlio il genitore» (Repubblica 457d, trad. Sartori).
Le battute di Blepiro creano un controcanto ironico (e spesso osceno) al progetto di Prassagora; ne emerge il suo assoluto qualunquismo politico. Pienamente inserito nel nuovo ordine è invece Cremete, che porta in piazza i suoi oggetti per metterli in comune.
Intanto le nuove delibere creano una situazione paradossale: un giovane, ad esempio, desideroso della sua ragazza, viene fermato da tre vecchie megere che pretendono i suoi favori. Al termine ha luogo un festoso banchetto (δεῖπνον, v. 1165) a cui accorrono tutti i cittadini.
A prima vista, le “Ecclesiazuse” sembrano riproporre lo schema tradizionale delle commedie di Aristofane, caratterizzate dalla presenza di un “eroe comico”, cioè «un personaggio stralunato e paradossale, che sceglie di emarginarsi dal mondo deteriore da cui è circondato, ed elabora un progetto per distruggere le cause di tale degradazione e i loro responsabili; egli si oppone ai falsi valori supinamente accettati dalla comunità, e con la sua lotta riesce a far prevalere i valori autentici cui è rimasto fedele» (Del Corno). In questa tipologia sembrerebbe rientrare Prassagora, con il suo desiderio di “rifondare” la società; tuttavia la protagonista esce di scena al v. 727, senza farvi più ritorno, sicché si crea un’anomalia: l’“eroe” non assiste al risultato della sua idea, mentre al suo posto compaiono diversi nuovi personaggi anonimi, che abitano il nuovo mondo utopistico.
Dopo le “Tesmoforiazuse” e la “Lisistrata”, le “Ecclesiazuse” costituiscono la terza commedia aristofanesca in cui le donne ricoprono un ruolo di primo piano; il loro “colpo di stato”, a prima vista, dà origine ad una società nuova, priva di squilibri economici, basata sull’abolizione della proprietà privata e sulla disintegrazione della famiglia tradizionale.
Ma dietro l’apparenza rivoluzionaria emerge un rassicurante conservatorismo di fondo, proclamato nel discorso “propagandistico” di Prassagora, che ribadisce il ruolo tradizionale delle donne partendo dalla loro abilità nell’“oikonomìa” (οἰκονομία), l’amministrazione della casa: «Loro siedono e cucinano, come ai bei tempi (ὥσπερ καὶ πρὸ τοῦ); portano carichi in testa, come ai bei tempi; celebrano le Tesmoforie, come ai bei tempi; cuociono le focacce, come ai bei tempi; rompono le scatole agli uomini, come ai bei tempi; si tengono in casa l’amante, come ai bei tempi; escono a fare spese, come ai bei tempi; amano il vino pretto, come ai bei tempi; godono a farsi fottere, come ai bei tempi. E quindi non stiamo a sprecare parole e affidiamo a loro la città, senza chiederci cosa faranno. Semplicemente, lasciamole governare. Pensiamo soltanto a questo: sono madri e cercheranno in tutti i modi di salvare la vita dei nostri soldati. E nel pensare agli approvvigionamenti, chi sarà più sollecito di una madre? La donna è bravissima a procacciarsi denaro e una volta al potere non si farà mai ingannare, perché è troppo abituata a ingannare lei stessa» (vv. 221-238).
Dunque la polis può essere amministrata come un “òikos” (οἶκος), come una casa: la competenza “economica” delle donne garantisce, secondo Prassagora, un’analoga impeccabile gestione della cosa pubblica. Importante è poi il richiamo alla maternità, con il dovere delle madri di proteggere i figli dalla violenza della guerra. Strumento della riforma è il “comunismo”: le donne, «privando gli uomini della proprietà, li pongono sul loro stesso piano, autolegittimando quindi il loro ruolo gerarchico di amministratrici» (Valeria Andò, “Saperi femminili in un mondo alla rovescia: le donne in Lisistrata ed Ecclesiazuse”, in “Dioniso”, n.s., n. 3, 2004, p. 104).
