Lafesta di S. Lucia a Palermo
di Mario Pintacuda
Come è noto il 13 dicembre, giorno dedicato a Santa Lucia, i palermitani evitano di mangiare pane e pasta (chi non è palermitano non può capire quale enorme sacrificio sia questo…), compensando però con un ghiotto menu alternativo, in cui il ruolo fondamentale spetta alle arancine (il termine qui a Palermo va rigorosamente usato al femminile) dalla forma tonda e non “puntuta”: arancine al ragù di carne, al burro, agli spinaci, con i funghi, con la salsiccia, col salmone, persino al cioccolato.
Ma siccome non di sole arancine può vivere un palermitano, si aggiunge qualche altra “sobria” portata: panelle di ceci, panelle dolci ripiene (di crema pasticcera, di crema di ricotta o di cioccolato), minestra di ceci, timballi di riso, riso con gli “sparacieddi” (alias broccoletti), crocchette e “gateaux” di patate (qui sicilianizzato in “gattò”), ecc.
Immancabile è poi il dolce tipico di questa festa: la “cuccìa”. Per i non siciliani chiarisco che la cuccìa è il grano bollito e poi condito con ricotta e cioccolata o cannella. Il nome deriva forse da “còcciu” (che in siciliano vuol dire “chicco”).
La cuccìa ha un’origine leggendaria: il 13 dicembre del 1646 approdò nel porto di Palermo una nave carica di grano, che pose fine ad una grave carestia. Tanta era stata la fame che i palermitani avevano patito, che il grano non venne usato per farne farina ma fu immediatamente bollito e condito solo con dell’olio: nacque così la prima “cuccìa” che da allora viene preparata ogni 13 dicembre, in segno di riconoscenza alla Santa per il suo miracolo; l’usanza viene riportata anche dallo studioso di tradizioni popolari Giuseppe Pitrè nel suo libro “Proverbi siciliani”: «Santa Lucia, pani vurrìa, pani nu nn’haiu, accussì mi staiu» (“Santa Lucia, vorrei del pane, ma pane non ne ho e così me ne sto”).
L’aneddoto è stato messo in versi dalla poetessa palermitana Claudia Agnello: “Un beddu jornu arriva di luntanu / rintra lu portu siracusanu / ‘na navi carrica di furmentu / a liberalli ri ‘ddu tormentu. / Pi li cristiani la gioia fu tanta / chi tutti griravanu «viva la Santa!» / Picchi fu grazii a la so ‘ntercessioni / ch’avia arrivatu ‘dda binidizioni. / Tutti accurrìanu a la marina, / ma era furmentu, ‘unn’era farina / e cu un pitittu ch’un facìa abbintari / ‘un c’era tempu di iri a macinari. / Pi mettirisi subitu ‘n’sarvamentu / avìanu a cociri lu stessu furmentu / e pila forma «a coccia» ch’avìa / accuminciaru a chiamalla «cuccìa». / La bona nova arrivà luntana e pi sta màrtiri siracusana / fu accussi granni la venerazioni / chi fici nasciri ‘na tradizioni”.
Diversi studiosi mettono in relazione la cuccìa addirittura con l’antico “kykeòn”, una pietanza a base di chicchi di grano che si consumava durante i misteri eleusini, in onore della dea Demetra. Non mancano però analogie con analoghi dolci arabi; e l’uso potrebbe anche essere un residuo dell’antica tradizione cristiana di rito greco (dolci simili si preparano in paesi di religione ortodossa). Il fatto è che da queste parti sono passate troppe civiltà e troppi popoli… vai a distinguere, ormai, una tradizione dall’altra!
Sembra doveroso poi aggiungere qualche notizia sulla… festeggiata, cioè Lucia.
Secondo la tradizione cristiana, Lucia era una bellissima e nobile fanciulla siracusana, che intorno al 300 d.C. era stata promessa in sposa a un ricco aristocratico pagano. Tuttavia, per ottenere la guarigione della madre da una grave malattia emorragica, Lucia si recò in pellegrinaggio a Catania, presso il sepolcro di S. Agata, a chiederne la guarigione; in cambio fece voto di donare tutti i suoi averi ai poveri e di non sposarsi, per dedicare la sua vita a Dio, consacrandosi in particolare ai malati e ai bisognosi. Il promesso sposo (“bello spicchio”, si dice dalle nostre parti), infuriato, la fece processare davanti al proconsole romano di Siracusa, fino a farla condannare come cristiana (erano i tempi della persecuzione di Diocleziano). Lucia non rinnegò la sua fede, venne martirizzata e privata degli occhi (che però le sarebbero poi miracolosamente ricresciuti); era il 304 e aveva poco più di vent’anni. Non mancano versioni alternative: per alcuni Lucia fu decapitata, per altri trafitta da un colpo di spada alla gola.
In seguito, il culto della Santa si diffuse e per commemorarla fu scelto il 13 dicembre, il giorno ritenuto (a torto) il più corto dell’anno: Lucia infatti era inteso come “promessa di luce”. A Santa Lucia, patrona di Siracusa e protettrice degli occhi (quindi dei ciechi, degli oculisti ma anche degli elettricisti e degli scalpellini), furono attribuiti dalla tradizione popolare numerosi miracoli (come quello, già riferito sopra, dell’arrivo della nave carica di grano nel 1646 che mise fine alla carestia, o come un altro analogo verificatosi a Siracusa).
A questa santa fu particolarmente devoto Dante, che la cita varie volte nella “Divina Commedia” (“Lucia, nimica di ciascun crudele”) e le attribuisce la guarigione da una malattia agli occhi di cui aveva sofferto in gioventù (si definisce suo “fedele”); della santa siracusana il sommo poeta fa il simbolo della Grazia illuminante (indotto anche dal suo nome: “Lucia lucens”).
Io, palermitano soltanto d’adozione, per molti anni sono sfuggito al menu di Santa Lucia. Da quando però ho conosciuto mia moglie, palermitana doc, mi sono adeguato volentieri all’usanza locale; ed essendo “licco” e “manciunazzu”, devo dire che è stato un adeguamento assai gradito. Vero è che il ghiotto menu di Santa Lucia ha qualche controindicazione a livello digestivo, ma le tradizioni vanno comunque rispettate!
Mario Pintacuda
Nato a Genova il 2 marzo 1954. Ha frequentato il Liceo classico “Andrea D’Oria” e si è laureato in Lettere classiche con 110/110 e lode all’Università di Genova. Ha insegnato nei Licei dal 1979 al 2019. Ha pubblicato numerosi testi scolastici, adottati in tutto il territorio nazionale; svolge attività critica e saggistica. E’ sposato con Silvana Ponte e ha un figlio, Andrea, nato a Palermo nel 2005.