IL PENSIERO MEDITERRANEO

Incontri di Culture sulle sponde del mediterraneo – Rivista Culturale online

“L’accoglienza” un breve racconto di Marisa Cecchetti

Dormitori pubblici

Le luci si specchiano sui marciapiedi bagnati e sulla strada nera di notte. Non è tempo di bicicletta. La donna lascia l’auto in un angolo del piazzale del distributore di benzina e fa due parole col gestore che sta chiudendo. Lasciala pure, non dà noia a nessuno, le dice lui. Poi va a piedi a cercare la villa, sì, deve essere quella la villa dell’accoglienza, dove il cancello si apre su uno spazio ampio, un tempo curato a giardino.

Avanza sotto le gocce che stillano dagli alberi e ticchettano sull’ombrello. L’ingresso laterale ha la luce accesa e la porta aperta. Alla prima occhiata, all’ingresso coglie due ragazzi africani con la divisa di una associazione umanitaria – uno seduto davanti a un registro, l’altro a fare fotocopie – poi una giovane donna e due ragazzi bianchi.

Fa due passi incerti e la giovane le va incontro – Buonasera signora, entri, venga avanti. Cerca un posto per dormire?

No, no, farfuglia lei, ritta sulla soglia, colta alla sprovvista.

Ha bisogno di un letto? Le donne stanno al piano di sopra. L’accompagno, entri, entri pure.

No, grazie, dice con lo sguardo fermo, il volto immobile di una statua. Ma dentro sorride.

Il Comune ha aperto da questa sera il dormitorio per i senzatetto e le associazioni si daranno il cambio per fare l’accoglienza durante i mesi invernali, fino a chiusura con i primi caldi di primavera: la donna si rende conto solo ora che oggi non è di turno la associazione con cui lei collabora.

Angelo non lo ha mai voluto il dormitorio, non voleva che lo chiudessero dentro quelle stanze la sera, e riaprissero la porta solo la mattina. Lui voleva sentirsi libero, così la notte si stendeva su una panchina nella sala d’aspetto della stazione, o per terra sopra un cartone, se non c’era altro posto.

Poteva avere superato i sessanta – si dà male l’età a chi vive fuori, al sole e al freddo -, capelli ingrigiti, corpo asciutto del camminatore, viso tinto di vento, in spalla lo zaino con le sue poche robe. Che cosa ci fosse dentro uno zaino come quello lei non gliel’ha mai chiesto, comunque lui aveva un aspetto ordinato quando avanzava sul marciapiede, provenienza stazione: lo vedeva sbucare in fondo alla strada come un punto che si definiva e ingrandiva passo dopo passo. Di sicuro era già andato ai bagni pubblici, perché la sala d’aspetto della stazione deve essere liberata presto dai senzatetto. Di sicuro nello zaino portava dei libri.

Figlio della piccola borghesia di una città di mare, Angelo aveva frequentato il liceo, nella vita aveva fatto il cuoco in Francia e in Italia, aveva avuto un amore e una casa. Poi il tracollo, il vuoto e la perdita di tutto, ospitato al tavolino del bar da un amico, con un letto in un angolo nascosto del locale.

Al tavolino Angelo scriveva su un quadernino nero – una scrittura fitta fitta – e quando ha dovuto lasciare quel rifugio ha scritto sui fogli raccattati dovunque, a penna e a lapis, seduto su una panchina all’aperto d’estate e al riparo d’inverno. Una scrittura che il tempo aveva un po’ scolorito, fatta di parole chiare che aprivano le storie ma diventavano sempre più nervose, secche, uncinate, man mano che la storia avanzava.

Erano storie di una infanzia serena, di una famiglia presente e piena di cure, di vacanze in campagne bionde di grano, in cascinali profumati di pane appena sfornato, vacanze dal sapore e dal colore di fiaba.

A farle conoscere Angelo era stata sua figlia, che lo aveva incontrato a una mensa di carità. Quando glielo raccontò, sua figlia parlava con gli occhi pieni di luce, diceva di lui che era stato un cuoco, che leggeva tanto, che scriveva storie su fogli volanti. Potresti leggerle, mamma, quelle storie, per vedere di cosa si tratta? Potresti ricopiarle al computer?

Al quadernino nero e a quei fogli volanti lei cominciò a dedicare ogni pausa dal lavoro, e da quelle righe che si accaniva a decifrare spuntavano persone, ragazzi, giochi, campi, boschi, animali; quando una parola le risultava indecifrabile, allora evidenziava di rosso, stampava tutto, poi si incontravano a un bar d’angolo, le due donne e il senzatetto.

Che cosa c’è scritto qui? E qui ho capito bene?

Al bar d’angolo lui era al caldo, seduto in mezzo a tutti quelli che un tetto per la notte ce l’hanno e hanno pure i soldi per pagarsi la colazione al bar ogni mattina; il cappuccino profumava anche per lui, e qualche pezzo dolce lo metteva nello zaino per la giornata.

Madre e figlia lo vedevano felice e pensavano che proprio la scrittura potesse portarlo a riprendersi in mano la vita, a non buttarla via.

I fogli stampati crebbero insieme agli incontri davanti ai cappuccini fumanti, approdarono a un concorso letterario e ricevettero premi. La scrittura era sicuramente la strada giusta, e Angelo non rimase sconosciuto né ai senzatetto e nemmeno alle autorità cittadine, che si dettero da fare e gli trovarono un tetto: fu una festa accompagnarlo al monolocale che gli fu assegnato poco oltre le mura. Angelo non andò più alle mense delle associazioni di carità, non aveva bisogno di aggirarsi per le strade e nei parchi, perché aveva casa e rifornimenti di cibo per cucinare.

Il piccolo locale dava su uno slargo dove stazionavano le ambulanze della Pubblica Assistenza, gli uffici aperti a ricevere le chiamate di intervento, i volontari sempre presenti. Nelle nuove condizioni di vita, più dignitose e sicure, persi i suoi riti e i suoi ritmi, senza la spinta del bisogno, Angelo non si riconobbe più, si sentì solo, allora cominciò a rifugiarsi in quegli uffici lamentando dolori ora qua ora là, e consumò la strada del Pronto Soccorso.

Ora non ha più un tetto sulla testa: quelle quattro mura diventarono una prigione. Non verrà nemmeno questa sera al dormitorio.

Non si incontra più, nella buona stagione, sulla panchina fuori porta con un libro in mano. Che cosa leggi di bello? Lui chiude il libro, mostra la copertina, lui legge Pirandello.

Passano pochi anni, Angelo non riconosce più le due donne e nessun altro, nell’Istituto dove lo hanno rinchiuso.

-Purtroppo questa è la fine di parecchi senzatetto, quelli più colti e sensibili vanno fuori testa, si arrendono – ha commentato e chiuso la storia di Angelo il medico che lo ha seguito nel suo scivolare piano piano verso la smemoratezza. Si arrendono, gettano la spugna-.

Nella smemoratezza lui ha ritrovato la libertà.

Signora, le ripete la giovane donna, ha bisogno di un posto per dormire?

Allora lei avanza di due passi, fa il nome della sua associazione – benvenuta, benvenuta, grazie, si sieda pure, lì c’è una sedia libera – stringe tante mani, entra nella foto di gruppo.

Poi resta in piedi vicino alla porta della camera: lei vorrebbe vedere Angelo   seduto su un lettino, uno di quelli pronti per la notte, ma incontra solo volti sconosciuti.

Sorride: no, no, lui non avrebbe mai accettato di dormire dietro porte chiuse.


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