La “rivoluzione femminista” riesce anche per l’acquiescenza, la passività e la superficialità di una popolazione maschile che accetta senza opporsi i cambiamenti, non per reale interesse ma per una crescente indifferenza verso la cosa pubblica e per un’egoistica ricerca del tornaconto personale. Aristofane tratteggia qui un quadro desolante della disaffezione politica (che tanto attuale appare oggi in Paesi come il nostro, ove l’astensionismo nelle consultazioni elettorali è ormai alle stelle).
La svolta “epocale” viene così rimarcata da Cremete, quando Blepiro gli chiede cosa sia stato deciso in assemblea: “Di affidare loro [= alle donne] il governo: è l’unica cosa – pare – che ancora non è successa nella nostra città” (vv. 455-457); e di cose, ad Atene, ne erano successe tante nell’ultimo cinquantennio… Su queste basi, Prassagora è convinta di poter rendere “felice” la sua città: “Per Afrodite, se è così questa città sarà ben felice (μακαρία) in futuro” (vv. 558-559).
In realtà, l’autore non manca di sottolineare ironicamente, fin dall’inizio, l’inadeguatezza delle donne al ruolo pubblico cui ambiscono: infatti, nell’iniziale adunata, una delle donne proclama ottimisticamente la capacità femminile di “chiacchierare” (“lalèin”, λαλεῖν, v. 120), lontana dal “parlare” (“lèghein”, λέγειν) che è invece tipicamente maschile; il λαλεῖν si rivela implicitamente “un ciarlare privo della capacità argomentativa e persuasiva necessaria nei discorsi assembleari maschili” (V. Andò, art. cit., p. 100).
Conseguentemente, l’ingenua dottrina “comunistica” di Prassagora e compagne finisce per destare ben presto perplessità e ribellioni, anche perché “la riforma di Prassagora, se promette molto ai cittadini, lo fa a condizione che essi diano tutto allo stato; e gli Ateniesi […] sono pronti a prendere, ma capaci di inventare qualunque stratagemma pur di non dare” (G. Paduano, introduzione a “Aristofane – Le donne al parlamento”, BUR, Milano 19892, pp. 26-27).
In particolare, un cittadino rifiuta di consegnare i suoi beni (vv. 746-752), mentre un giovane, dopo aver rivolto una canzone d’amore alla sua innamorata (ed è questo il primo esempio di serenata nella letteratura greca, vv. 952-959), cerca di aggirare la norma che prevede una precedenza sessuale da riservare alle donne vecchie e brutte (vv. 877-1111). In questa lunga scena, a un certo punto, si hanno due esternazioni “propagandistiche” di una rugosa vecchia e di una giovane avvenente ragazza, ognuna attenta a decantare le proprie qualità e a smontare i pregi dell’altra: “VECCHIA: Se qualcuno vuole sentire il vero piacere, deve venire a letto con me. Non nelle giovani è la scienza dell’amore, ma nelle donne mature. Nessuna più di me può amare il suo uomo; un’altra volerebbe subito via. – RAGAZZA: Non invidiare le ragazze: la sede del piacere sta nelle tenere cosce, fiorisce sui seni; tu puoi incipriarti e depilarti quanto vuoi: piacerai solo al dio della morte” (vv. 893-905).
Nel complesso la commedia attesta, come si è detto, un evidente passo in direzione della commedia “nuova” greca (la “Néa”, Νέα), con l’implicita riaffermazione dei valori di una quotidianità sempre più arroccata nell’individualismo apolitico e con la palese sfiducia nelle costruzioni “alternative”. Anche in questa “pièce” dunque il vecchio poeta conservatore prosegue ed estremizza la sua polemica contro la decadenza morale e spirituale della società del suo tempo; i riferimenti alla “ginecocrazia” (già prospettata in commedie precedenti come “Lisistrata” e “Tesmoforiazuse”) e alle suggestioni comunistiche, benché proposte in modo paradossale e ironico, celano l’implicito timore che il verbo estremista di alcune scuole filosofiche possa diffondersi tanto da minare le basi stesse della tradizionale società civile.
