“L’asso nella manica” un film della lunga e brillante carriera di Billy Wilder
di Mattia Nuzzaci
Appartenente al filone drammatico che caratterizza la prima parte della lunga e brillante carriera di Billy Wilder, “L’asso nella manica” narra la vicenda dello spietato Chuck Tatum, giornalista d’assalto che pur di ottenere lo scoop e la fama, sfrutta l’incidente occorso a Leo Mimosa, un operaio rimasto intrappolato in una caverna nel tentativo di recuperare cimeli indiani, architettandovi un piano diabolico che coinvolgerà altri personaggi. Ne verrà fuori lo squallido ritratto di una società malata e divorata da egoismo ed ambizioni.
Il film, datato 1951, arriva un anno dopo il ben più famoso “Viale del tramonto”, di cui sembra volerne riprendere l’attenzione verso gli esclusi o comunque i respinti dal mondo del successo. Al contrario dell’eterna e fragile sognatrice Norma Desmond, qui il Chuck Tatum interpretato da uno splendido Kirk Douglas (scomparso proprio pochi mesi fa) è invece il ritratto del cinismo e di una sfrontatezza tangibile nella mimica facciale e nei gesti prima ancora che nella recitazione, orgogliosamente sprezzante nei modi in cui denigra certi valori dell’etica giornalistica, anche se scritti in bella vista come il motto Tell the truth presente nella redazione di Albuquerque. É qui che egli vive una sorta di esilio forzato, anzi una “galera a vita” per dirla con parole sue, da cui freme per uscire, sperando nella grande notizia che lo faccia ritornare nel circuito mediatico che conta. Il povero Mimosa è in tal senso l’ultima occasione di rilancio per la sua fallimentare carriera.
Da arguto giornalista che sa cosa dare in pasto al lettore, riesce a corrompere lo sceriffo, simbolo dell’arrivismo politico, ottenendo un ritardo nei soccorsi del malcapitato.
Ancora più spietato il personaggio della signora Mimosa, Lorraine, una donna mai davvero preoccupata per le sorti del marito, che fiuterà l’affare in termini economici.
Chiunque sembra pronto a sfruttare la triste circostanza per una fetta di popolarità, come l’assicuratore intervistato tra la gente comune.
La regia di Wilder è attenta, con una messa in scena che non soffre mai di cali di ritmo e che gioca sul contrasto tra le ombre dei claustrofobici spazi della caverna e la luce del deserto del New Mexico, ben presto adibito a teatrino per questa grottesca spettacolarizzazione del dramma.
I campi lunghissimi inquadrano il sempre più consistente flusso di persone che vi accorrono, nonostante il progressivo aumento della tariffa per entrare nel luogo. È la forza del sensazionalismo giornalistico che non conosce confini e che affascina tutti.
Il regista gestisce alla grande i tempi della narrazione e fa gustare allo spettatore il lato sardonico del fattaccio con qualche voluta esagerazione come la costruzione del luna park in pieno deserto, per poi passare ad un registro più marcatamente tragico e con un’escalation finale che si tinge del melodrammatico simile a quello di un altro suo precedente lavoro e capolavoro “La fiamma del peccato”. Anche in quel caso l’agente assicurativo Walter Neff si era reso complice di un calcolato piano maligno, mostrando però un senso di colpa che qui il giornalista accenna a malapena.
Il film è rappresentativo del caratteristico sguardo disincantato di Wilder sull’uomo e della sua visione amara della società che gli attireranno in carriera non poche accuse di cinismo.
E difatti “L’asso nella manica” che la Paramount rinominerà The Great Carnival senza il permesso di Wilder, sarà un flop al botteghino, incompreso in un’epoca politica complessa per gli Stati Uniti, impegnati in una caccia alle streghe al nemico comunista, dove la verità non era forse così importante. Paradigma che il regista sembra quasi voler trasporre sullo schermo.
Siamo lontani dal professionismo e dalle coraggiose inchieste dei due cronisti del celebre “Tutti gli uomini del presidente” o del più recente “Il caso Spotlight”; qui il potere della notizia è finalizzato al mero soddisfacimento del proprio ego personale e legato in maniera imprescindibile ad una componente economica che travalica il confine con la decenza.
Dietro la tematica dello scoop che verrà ripresa in uno degli ultimi lavori di Wilder, “Prima pagina”, di cui sarà protagonista Jack Lemmon in coppia con Walter Matthau, si cela infatti un messaggio ben più profondo e che ci induce ad un’analisi sulla crudeltà dell’animo umano e sulla questione morale in un film di profetica attualità che anticipa i meccanismi di uno sciacallaggio mediatico che prenderà sempre più piede, non tirandosi indietro di fronte al dolore come nel tristissimo “incidente di Vermicino” che costerà la vita ad un bambino di sei anni e che nella società di oggi si è evoluto, andando oltre la carta stampata, senza nessun sussulto di dignità quando vende la tragedia privata al pubblico. Perché al pubblico in fondo piace. E questo è un altro problema, di certo culturale.
Volendoci ridere su (ma sempre con amarezza) e con i dovuti paragoni, in ambito cinematografico recente, “Omicidio all’italiana”, opera seconda di Maccio Capatonda, rappresenta in maniera estremamente bizzarra e quasi surreale uno dei tanti modi in cui funziona questo spettacolo.
Ammesso che ve ne sia poi davvero uno.