In tale direzione andrà il V libro della “Repubblica” di Platone, ove peraltro il filosofo appare consapevole del fatto che le idee professate possano provocare “lo scherno degli spiritosi”, per quanto questo non debba essere temuto (cfr. 452b); a tale proposito, va qui ricordata l’audace ipotesi di Luciano Canfora, che vorrebbe abbassare la data delle “Ecclesiazuse” al 378/377 a.C. proprio per farne una sorta di risposta all’ideologia platonica (cfr. “La crisi dell’utopia. Aristofane contro Platone”, Laterza, Roma-Bari 2014). Va ricordato comunque che analoghi progetti “eversivi” di stampo progressista erano stati ideati da Ippodamo di Mileto in età periclea e da Falea di Calcedone all’inizio del IV sec. a.C. (quest’ultimo proponeva una riforma agraria egualitaria).
Al di là delle mutate condizioni sociopolitiche e del nuovo contesto letterario, nelle “Ecclesiazuse” permangono tracce dell’Aristofane precedente, “eccessivo” e cultore della “naturalità bassa” (come la definiva Umberto Albini, cfr. “Riso alla greca”, Garzanti, Milano 1997, p. 31); ciò avviene ad es. nella scena (alquanto sgradevole) in cui Blepiro, colto da un impellente mal di pancia notturno, esce di casa per defecare ma viene disturbato dal suo vicino, che dalla finestra gli comunica le novità cittadine (cfr. vv. 311-371).
Intatta appare altresì la prodigiosa creatività lessicale del poeta: proprio in questa commedia compare la più lunga parola del greco antico, un chilometrico composto (che si estende per ben sette versi dattilici) che indica il menu del banchetto conclusivo: λοπαδοτεμαχοσελαχογαλεο-/κρανιολειψανοδριμυποτριμματο-/σιλφιοκαραβομελιτοκατακεχυμενο-/κιχλεπικοσσυφοφαττοπεριστερα-/λεκτρυονοπτοκεφαλλιοκιγκλοπε-/λειολαγῳοσιραιοβαφητραγα-/νοπτερύγων, cioè «pasticcio di ostriche pesci coniglio salsa pesto silfio formaggio miele tordi merli colombi piccioni polli cefali arrosto palombi cutrettole lepri mostarda alucce» (vv. 1169-1175). La spaventosa battuta era pronunciata dal coro delle donne (verosimilmente dal corifeo); come osserva Umberto Albini, “l’ostacolo in un pezzo di progressiva accelerazione come questo consiste nel conciliare la comprensione dei singoli elementi con la rapidità del ritmo. Un paragone approssimativo potrebbero darlo le arie dell’opera buffa settecentesca e ottocentesca, che esigono tutto il virtuosismo del cantante: si pensi alla tirata di Figaro nel Barbiere con l’elenco delle persone che a lui si rivolgono” (“Nel nome di Dioniso”, Garzanti, Milano 1991, p. 30).
Tra le rappresentazioni moderne delle “Ecclesiazuse” nel nostro Paese, ricordiamo qui la rappresentazione avvenuta al Teatro Greco di Siracusa nel 2013, nel corso del XLIX Ciclo di Rappresentazioni Classiche, per la regia di Vincenzo Pirrotta e con il titolo “Le donne al parlamento”; Prassagora era interpretata da Anna Bonaiuto.
L’allestimento si basava su attualizzazioni (un po’ forzate) dei nomi dei personaggi, che alludevano a politici del tempo (Maronide, Berlùschide, Marimontide, Burkezio, Alfànide, ecc.); c’erano pure evocativi striscioni verdi con la frase “Atene ladrona”…
Veniva inoltre reinserita la parabasi (assente nell’originale greco): essa, recitata da un coro di donne coperte dal burka, trattava il tema della violenza fisica e psicologica sulle donne: le coreute, provocatoriamente velate, sfidavano gli spettatori gridando lo slogan “Se non ora quando?”. Nella festa finale, poi, il coro levava il burka mostrandone il rovescio, a colori vivaci: vi si indovinava l’invito a “capovolgere” gli stereotipi sulle donne.
Al termine dello spettacolo il coro proclamava: «Vi abbiamo raccontato un sogno»: l’integrazione delle donne rimaneva un sogno (pensato con una certa pungente ironia maschilista) nell’Atene del IV sec. a. C., ma appare problematica ed aleatoria anche nel nostro XXI secolo…